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Dopo l’acciaio: il cielo sopra Essen

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Viaggio nella Ruhr che risorge dall’industria siderurgica. Un tempo inquinatissima capitale della siderurgia tedesca, oggi questa città è diventata  ecologica e “smart”: qui è rinato persino l’Emscher, il famigerato fiume dei veleni Attenzione all’ambiente senza rinunciare al lavoro: un esempio per Taranto, Bagnoli e l’Italia

DALLA NOSTRA INVIATA TONIA MASTROBUONI


Era il cuore d’acciaio della Germania, la patria dell’impero Krupp che forgiava cannoni e aveva fornito la simbologia nefasta della potenza hitleriana. Ma Essen era una città infernale. Sopra, viveva imprigionata in un cielo eternamente nero, denso di fumi e di veleni sprigionati dagli altoforni. Sotto, un dedalo di miniere che scavavano la terra divorando il suolo e abbassandolo di metri e metri. In mezzo, fiumi come la Ruhr e l’Emscher gonfi di scarichi e liquami, perché gli smottamenti delle gallerie impedivano di costruire tubature e fogne. Di generazione in generazione, per chi nasceva lì non c’era alternativa tra forni e pozzi, condannati allo stesso destino di malattie letali.

Poi la guerra ha raso al suolo tutto, spianando sotto ondate di bombe la fucina del Terzo Reich. Da quelle rovine è partita la rinascita industriale della nuova Germania. E da lì è cominciata un’altra rinascita, più lunga e complessa, che ha reso Essen la capitale verde d’Europa. Una metamorfosi scandita dall’ambiente e dalla cultura, dai parchi e dagli atenei, con progetti piccoli e grandi che si sono fusi in un disegno vitale. Senza traumi sociali, investendo il denaro pubblico per difendere l’occupazione costruendo il futuro. Una rivoluzione partita dal basso, con le risorse dello Stato e la gestione dei governi locali, con l’investimento delle aziende e il coinvolgimento delle comunità: pubblico e privato che si muovono verso lo stesso risultato. E un concetto chiave, che ripetono tutti i protagonisti di questo miracolo: fare sistema. Perché una rivoluzione richiede tempo e visioni di lungo periodo: le iniziative vanno avanti nonostante i cambiamenti di giunte e di sindaci, affidati agli stessi specialisti, dando spazio alla forza delle idee nella concretezza dei progetti. 

Il cammino della risurrezione è stato duro, non tutti i problemi sono stati risolti e resta la difficoltà di dare un impiego dignitoso all’ultima leva di operai e minatori. Ma adesso c’è la possibilità di guardare avanti. Ci sono fiumi dove si può nuotare, ci sono edifici industriali riconvertiti in nidi di start-up, atelier di artisti, uffici di società innovative. E ci sono orticelli ovunque. Il sindaco Thomas Kufen però non è soddisfatto: il prossimo obiettivo è quello di cancellare il traffico, affidando tre quarti della mobilità cittadina a mezzi pubblici, biciclette e pedoni. 

Quella di Essen è una grande lezione, che andrebbe studiata da tutti in Italia per evitare di ripetere gli errori di Bagnoli: venticinque anni dopo la chiusura dell’Italsider, sono stati sprecati fondi colossali senza riuscire neppure a completare la bonifica, nell’accavallarsi di società, amministrazioni, burocrazie e di inefficienza collettiva. Un modello fondamentale anche per cominciare a disegnare il domani di Taranto, soffocata da un passato industriale che semina morte e non ha prospettive. Nella cupa regione della Ruhr sono riusciti a trasformare fabbriche e miniere in attrazioni turistiche, noi non siamo stati capaci di farlo negli angoli più affascinanti del Mediterraneo. 

I protagonisti

L’assessora eroina che da due decenni porta avanti i progetti per la rinascita. Il sindaco che vuole eliminare le auto. L’architetto che ha trasformato le rovine della Krupp in un parco di colline verdi. L’uomo che è riuscito a risanare uno dei fiumi più inquinati d’Europa. L’attore che impersona i minatori e gli operai della Ruhr. L’artista a cui il comune ha affidato la diffusione degli orticelli urbani. 

Il cielo sopra Essen, oggi, è limpido. E il sole di gennaio bianco, accecante. Non siamo lontani dal punto in cui il fotografo di Alfred Krupp si piazzò un secolo e mezzo fa per una celebre veduta panoramica. Krupp fu costretto a chiamare il fotografo di domenica. E a pagare gli operai per farli venire nel giorno di riposo, per poterli usare come comparse davanti agli altiforni spenti e fingere una normale giornata di lavoro. Nella metà dell’Ottocento, la domenica era l’unico giorno della settimana in cui il fumo delle ciminiere non appestava il cielo di Essen.

Da quando Krupp ereditò, poco più che bambino, la fabbrica dal padre Friedrich, fu costretto a indebitarsi per anni con i parenti, a girare le fiere di mezzo mondo come un pazzo. Anche la foto panoramica col cielo sgombro di fumi doveva servire a pubblicizzare le sue leghe preziose, le sue innovazioni metallurgiche. Poi, il suo potente cannone di acciaio, che divenne l’attrazione dell’Esposizione universale di Londra nel 1851, e l’anello indistruttibile per le ruote da treno, lo tirarono fuori dai guai e trasformarono la sua acciaieria di Essen nella più grande e la più importante d’Europa.

L’anello, moltiplicato per tre, diventò nel 1875 il marchio dei Krupp. E i detrattori di Alfred, racconta il biografo Frank Stenglein, colsero già in quel simbolo il futuro di una stirpe di imprenditori patriottici della provincia prussiana. Videro in quei cerchi tre bocche di cannone intrecciate. Un destino di guerra. “Agili come levrieri, resistenti come il cuoio, duri come l’acciaio Krupp”, fu questo il motto di Adolf Hitler per forgiare la sua Germania di bestie, di disumani superuomini.

Scrutiamo il cielo di Essen in una mattina gelida e miracolosamente assolata. Tutt’intorno a noi, si distende un parco meraviglioso. Andreas Kipar ci viene incontro con una calorosa stretta di mano. In questa porzione del terreno dei Krupp, che ha sempre misurato un multiplo del centro storico di Essen, la produzione di armi, sottomarini, monete o locomotive ha incarnato per decenni la condanna e la salvezza di una parte importante della Germania. Oggi non ce n’è più traccia. La guerra ha spazzato via tutto. Con il contributo degli abitanti del quartiere, l’architetto di Gelsenkirchen ha progettato in un angolo di questa zona – quasi abbandonata per settant’anni – uno stupendo spazio verde, il “Krupp-Park”.

Dopo tanti anni vissuti a Milano, Kipar gesticola come un italiano e non nasconde un’irrefrenabile allegria per il sole che ha schiarito l’orizzonte e lo fa correre in cima a una collina per mostrarci tutto. “Presto, venga, da qui si vede meglio!”, grida. Ha ancora la fretta di chi è cresciuto in queste regioni piovose e sa che il cielo si oscura in un istante.

Dall’inferno al paradiso

Dalla più alta delle cinque colline si vedono i ventitré ettari di terra avvelenata dei Krupp che Kipar è riuscito miracolosamente a recuperare: “È una terra abbastanza inquinante ma non troppo”, puntualizza. “Non c’era bisogno di disfarsene, andava bene per il parco. Ovviamente, non va bene per essere coltivata”. Lo sguardo scivola lungo i viali che si infilano tra le curve sinuose dei prati, i campi da gioco, il ponte di pietra, il laghetto con un terrazzo d’acciaio che si affaccia sullo specchio d’acqua come un proscenio. Dove una volta c’era un inferno, oggi c’è un paradiso. “Per fare i modellini delle colline, per rendere l’idea di quanto le volessimo morbide, abbiamo usato il materiale che si usa per gonfiare i seni”, ridacchia. Anche nelle curve dei suoi paesaggi, Kipar vede un segno del riscatto della de-industrializzazione. “Dobbiamo viziare la gente che era abituata agli spigoli e alle linee rette e alla durezza, dobbiamo coccolarli con le forme tonde, con la morbidezza”.

Kipar lavora tanto anche in Italia: “Una cosa che mi ha fatto impazzire di gioia è quando abbiamo inaugurato il Parco Nord e i milanesi sono scesi in pantaloncini. I milanesi! In pantaloncini! Quando ho chiesto spiegazioni, uno mi ha detto: “Ma per noi è come il giardino di casa”. Ecco, quando sento queste cose, mi scoppia il cuore”. Quando però ricordiamo a Kipar un altro progetto italiano cui tiene “tantissimo”, come sottolinea varie volte, l’architetto si mette le mani nei capelli. “Siamo a Bagnoli da quanto… Venticinque anni? E non succede niente, niente”.

Il “Krupp-Park” è stato inaugurato nel 2010, quando anche il quartier generale della Thyssenkrupp è tornato qui. Gli edifici interamente ricoperti di acciaio si stagliano all’orizzonte, sono divisi dal Krupp-Park da una strada e le forme taglienti sono in contrasto con le colline sensuali di Kipar. Ma al posto degli operai neri di fuliggine e con gli occhi impastati di sudore, dalle sue eleganti porte di vetro entrano ed escono, con l’aria molto indaffarata, uomini in giacca e cravatta e donne in tailleur. Un altro segno del cambiamento avvenuto in questa città.

La realtà quotidiana degli operai, dei minatori e degli abitanti della regione della Ruhr, nell’epoca d’oro dell’acciaio e del carbone, è stata sempre un inferno. Tra la metà dell’Ottocento e la fine del Novecento è una realtà di madri che urlano ai figli di portare dentro il bucato appena ripartono le ciminiere, di donne costrette a togliere ogni mattina uno spesso strato di fuliggine dai davanzali delle finestre. Di nonni, padri e nipoti ammalati di leucemia, di silicosi e asbestosi e perennemente afflitti da quella tosse tutta particolare, inconfondibile. Che da queste parti si chiamava Krupphusten, “la tosse di Krupp”.

Adesso, a Essen, Duisburg o Dortmund, chiunque cita la famosa frase del vecchio cancelliere socialdemocratico Willi Brandt. Nel 1961 proclamò che “il cielo sopra la Ruhr deve tornare blu”. Si rivelò una promessa. “Quando abbiamo inaugurato il Krupp-Park, la gente di questo quartiere, la gente di Altendorf, si è messa a piangere”, ricorda Kipar, indicando con il mento una fila di case che delimitano i prati dal lato opposto. “Come saprà, durante il Secondo conflitto mondiale qui tutto era stato raso al suolo”. Le incursioni degli alleati, che hanno bombardato Essen come nessun’altra città della Germania – proprio a causa delle fabbriche di armi – hanno significato una cesura brutale.

Dopo la guerra, dell’enorme distesa di altiforni e ciminiere di mattoni, di fuoco, di fumo e di rumori assordanti dei “fabbri del Terzo Reich”, come Hitler aveva definito i Krupp, non era rimasto che un cumulo di macerie. “Era un enorme deserto grigio, deprimente”, sottolinea Kipar. Un paesaggio abbandonato, un memento della grandeur guerrafondaia che continuava a ricordare, a chi aveva la sfortuna di abitare ancora davanti alle vecchie acciaierie, le colpe di una dinastia che si era fatta ammaliare da Guglielmo II e dal Führer. Oltretutto, una volta disperse nelle altre località della Ruhr e soprattutto a Duisburg le nuove acciaierie dei Krupp, gli abitanti di Altendorf avevano comunque continuato ad abitare sotto al cielo nero delle altre centinaia di fabbriche tossiche della regione.

Girando lo sguardo verso gli edifici metallici della ThyssenKrupp, all’orizzonte si staglia la torre di una vecchia miniera di carbone. Da lontano si intravedono puntini arancioni in movimento – operai che si danno ancora da fare sulla piattaforma. Ma non per tirare su l'”oro nero” della Ruhr. Ci giriamo con aria interrogativa verso il nostro Virgilio di questo viaggio negli abissi della de-industrializzazione. Si chiama Markus Pliessnig ed è il portavoce di uno dei tanti prodigi avvenuti qui: la nomina da parte della Commissione Ue di Essen a “Capitale verde d’Europa 2017”.

Ma intanto, la miniera ancora in funzione testimonia il lato oscuro degli oltre 150 anni di sfruttamento mostruoso del carbone, ci racconta Pliessnig. “Qui li chiamiamo “gli oneri eterni”. Quegli operai stanno tirando su l’acqua”. Nell’intera zona della Ruhr, che misura ben 4.435 km quadri e concentra oltre cinque milioni di abitanti sparpagliati per una cinquantina di città tra cui Dortmund, Bochum, Duisburg, Oberhausen o Essen, il suolo è crollato in media di otto metri rispetto al livello pre-industriale. In alcuni punti, l’abbassamento ha raggiunto persino i venti metri.

“Tutta questa parte della Germania, è stata scavata, svuotata per un secolo e mezzo selvaggiamente. È stata devastata a tal punto – aggiunge Pliessnig – che finirebbe subito allagata, se l’acqua non venisse tirata su costantemente attraverso le vecchie pompe delle miniere”. Quello delle pompe che salvano ogni giorno la Ruhr da una catastrofe dalle conseguenze inimmaginabili, causata interamente dall’uomo, è un incubo da 220 milioni di euro all’anno. Un compito gravoso affidato a centoventi operai specializzati ai quali ogni amministrazione futura, di qualsiasi colore essa sia, dovrà affidarsi per sempre.

Attraversiamo il parco di Kipar e ci avviciniamo alle case basse di Altendorf, il quartiere degli operai e dei minatori che ha ancora una fama di luogo difficile, popolato da gente lasciata indietro quando negli anni Sessanta è cominciata, lentamente e inesorabilmente, la riconversione, il progressivo rimpicciolimento dell’industria più florida e più inquinante della Germania. Negli anni Ottanta, molti giornalisti l’avevano persino definita un’area off limits, dove non inoltrarsi. Un’esagerazione, forse. Ma è vero che a Essen continua ad esistere una differenza enorme, come se la città restasse spaccata in due. Il Nord, dove ancora oggi la scolarizzazione è più bassa, i disoccupati sono più numerosi, il disagio palpabile. E il Sud, più benestante, che appartiene a chi si è arricchito con l’acciaio e il carbone – qui c’è la famosa Villa Hügel dei Krupp – ma anche di chi lavora nelle numerose aziende quotate in Borsa che hanno il loro quartier generale qui.

A Essen, afflitta ancora da un 11 per cento di disoccupazione, ossia il doppio della media nazionale, l’86 per cento dei lavoratori è impiegato ormai nei servizi e nella finanza. Il confine tra i due mondi, tra le due parti della città, è rappresentato da una grande striscia d’asfalto, la A40, la famosa “autostrada della Ruhr” che qui preferiscono chiamare “il parcheggio più lungo della Ruhr” a causa del traffico perennemente congestionato.

Incontriamo Norbert Rittmann nella sua piccola abitazione con giardino di Altendorf, dove vive da 45 anni. Il “cittadino-reporter” è uno straordinario testimone della rivoluzione avvenuta davanti alla sua porta di casa. Barba bianca, birkenstock con allegri calzini blu, due occhi vivacissimi, Rittmann ci offre un caffè e comincia a pescare tra i ricordi. “Questa casa, ai tempi d’oro, era divisa in loculi. Ci vivevano gli operai e i minatori. Gente semplice, che faceva una vita massacrante, inimmaginabile al giorno d’oggi”. E, andando più indietro ancora, alla sua infanzia, l’appassionato fotografo rievoca il “muro di Altendorf”: “I miei non avevano neanche i soldi per il tram, quindi andavo a scuola a piedi, camminando accanto la fabbrica. Era protetta da un muro alto, lunghissimo, che ci separava dal mondo dei “kruppiani””. Quello dei “kruppiani”, a Essen, era l’universo degli operai: un mondo a sé. Con le loro famiglie venivano accompagnati dall’azienda “dalla culla alla tomba”, avevano a disposizione assicurazioni sanitarie, ospedali, “persino un supermercato tutto per loro”, rammenta Rittmann.

La rivincita della natura

Riprendiamo il nostro viaggio nell’ufficio di Pliessnig, che ha la scrivania piena di depliant, rapporti, numeri. “Una volta l’industria schiacciava l’uomo”, ragiona. “Adesso, a Essen, la natura si sta riprendendo tante terre, e si è ripresa anche le miniere e i fiumi”. La città dei Krupp ha subito una trasformazione talmente radicale, negli ultimi decenni, tanto da imporsi come “Capitale verde d’Europa 2017”. Karmenu Vella, Commissario Ue all’Ambiente, ha motivato la scelta cosi: “La trasformazione di Essen nella città più verde del Nordreno-Westfalia è tanto più interessante e impressionante se si considerano le forti radici della città nell’industria dell’acciaio e del carbone”. Le città che hanno ricevuto questo riconoscimento in passato sono Stoccolma, Copenaghen o Nantes, concorrenti prestigiose ma con una storia radicalmente diversa. Indubbiamente più lineare.

Pliessnig elenca le cifre dell’anno d’oro: 453 progetti di cui 210 proposti dai cittadini, 56 conferenze, 200mila visitatori, di cui 35mila hanno visto la mostra sulla capitale verde. “È stato faticoso, ma è stata un’esperienza bellissima”. Mentre stiamo sorseggiando il quinto caffè della giornata, si apre la porta del suo ufficio e fa capolino la faccia da ragazzina di Simone Raskob, l’assessora che ha diretto la metamorfosi ecologica. Una leggenda da queste parti. Senza troppi preamboli, come è tipico dei “ruhriani”, noti per essere diretti e poco inclini alle cerimonie, Raskob si presenta, si siede e ci guarda con aria interrogativa: “Prego”.

I numeri della svolta ambientale sono impressionanti: il 53 per cento di Essen, che conta quasi 600mila abitanti, è costituito da aree verdi. È agganciata alla “superstrada per le bici” più lunga d’Europa, cento chilometri di Radschnellweg Ruhr che, lungo una vecchia tratta della ferrovia, collegano Duisburg e Hamm. E ha quasi l’acqua potabile più pulita della Germania. Dopo quaranta anni di divieto di balneazione, nel 2017 i primi temerari si sono potuti tuffare nella Ruhr, il fiume che taglia Essen e che ha regalato il nome a tutta la regione del vecchio “polmone nero” della Germania.

L’avvio della “città verde” è stato facilitato, un secolo fa, da un urbanista visionario come Robert Schmidt: tra il 1907 e il 1920 pensò che agli operai fiaccati dai fumi e dai veleni dovessero essere garantite delle oasi anche in città. Moltissimo, però, ha fatto la riconversione recentissima. E una delle eroine degli ultimi, faticosi capitoli della metamorfosi di Essen è proprio Simone Raskob. Ha portato un faldone da consultare, da bravo ingegnere. Ma la sopravvivenza a tre sindaci l’ha resa estremamente asciutta e pragmatica anche nell’eloquio. Uno dei segreti della rivoluzione che Raskob sottolinea subito è proprio quello della “continuità”. La caratteristica principale che manca tragicamente all’Italia, dove ogni cambio di amministrazione azzera staff e progetti, rimettendo in discussione tutto. Nella città sulla Ruhr nessun nuovo sindaco ha avuto l’ansia di distruggere il passato per accreditarsi. E Raskob ha potuto lavorare tranquillamente, nei lunghi anni al servizio del Comune, alla serie di iniziative che hanno dato vita alla rinascita. “Io ho avuto tre sindaci – osserva – espressione di coalizioni anche molto diverse, ma i nostri progetti sono stati accettati ogni volta all’unanimità. La convergenza politica, qui, è unica”. Il segreto della metamorfosi è stato “porsi degli obiettivi anche molto ambiziosi, di decennio in decennio: sono quelli il motore della trasformazione”.

Prima ancora che lei conquistasse il suo posto al Comune, “il primo impulso importante è arrivato nel 1989”, racconta. Grazie a due figure straordinarie dell’ultima fase del rinascimento, quella della svolta ambientale e del recupero – non solo museale – delle miniere. A Christoph Zöpel, ministro dell’allora governatore del Nordreno-Westfalia Johannes Rau, e Karl Ganser, suo capo dipartimento, venne un’idea rivoluzionaria: finirla con la chiusura e lo smantellamento delle miniere. Bisognava recuperarle, mantenerle vive come monumenti dell’industrializzazione, come orgogliose testimonianze del miracolo del dopoguerra, di cui la Ruhr fu il motore. Inoltre, Zöpel e Ganser decisero di attirare qui in città il progetto “Iba”, della Fiera internazionale dell’architettura, per dedicare i dieci anni successivi al recupero della Emscher, l’altro fiume che attraversa il distretto ma non è mai stato percepito come tale. “Logico: era una cloaca a cielo aperto”, esclama Raskob. Letteralmente.

I continui scavi nelle miniere producevano smottamenti e non si potevano costruire tubi per una rete fognaria interrata. Gli assestamenti del suolo li avrebbero spezzati di continuo. Così, per decenni, i resti organici di miriadi di famiglie, gli scarichi industriali e agricoli andavano a finire tutti nella Emscher. Soltanto la chiusura dell’ultima miniera a Essen, nel 1986, ha consentito di incanalare sotto terra la “cloaca a cielo aperto”. L’impulso decisivo, appunto, è venuto dall’Iba del 1989. Un evento internazionale che è servito a marcare una tappa nel cammino di risurrezione, trasformando l’appuntamento nel trampolino per avviare la fase successiva.

Negli anni Duemila, racconta Raskob, che allora era già assessora all’Urbanistica, “la sfida è stata quella di conquistare lo scettro di “Capitale della cultura””, che la Ruhr ha effettivamente vinto nel 2010. Quello che molti dimenticano è che in questo territorio di 5,1 milioni di persone, fino agli anni Sessanta nessuno aveva ritenuto necessario costruire un’università. Soltanto allora si è capito che forse il destino di milioni di persone abituate a fare il mestiere micidiale dei padri e dei nonni meritasse un riscatto. Così nel 1962 arrivò il primo ateneo, quello di Bochum. “Prima di allora, quasi 500mila persone lavoravano nelle miniere, e gli studenti erano zero. Oggi è l’opposto. Nella Ruhr ci sono 350mila studenti e pochissimi minatori. E con la chiusura degli ultimi impianti estrattivi, scenderanno a zero”. La tappa successiva è stata la “Capitale verde d’Europa”.

Quel fiume non è più “una cloaca”

Attraversando questa regione in treno appena vent’anni fa, nessuno avrebbe mai immaginato i paesaggi che si vedono oggi. Raskob stessa parla, nel caso di Essen, di “città unica al mondo, nella capacità di trasformarsi così tanto in così poco tempo”. Ed è anche vero che non tutti i centri della Ruhr hanno saputo tenere il passo. Ma la costanza politica, la continuità nelle traiettorie intraprese, la capacità unica al mondo del capitalismo corporativo che si è sviluppato tra il Reno, la Emscher e la Ruhr, hanno radicalmente trasformato questa regione. Qui il concetto di “fare sistema” è un imperativo da sempre: un’altra lezione che l’Italia non riesce a imparare.

Il fiume Emscher ne è un esempio clamoroso. Per oltre un secolo “cloaca a cielo aperto”, è stata totalmente restituita alla natura. E agli uomini, ovviamente. Che hanno sempre considerato quegli 83 chilometri appestati una “zona rossa” ad alto rischio. I bambini ci giocavano di nascosto, ma come ammise una volta lo scrittore Walter Wehner, “quando il pallone finiva là dentro, il portiere sapeva che al primo tiro in porta avrebbe avuto la faccia piena di cacca”. La fine degli scavi per il carbone, nel 1986, ha consentito finalmente di realizzare delle vere fogne. Ed è nato uno dei più grandi progetti infrastrutturali della Germania, poco pubblicizzato perché non ha il glamour della filarmonica di Amburgo o la grandeur del nuovo aeroporto di Berlino, ma comunque fondamentale.

Nel 1992 la Emschergenossenschaft, la società che raduna da oltre un secolo i diciannove comuni, le imprese e le miniere che si affacciano sul fiume, ha cominciato ad amministrare questo piano da oltre cinque miliardi di euro. Quando lo incontriamo l’amministratore delegato, Uli Paetzel, che ci tiene a manifestare la sua grande passione per “quel genio di Elena Ferrante”, sottolinea subito “come questo ambizioso progetto infrastrutturale è espressione di una grande convergenza di energie” e dimostra “che nella Ruhr, che la città delle città, l’unione fa la forza”. Nel 2016 già si contavano quasi duecento specie animali e vegetali tornate a popolare questo fiume che oltre a Essen tocca città importanti come Dortmund, Gelsenkirchen o Oberhausen. “Nella Emscher sono tornati i pesci, nei prati intorno le libellule, per chi è cresciuto qui uno spettacolo pazzesco”, osserva Paetzel. La frase chiave è sempre la stessa: la capacità di “fare sistema”. E la storia della de-industrializzazione della Ruhr è costellata di esempi di convergenze felici.

Rinascere dalle ceneri dell’acciaio

Negli anni Sessanta, il grande cancelliere Ludwig Erhard non voleva chiudere la Germania alla concorrenza internazionale, pensava che avrebbe favorito prezzi energetici più bassi, essenziali per il boom economico ancora in corso. Ma si dovette piegare a un cartello organizzato dall’amministratore delegato di Thyssen, Hans-Günther Sohl: riunì 31 industrie metallurgiche tedesche, suddivise in quattro aree, decise a concordare i prezzi e gli investimenti e a proteggersi dalla concorrenza internazionale che con la nascita della Comunità europea dell’acciaio e del carbone rischiava di diventare ancora più pressante. In una leggendaria telefonata riportata allora dallo Spiegel, il cancelliere si fece passare i rivoltosi riuniti segretamente a Monaco e tuonò da Bonn: “Volete fare un attentato al libero mercato?”. Ma alla fine anche Erhard dovette piegarsi alle sovvenzioni per le fabbriche e le miniere che dal 1957 avevano già cominciato a entrare in crisi.

Anche il carbone iniziò allora la sua spirale discendente. In quell’anno, la Ruhr aveva raggiunto il picco storico dei minatori: 495.847 distribuiti su 146 miniere. Da allora i numeri sono calati velocemente. Nel 1980 erano ridotti a un meno di un quarto, 143.440. Quest’anno la Germania chiuderà ufficialmente le ultime due miniere. L’era del carbone “classico”, della hard coal, la lunga stagione tedesca della Steinkohle, si concluderà ufficialmente a dicembre del 2018. Resteranno aperte quelle della Braunkohle, della lignite, meno nobile ma più redditizia.

Tuttavia, l’esempio più clamoroso della leggendaria capacità tedesca di “fare sistema” risale forse agli anni Ottanta. Allora scoppiò l’ennesima crisi dell’acciaio, quello tedesco crollò ancora una volta sotto la pressione immensa della concorrenza cinese e russa. Ma soluzioni se n’erano sempre trovate, spesso a carico dei contribuenti, che a un certo punto dovettero pagare persino il “centesimo del carbone”, una tassa per sostenere l’attività estrattiva. Oppure dei consumatori, che dovettero accettare bollette più onerose perché i colossi energetici accettarono a più riprese di approvvigionarsi prioritariamente alle miniere di carbone.

L’annuncio improvviso della chiusura dell’impianto di Ruhrhausen, a Duisburg, che avrebbe lasciato per strada seimila operai, provocò nel 1987 un’ondata di rabbia. Negli anni precedenti, in 65mila avevano già perso il posto nelle acciaierie della Ruhr. I sindacati e i lavoratori scesero in piazza, proclamarono scioperi, bloccarono porti e strade, e l’amministratore delegato di Krupp, Gerhard Cromme, fu bersagliato da uova marce e pomodori. La situazione rischiò di degenerare a tal punto che il politico socialdemocratico Friedhelm Farthmann parlò di “una situazione pre-rivoluzionaria, senza precedenti dalla fine della Seconda guerra mondiale”.
A quel punto spuntarono i “quattro moschettieri” della celebre Ruhrkonferenz. E per capire quanto il patto sociale sia forte ed esteso, da queste parti, basti pensare che gli iniziatori furono un prete, un banchiere, un manager e un sindacalista. Il “vescovo della Ruhr”, come amava definirsi, Franz Hengsbach; il capo di Deutsche Bank, Alfred Herrhausen (originario di Essen); l’amministratore delegato del colosso energetico Veba, Rudolf von Bennigsen-Foerder e il capo del sindacato dei minatori e dei lavoratori del settore energetico IG Bergbau und Energie, Adolf Schmidt consigliarono vivamente al cancelliere cristianodemocratico Helmut Kohl di indire una conferenza per decidere il futuro della Ruhr. E lui obbedì.

Alla “Ruhrkonferenz”, che si tenne rigorosamente a porte chiuse il 28 febbraio del 1988, parteciparono settanta tra politici, imprenditori, rappresentanti delle chiese, dei sindacati, delle camere dell’industria e di quelle per il commercio. Parlarono per cinque, fittissime ore, su come affrontare lo Strukturwandel, la riorganizzazione della Ruhr, una parola che accompagna questa regione ormai da sessant’anni. Il risultato fu un massiccio pacchetto di misure che restituì un po’ di ossigeno a tutti. Una marea di denaro fu stanziata per favorire la nascita di nuovi lavori, per ampliare la ferrovia e la rete di trasporto, l’Agenzia tedesca per l’industria aerospaziale fu simbolicamente spostata nella Ruhr, e a Duisburg fu persino promessa una nuova centrale elettrica a carbone.

In Germania è sempre stata inimmaginabile l’idea di sperimentare traumi epocali come le miniere inglesi spazzate via da Margaret Thatcher col pugno di ferro. Una serie di accordi che si susseguono dagli anni Sessanta forse hanno spostato il problema solo più in là, ma hanno sempre cercato di mantenere intatto il tessuto sociale. E la via morbida alla de-industrializzazione, che ha bisogno indubbiamente di tempo per sviluppare delle alternative, tutto sommato, sta funzionando. Essen è la punta di diamante, certo, ma è la fisionomia di tutta la Ruhr ad essere stata rivoluzionata.

Thomas Kufen ci riceve nel suo ufficio, all’ultimo piano dell’anonimo e un po’ inquietante grattacielo del municipio. Il sindaco conservatore di Essen si è tolto la giacca marrone e ha le maniche della camicia arrotolate. È in versione informale, sorride spesso. E sembra indossare un completo identico a quello che lo ha reso famoso due anni fa, quando sposò il suo compagno di una vita, David Lüngen. Entrambi portavano un abito scuro con la stessa cravatta blu e sorridevano felici ai fotografi. Il sindaco cristianodemocratico è perfettamente in sintonia con lo stile schietto dei ruhriani e non si nasconde dietro un dito. “Certo che siamo orgogliosi di come siamo cambiati. Ma non ci dobbiamo fermare, c’è ancora molto da fare”.

Kufen si è posto la prossima missione impossibile: quella della mobilità. Entro il 2035 il 25 per cento di trasporto dovrà essere su ruota, il 25 per cento su bici, il 25 per cento sui mezzi pubblici e il 2 per cento a piedi. Il Comune punta anche a ridurre del 40 per cento le emissioni di Co2 entro il 2020 e a creare 20mila posti di lavoro “verdi” entro il 2025. Il problema, però, si chiama ancora disoccupazione: “È troppo alta, l’11 per cento, ed è bel oltre la media nazionale. E la metà sono disoccupati di lungo termine”.

Il ruolo degli immigrati

Il sindaco passa la mano sulla grande scrivania che ci divide, sembra sovrappensiero. “Sa, bisogna contrastare molto l’idea che lo Strukturwandel, la trasformazione industriale, sia distruttiva e basta. Bisogna combattere la nostalgia del vecchio che può insidiare il nuovo. Creare lavoro, progetti nuovi è essenziale. Ma ci vuole tempo. Per me i disoccupati di lungo termine sono un cruccio”. Alcuni vengono coinvolti in piccoli lavoretti, guardiano di un parcheggio, accompagnatore di persone anziane. “È gente che sta male, che rischia di ammalarsi psicologicamente. Dobbiamo riuscire a reintegrarli”. Anche perché, aggiunge, “anche nelle nostre periferie il populismo dell’Afd sta facendo breccia”.

In una zona che ha sempre avuto un’altissima quota di immigrati, che sono cominciati ad arrivare dall’Austria e dalla Polonia nella seconda metà dell’Ottocento, il politico del partito di Angela Merkel non mostra alcuna ambiguità: “Senza migranti, Essen non esisterebbe”. Nella Ruhr ne sono arrivati a migliaia dall’Italia, dalla Grecia o dalla Turchia a partire dagli anni Cinquanta. “E hanno contribuito a ricostruire la Germania”, sottolinea Kufen. Poi, nei decenni più recenti, è stata la volta dei migranti dal Nordafrica e dei profughi dal Medio oriente. A Essen in particolare, precisa il sindaco “ne sono arrivati quattromila”. Kufen scrolla le spalle: “Qual è la novità? Siamo sempre stati un melting pot, qui da molto più tempo che nel resto del Paese”.

Ciò che il primo cittadino di Essen vorrebbe regalare agli abitanti della sua città, “è la stima, l’orgoglio di se stessi”. Kufen cita un altro detto popolare, per descrivere la natura dei ruhriani: “Portiamo la pelliccia all’interno”, un modo per sottolinearne la modestia, “siamo persone perbene. Un po’ dirette, ma anche di cuore”.

L’ultima svolta epocale a Essen, accennata dall’assessora all’Urbanistica Roskob e dal sindaco Kufen, è stata quelle delle università e della cultura, favorita dalle idee del duo Zöpel-Ganser. Ormai nella Ruhr esistono alcuni dei teatri, dei musei, degli appuntamenti culturali più importanti della Germania. “Praticamente, è diventata una fabbrica di comici”, sorride Heinz-Peter Lengkeit. Lo incontriamo in una birreria, porta un gran cappello nero per ripararsi dal gelo, ha la mimica straordinaria di un bambino. Lengkeit è berlinese, ma è diventato famoso tra Bochum ed Essen, dove ha cominciato a impersonare le figure tipiche della Ruhr: il minatore, l’operaio, e in una commedia di successo, Gli amici dell’opera, ha persino interpretato il padre di una ragazza che si innamora di un emigrante italiano. Peraltro, mi racconta, “una della più talentuose comiche della Ruhr è proprio un’italiana figlia di emigranti, Carmela De Feo”.

“Il tedesco della Ruhr è franco, diretto. Lo rivendica, con orgoglio, un po’ come i berlinesi”, dice Lengkeit. “Entrambi hanno un sostrato proletario che li rende simili. E l’abitante della Ruhr ti dice “io dico sempre quello che penso” – il problema è che nella maggior parte dei casi non pensa…”. Lengkeit ha l’asciutto umorismo di una parte di Germania abituata ai cieli di piombo. Sulla metamorfosi di Essen, dove ha lavorato per otto anni, sostiene che “è stata pazzesca, è vero, ma ci sono altre parti della Ruhr, soprattutto le città dove non ci sono università, che fanno ancora dolorosamente i conti con l’addio all’acciaio e al carbone. E non è facile. Però rispetto agli anni Ottanta la Ruhr è irriconoscibile, anche dal punto di vista culturale”.

Sono lontani i tempi, insomma, in cui Heinrich Böll suscitò un’ondata di proteste per la sua definizione della Ruhr. “È brutta come Efesto”, scrisse nel 1958, brutta come il dio del fuoco, il fabbro degli dei, zoppo e deforme, cacciato dall’Olimpo dalla madre Giunone. Il grande scrittore di Colonia aveva realizzato un testo a commento delle fotografie di Chargesheimer. Negli stessi anni in cui Bernd e Hilla Becher fecero scoprire al mondo intero la bellezza nella bruttezza, l’estetica delle fabbriche, la maestosità e il rigore dell’acciaio e del ferro della Ruhr, Chargesheimer girò la regione in motorino. E ne mostrò il lato più brutale. Nelle sue foto, impietose, si vedono anche bambini con le facce già da vecchi. Böll scrisse che la Ruhr era “nera di polvere di carbone, grigia di polvere della pietra, un mondo senza donne, non sette o otto ore di lavoro, sette o otto ore di prigione ogni giorno”.

L’indignazione fu enorme, ma è sufficiente vedere i filmati dell’epoca per capire che non c’è nulla da idealizzare, che chi scavava il carbone o affrontava gli altiforni, faceva un mestiere infame. E in quella che una volta era la più grande miniera di carbone del mondo, il Zollverein di Essen, si può. Jutta Kaiser ci offre di farci vedere uno di quei filmati. Siamo nell’enorme hangar del pozzo centrale, dove le gabbie vuote, attaccate a funi d’acciaio grosse quanto un braccio, si infilavano sottoterra a una velocità tale da provocare un rumore paragonabile a un aereo da caccia. Quando tornavano su, piene di carbone, cominciava il processo di selezione, il lavaggio, la produzione. “Chi stava sotto, diventava sordo dopo un paio di mesi. Perciò, i ragazzini che cominciavano a lavorare qui a 14 anni, fino ai 16 non potevano andare sotto, nelle gallerie. Allora li mettevano in questi reparti”. Kaiser è una signora distinta che fa la volontaria e la guida nella vecchia miniera diventata nel 2001 patrimonio dell’Unesco. Gira la chiavetta accanto a uno schermo e parte il filmato.

È una pellicola degli anni Cinquanta, si vede un nastro che trasporta pezzi enormi di carbone e una decina di operai che ne afferrano alcuni, si girano e li fanno sparire in una fenditura alle loro spalle. “Nota qualcosa?”, mi chiede Kaiser. “Già, non portano i guanti. Non se li potevano permettere. Avevano le mani blu. Perché all’inizio si tagliavano, ma siccome non avevano il tempo di pulirsi, la polvere delle pietre e del carbone penetrava nella pelle. Per sempre”. Quel filmato, oltretutto, non era di denuncia. Al contrario, l’intenzione era quella di raccontare le “magnifiche sorti e progressive” del carbone. Per attirare, negli anni Cinquanta, i tedeschi, gli italiani, i turchi, chiunque avesse due braccia robuste, nelle gallerie del Zollverein. “Mostravano quella pellicola – spiega Kaiser – perché era il lato meno crudele della miniera”. 

Turisti, arte e startup

Anche lo Zollverein fa parte della favola della riconversione di Essen. Una settimana prima che la miniera chiudesse, a Natale del 1986, fu sempre il geniale Zöpel, il ministro all’Urbanistica della svolta culturale della Ruhr, a dichiararlo patrimonio culturale, scongiurandone l’abbattimento. La torre rossa dei pozzi si staglia contro il cielo, bellissima. In un angolo degli edifici di mattoni color corallo, Fritz Schupp e Martin Kremmer, i due architetti della Nuova Oggettività che progettarono l’impianto alla fine degli anni Venti, hanno persino realizzato una veduta rinascimentale. Accanto all’ingresso, che vanta un inusuale cortile d’onore, Schupp e Kremmer si sono divertiti a costruire una fuga tra due muri di mattoni verso una torre in fondo, con i lampioni ai lati della strada che si abbassano per dare profondità allo sguardo. Furono i primi architetti a dare una dimensione estetica a uno dei grandi simboli dell’industrializzazione tedesca. E, per onorare la nomina a patrimonio dell’Unesco, in anni più recenti la ricostruzione del Zollverein è stata affidata a due archistar, Rem Koolhaas e Norman Foster.

Oggi il Zollverein ospita Museo della Ruhr o quello del Design e offre visite guidate nella miniera: un milione e mezzo i turisti staccano il biglietto di ingresso ogni anno. Ma cerca anche di guardare al futuro. Molti spazi dell’immensa area che ai tempi d’oro sputava 23mila tonnellate di carbone al giorno, sono occupati da gallerie, atelier di artisti, uffici di startup, e c’è persino una piscina. È un parco famoso, che tra la chiusura della miniera del 1986 e la riapertura, avvenuta quasi vent’anni dopo, ha sviluppato, nello stato di grazia dell’abbandono, un biotopo tutto suo. Dove fioriscono anche piante africane o di Paesi lontanissimi: semi portati qui dai treni che arrivavano fin dentro la miniera.
Dallo Zollverein ci spostiamo in un altro quartiere della città, a
sud. Nell’angolo di un parco, Jörn Hamacher sta attaccando un foglio a una bacheca di legno. Scuote la testa: “Che noia. C’è uno che continua a farci degli scherzi, a coprire gli annunci, a rovinare l’orto. Ma come ragionano? Abbiamo anche cercato di contattarlo, per capire il motivo, ma niente”. In quel pezzo di tenuta dove una volta, ci spiega, “c’era un parchetto abbandonato per bambini”, ora si scorgono ciuffi di cavolo, spinaci, altri piante che non riusciamo a identificare. C’è persino una casa degli insetti. È un orto in mezzo alla città, si chiama Haumanngarten. Capelli lunghi biondi, Hamacher ci scruta attraverso gli occhiali neri e propone di ripararci in un caffè. Noi ci infiliamo in macchina, lui, nonostante le temperature polari, ci raggiunge in bicicletta.

Fa impressione pensare che Hamacher abbia ventisette anni: il Comune gli affidato la realizzazione di diciotto orti urbani come il Haumanngarten. E lui ci si dedica anima e corpo. Ma fa anche molto altro. Gli orti si inseriscono nella filosofia del Transition town, del movimento nato nel Regno Unito che cerca di promuovere la sostenibilità ambientale attraverso progetti locali, mettendo in rete i quartieri, creando iniziative che rafforzino l’autosufficienza, il risparmio energetico. “Il senso è anche quello di creare spazi pubblici comuni come gli orti”.

In una regione come la Ruhr, famosissima per gli orti della domenica, quelli comuni creati da Hamacher si sono scontrati a volte con un po’ di diffidenza, “ma adesso funzionano meravigliosamente. A parte qualche buontempone, non abbiamo registrato vandalismi o cose così. A volte dobbiamo persino mettere degli annunci, “vi prego, venite a cogliere l’insalata, presto!””. Hamacher gira il cucchiaino nel cappuccino, poi ci fissa. “Quello che non guasta, a volte, è un po’ di spirito italiano”. In che senso, chiediamo. “C’è questo ragazzo italiano, Davide Brocchi, che fa moltissime iniziative a Colonia che vanno in una direzione simile, di sostenibilità, di messa in rete delle persone. Solo che lui non dà a queste iniziative sempre i titoli prussiani che gli diamo noi”. Hamacher sorride sornione. “Un’iniziativa che Davide organizza a Colonia funziona molto. E penso che sia anche per il titolo: “La giornata del buon vivere”. Molto italiano”. 08 FEBBRAIO 2018

Fonte Link repubblica.it


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1 COMMENT

  1. Buongiorno Signor Boschi, volevo complimentarmi con Lei di cuore per l’articolo stupendo: dopo l’acciaio: il cielo sopra Essen. Vivo nella Ruhr da 15 anni, conosco l’Emschergenossenschaft e il Dr. Paetzel, al quale parlero’ dell’articolo. Pezzo bellissimo e veritiero al 100%. Grazie e buona giornata. Cristina Maurillo