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Michela, moglie di un operaio Ilva: “Non possiamo nemmeno fare la spesa”
VITTORIO RICAPITO
TARANTO -Le lenzuola si mettono ad asciugare in casa perché sul balcone diventano nere. E si porta in tavola solo quello che c’è in frigo perché il vento, quel vento, porta cenere nera e rossa, una specie di morte silenziosa e quasi invisibile se non fosse così vera per gli annunci funebri che costellano il rione. Siamo al Tamburi di Taranto, di fronte alle ciminiere dell’Ilva e Michela Mignogna, 34 anni, casalinga, sposata con Marco, operaio del siderurgico, sta pulendo per l’ennesima volta il pavimento.
La cenere, la chiamano polvere minerale, è entrata ancora una volta col vento da Nord Ovest. E ancora una volta, l’undicesima dall’inizio dell’anno, i suoi figli Alessandra, Giovanni e Matteo, di dieci, sei e quasi un anno, sono a casa. Per i primi due niente scuola, come prescrive un’ordinanza del sindaco Rinaldo Melucci. Per l’ultimo nato la battaglia quotidiana al fine di non fargli respirare quei veleni che continuano a entrare dalle finestre. Michela racconta: «Non è giusto danneggiare i bambini. A furia di saltare scuola, Giovanni in prima elementare ancora non ha imparato a scrivere. Il problema non si risolve chiudendo le scuole nei giorni di vento, ma si dovrebbe fermare la fabbrica e fare manutenzione».
È una palazzina di edilizia popolare costruita col piano “Ina Casa”. Dall’altra parte della strada ci sono i parchi minerali, un’area grande come una dozzina di campi da calcio, dove si alzano per decine di metri montagne di polveri minerali usate per fare l’acciaio. Secondo i piani ambientali, per evitare la dispersione delle polveri, bisogna coprire tutto con un gigantesco capannone. I lavori dovevano finire nel 2015 ma non sono ancora iniziati. Dovrebbero partire a febbraio. «Ora li chiamiamo wind days e nel quartiere c’è maggiore sensibilità e consapevolezza dei rischi, anche perché non c’è famiglia in cui non ci siano storie di malattie e tumori ma le polveri portate dal vento ci sono sempre state» racconta Michela. Che aggiunge: «In questi giorni si vive tappati in casa, non si può aprire nemmeno la finestra. Noi ci arrangiamo con quello che sta in frigo per evitare anche di andare a far la spesa. Per strada c’è il coprifuoco, molti negozi restano chiusi. Lenzuola e vestiti si stendono ad asciugare dentro casa, accanto alla stufa, perché sul balcone diventano neri. I miei bambini girano per casa senza scarpe ma dopo poco dobbiamo buttare i calzini perché le polveri minerali si incrostano e non si lavano più via. Spazzo i balconi tante volte in una giornata e ogni volta raccolgo cumuli di polvere scura». Michela e Marco vivono nel paradosso di sentirsi ostaggi di un quartiere da cui non possono andare via, maledicendo la fabbrica che dà loro l’unico stipendio in famiglia: «Il nostro sogno sarebbe cambiare città e portare i bambini lontano da qui ma non abbiamo i soldi per farlo».
Anche il loro album di famiglia è costellato da lutti e gravi malattie, come nel resto del quartiere, in cui si registrano picchi nelle statistiche dei tumori rispetto alla media nazionale: «Mio nonno è morto anni fa di carcinoma all’intestino, mia mamma l’ha avuto al seno ed è sotto controllo.
Mio marito tanti anni fa ha perso un fratello di 8 anni, ucciso da una leucemia». Ai Tamburi le case ormai sono in vendita a 20-30mila euro ma nessuno le compra. Le aree verdi sono vietate ai bambini da un’altra ordinanza, per rischio contaminazione da berillio. Si progetta di spostare in quartieri più al sicuro dall’inquinamento le famiglie delle case popolari che si trovano al confine col siderurgico e al posto delle palazzine piantare una foresta per fare da filtro alle polveri. A fine mese Giovanni e Matteo compiranno rispettivamente sette e un anno.
Marco come sempre lascerà in fabbrica la sua tuta, «in 15 anni non l’ha mai voluta portare a casa» precisa Michela, e li porterà ai giochi gonfiabili in un altro quartiere. Le mamme sono stanche di vivere consultando il sito dell’Arpa per sapere se le scuole resteranno chiuse.
Comune, Arpa e Asl stanno lavorando a un software che stabilisca i picchi dei rischi e circoscrivere l’allarme negli orari più a rischio. «Ma il problema resta — dice Michela — e le colpe ricadono su bambini innocenti che oltre alla scuola saltano catechismo, basket e visite dal pediatra. È uno strazio vederli costretti in casa a vedere la tv, quando vorrebbero giocare a palla come tutti gli altri bambini». 23/1/2018
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