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Sono un disegnatore

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Questa intervista è stata realizzata lo scorso novembre nella casa di Ettore Sottsass e Barbara Radice a Milano. La trascrizione dell’intervista, modificata solo nella sequenza degli argomenti trattati, non è stata rivista da Ettore Sottsass, scomparso l’ultimo giorno dell’anno 2007.

Stefano Boeri

(abitare.corriere.it) Ettore Sottsass Sono malato, ma di un male relativo, per cui per lunghi periodi è quasi come se stessi bene. Qualche volta invece il male alla schiena diventa così forte che il mio cervello è come imprigionato nel dolore…

Stefano Boeri La presenza della malattia non è una novità nella tua vita.

E.S. Nei primi anni Sessanta ho avuto una grave forma di nefrosi. Ricordo che un medico italiano mi aveva invitato a fare testamento. Eppure non provavo dolore: morivo e basta. Finché un giorno, nella primavera del 1962, Roberto Olivetti non mi convinse ad andare a farmi curare negli Stati Uniti, a Palo Alto, dove lavorava il Nobel della medicina che aveva inventato il prenesone, la prima forma di cortisone. E lo usava per curare le nefrosi…

S.B. E così in poche ore ti sei trovato nella mitica stanza 128 del Medical Center della Standford University a Palo Alto (California).

E.S. Roberto mi aveva aiutato in tutto. Ero nella "senator room", la più bella, con vista sul Parco dell’Università. I dottori mi studiavano: infilandomi in grandi macchine che ruotavano per fare fotografie tridimensionali oppure scrutando per decine di minuti le mie unghie… Una volta mi misero in carrozzella al centro di un palcoscenico…

S.B. Eppure tutto questo non ti ha impedito di inventare, proprio in quella stanza, una piccola rivista ciclostilata che è diventata un riferimento per tutto il movimento pop e underground dei decenni successivi…

E.S. Il prenesone mi faceva funzionare il cervello a velocità supersonica; riuscivo a non dormire per 3-4 notti… disegnavo, scrivevo, ero pieno di idee… Nel frattempo ricevevo lettere dagli amici italiani e non sapevo come rispondere a tutti, o forse non avevo voglia di rispondere a tutti. Finché un giorno è venuto a trovarmi un signore che aveva costruito un ciclostile a colori e così mi sono detto: "faccio un giornaletto e lo mando agli amici".

S.B. E così è nato "Room East 128 Chronicle", oggi un mito nella storia delle riviste culturali di avanguardia. In queste settimane a Londra, presso l’Architectural Association c’è una piccola mostra sulle riviste Radical e Underground, curata da Beatriz Colomina e da un gruppo di ricercatori di Princeton, che raccoglie le copertine di una cinquantina di riviste capaci negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso di sovvertire i format dei principali periodici internazionali di cultura, arte e architettura. E come generatrici di questo ciclone di ossigeno editoriale, l’esposizione colloca tre riviste: "Polygon", celebre pubblicazione underground inglese fondata nel 1956; la rivista dell’Internazionale Situazionista e la tua "Room East 128 Chronicle".

E.S. All’inizio è nata come una specie di lettera collettiva per gli amici. Ci mettevo tutte le notizie della mia vita quotidiana: dall’elenco delle medicine, ai nomi dei dottori, al resoconto delle visite degli amici che mi venivano a trovare. E poi ci incollavo i collage che facevo coi giornali americani. Ritagliavo e montavo la pubblicità dei quotidiani per costruire un discorso pop sulla noia della famiglia media americana… Abbiamo fatto tre numeri diffusi tra gli amici: il primo in poche decine di copie. Poi "Room East 128 Chronicle" è diventata la sigla di un’altra serie di piccole pubblicazioni fatte a Milano in cui stampavamo in serigrafia le poesie calligrafiche, che hanno poi dato vita a "Pianeta Fresco"…

S.B. E non uscivi mai?

E.S. Accanto a me, in una branda, dormiva Fernanda (Pivano). Che di giorno usciva per trovare i suoi amici poeti, come Allen Ginsberg e Gregory Corso, che poi venivano a trovarmi per chiacchierare… È lei che mi ha introdotto a questo mondo straordinario. Un giorno un loro amico mi promise che mi avrebbe portato in stanza Marilyn Monroe, che però proprio quel giorno si suicidò… Un altro giorno scappai dall’ospedale con Ginsberg e un gruppo di motociclisti degli Hells Angels (che lo adoravano) per andare a incontrare Bob Dylan che suonava a Berkeley… Ricordo la straordinaria varietà dei vestiti degli studenti americani – chi aveva la pelliccia, chi le piume, chi una palandrana – una folla pazzesca di individui vivi, complessi e unici. E ognuno aveva qualcosa di diverso da raccontare sulla vita.

S.B. Questa immagine di una folla ricca di individualità irriducibili, di una folla che dunque non ha niente a che vedere con una massa di persone, mi ricorda la teoria del "Grande numero", che anche Giancarlo De Carlo portò con sé in Italia dopo un periodo di studi negli Stati Uniti e che poi ispirò la Triennale del 1968…

E.S. Beh quella folla era bellissima e non era politica, nel senso che allora nessuno parlava di ideologie. Al nostro ritorno in Italia cercammo in un certo senso di farla rivivere. Nella nuova casa in via Manzoni, tutte le sere Fernanda invitava dei ragazzi a raccontare la loro vita e a portare dei testi: chi lavorava in fabbrica, chi studiava, chi era sottoproletario, chi montava le scene alla Scala. Non c’erano professionisti dell’arte o dell’architettura. Ci sedevamo, fumavamo insieme e ognunocominciava a mostrare agli altri i propri disegni o a recitare le proprie poesie… Così è nato "Pianeta Fresco", che veniva venduto accompagnato da una rosa.

S.B. Insomma, quella stanza di ospedale a Palo Alto è un po’ una metafora della tua vita. In fondo tu hai sempre prodotto cose straordinarie facendole scaturire dalle relazioni interpersonali. Da Pianeta Fresco a Memphis, da Global Tools a Terrazzo, sei riuscito a condensare idee, emozioni, esperienze di gruppi ristretti di amici realizzando opere universali…

E.S.Sì, ma è anche la malattia che ti spinge a pensare alla tua vita, alla tua morte, al futuro, al tempo. Perché in una malattia c’è sempre una zona di solitudine assoluta; anche se sei assistito meravigliosamente, come mi accade in questi giorni grazie all’aiuto straordinario di Barbara (Radice), anche se vengono a trovarti molti amici… in fondo, la malattia è un colloquio continuo con te stesso, su cosa sei e cosa sarai.

S.B. Ma a volte, per un architetto, la malattia, può aprire una prospettiva diversa sugli spazi della propria vita…

E.S. A volte succede… per esempio quest’estate, per andare nella nostra casa di Filicudi, ho dovuto prendere un elicottero. Con Barbara abbiamo volato sull’arcipelago delle Eolie e sull’isola di Vulcano. E mentre guardavo dall’alto i crateri ho cominciato a pensare ai cataclismi geologici che hanno sconvolto il Mediterraneo milioni di anni fa… sono cose che ti danno il senso dell’universo, ma anche della nostra fragilità e piccolezza…

S.B. Che ti fanno anche pensare come in fondo la vita animale non sia poi così diversa dalla vita di un territorio… siamo so_ etti a fenomeni improvvisi e imprevedibili che determinano stati di cose che invece hanno durate lunghissime…

E.S. Ci sono dei momenti in cui mi viene da piangere a pensare come è stata bella la mia vita. Con Barbara siamo stati in posti incredibili, abbiamo navigato in canoa in Nuova Guinea in mezzo a persone che soltanto cinque anni prima erano ancora cannibali, abbiamo fatto cose pazzesche… Io penso che la vecchiaia non sia altro che nostalgia… Io avevo una tale voglia di possedere il mondo che oggi sto dando nutrimento a questa nostalgia…

S.B. Elaborare il sovraccarico delle esperienze vissute – questa è forse la cosa formidabile di una vita colma di esperienze come la tua… Una vita che tutti vorremmo vivere.

E.S. È anche per questo che sto scrivendo un’autobiogra_ a. Con molta fatica, perché ho bisogno di vedere la scrittura e le sue fasi, gli errori, le cancellazioni, magari tornare indietro… Insomma: non mi va di usare il computer e non posso certo dettarla… Perché io sono un disegnatore.

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