L’ESTETICA SANGUINARIA
Dallo stupore estetico contemperano all’osceno massacro degli animali in nome dell’arte
Considerazioni preliminari
Oggi scontiamo una realtà cruenta anche esteticamente, come rivelano le immagini ritraenti corpi umani mutilati, ibridi uomo-animali e mutanti mostruosi, sconcertanti nella loro vitrea espressività.
Ma è soprattutto la morte, a volte in diretta, di scoiattoli, zebre, squali, cani, cavalli, splendide e indifese farfalle, atrocemente sacrificati sull’altare dell’arte, a farci chiedere se una tale sanguinaria estetica non sia la premessa dell’anti arte e il segnale di un generale degrado dell’intera vita umana giunta, con tutto il suo corredo ipertecno-logico, al capolinea dell’abbrutimento.
Contrariamente a quanto si va scientificamente teorizzando sull’alterità animale – il cui contributo, secondo Roberto Marchesini, è stato “tutt’altro che passivo nel complesso ontologico dell’uomo”, al punto che bisognerebbe “riconsiderare i debiti referenziali contratti dall’uomo” con essa -, l’arte predilige la strada dell’abbattimento animale e del disfacimento estetico generalizzato, in funzione anche del convincimento che le due sfere, etica ed estetica, hanno finalità e percorsi diversi, pur quando è la carne ad essere massacrata e posta in croce in nome di una volontà estetica immemore che la violenza, a qualsiasi oggetto o soggetto si rivolga, non è altro che la risposta irrazionale ad una impotenza creativa ed esistenziale. Nonostante ciò, lo sterminio di animali in nome dell’arte prolifica indisturbato, dentro e fuori il recinto estetico, come se fosse un divertimento d’autore.
Questa che sembra essere l’impossibilità dell’uomo (e della critica) di reagire fermamente a tali gratuiti crimini, ricorda l’effettiva incapacità di opporsi alle correnti e alle onde marine da parte degli organismi nectonici, che così sono costretti a un continuo movimento trascinatore, per loro irreversibile!
Che non sia diventata l’arte un organismo nectonico di rilevanza psicopatologica, o, non piuttosto, un accurato e macabro divertissement fine a se stesso? Un divertimento la cui miseria non sta nell’astenersi dell’uomo dal pensare la morte, pensiero che secondo Pascal lo rendeva illusoriamente felice, quanto invece nella programmata reiterazione del gesto violento a scopo scandalistico. Che sia il corpo umano o animale ad essere ri-presentato in situazioni strazianti ed alienanti, non fa differenza: le ripugnanze visive, che se amplificate oltremisura degenerano nella nausea (morale) e nel barocchismo dello stupore (estetico), rimandano in chi le produce ad un preesistente e profondo, patologico, disturbo interiore. Niente di più può allontanarci dalla riflessione sulla morte che non sia la spettacolarizzazione di essa a fini estetico – commerciali…
Con queste prerogative l’arte è giunta oggi sulla soglia del post, umano e organico, con un accumulo di inquietanti quesiti che grondano più etica che estetica…. Tanto clamore attorno alla morte potrebbe essere un modo nuovo di esorcizzarla, ma nella maggior parte dei casi è l’accurato prosieguo di reiterati modi platealmente violenti e disgustosi; modi programmati e tutelati da una critica irresponsabile e da un mercato senza scrupoli che fanno leva sullo stupore per reclutare gli artisti da porre in vetta alla piramide dell’arte e del mercato.
Così è capitato per Hermann Nitsch (l’artista macellaio sanguinario per antonomàsia), per Damien Hirst, per Maurizio Cattelan e per Paola Pivi.
Come reagire di fronte all’aberrante azione di quest’ultima di togliere dalla loro nicchia ecologica alcune zebre per localizzarle sulle freddi nevi? Evidentemente la realtà della Pivi non è quella dell’etologo, secondo il quale le zebre sono “mammiferi i cui sensi risultano sviluppati; nessun rumore sfugge loro e anche la vista è molto acuta”.
È semmai una realtà crudele, masochista, che sarebbe giusto, una volta per tutte, rivolgere verso se stessi e lasciare così vivere tranquillante l’Anima…le che, a modo suo, si avvale di comportamenti migliori di quelli utilizzati dall’uomo.
Dislocare coattamente, dalle temperature caldissime delle grandi praterie africane al freddo gelido delle nevi, mammiferi di tale sensibilità è una violenza umana in nessun modo giustificabile, tanto meno con velleitarie motivazione artistiche…
L’elenco della morte in diretta o in differita di animali, ormai cavie dei nuovi laboratori estetici, è abbastanza lungo. Maurizio Cattelan, tanto per citare pochissimi esempi, con la sua opera Bidibibodibiboo (1996), espressione magico- rituale risalente a Mary Poppins, offre allo spettatore il suicidio in diretta di un docile scoiattolo. Invece un furbacchione e immorale artista costaricano, lega in una galleria d’arte un cane randagio costringendolo alla fame e alla sete. Perché? Il povero errante morirà di lì a poco, colpevole di nulla.
I luoghi preposti a questi crimini non sono più i macelli (Damien Hirst afferma di volerne costruire uno all’interno del suo studio), ma le gallerie d’arte che ad essi si sono sostituite, in ragione del generale sovvertimento estetico, morale e semantico…
A ridosso di una volontà produttiva funzionale al mercato dello stupore, nel linguaggio artistico tutto diventa, dalla zoologia all’informatica, dall’elettronica alla robotica, dalla biologia alla chirurgia plastica e all’ingegneria genetica, corollario estetico del memento mori: assillante promemoria della finitudine dell’uomo. Una finitudine umana a quanto pare carnefice, se per compensare la propria imperfezione rende l’Anima…le capro espiatorio. Ma, a differenza dell’uomo, esso non ha nessuna colpa primordiale da espiare, né pulsioni da rimuovere.
La differenza del patrimonio genetico tra uomo e primati è del due per cento. E questa differenza è nota solo all’uomo, così come è soltanto a lui nota la sua finitudine e la sua ipotetica superiorità sugli altri primati.
E se l’Anima…le si vestisse con i panni dell’artista, del politico, dell’insegnante, dell’impresario e del cibernauta, gli somiglierebbe?
L’uomo già vestito sa cosa e come rispondere, mentre lo scimpanzé, il minorato del due per cento, non può, ma forse sa, rispondere. È meglio che permanga, in questo e in altro, muto e nudo. Gli Anima…li hanno una tale bellezza di forme e di colori variegati da poter fare a meno di ogni vestito.
Vecchio, stanco e abbastanza deluso, tanto da scrivere: “È un errore supporre che l’uomo abbia ancora un contenuto o debba averne uno”, Gottfried Benn confidava al suo migliore amico F.W. Oelze qualcosa di sconcertante: “Quanto più invecchio tanto più mi sembra enigmatico ciò che l’uomo propriamente rappresenta in quanto fenomeno zoologico. Non è un animale, ma quello che egli è è talmente inquietante e infido che per giorni interi non posso più posare gli occhi su una faccia”. La parte angosciante e subdola dell’uomo non è riferita al suo essere biologicamente animale (fenomeno zoologico), perché egli “non è un animale”, ma al suo essere diventato culturalmente uomo; un uomo incapace di lealtà e di conforto.
C’è il timore che se l’uomo continuerà ad infliggere sofferenza e morte all’Anima..le, oltre che a se stesso, giungerà ad avere vergogna dei propri ed altrui occhi, non solo “per giorni interi”, ma per sempre.
E se non saprà vedere nel volto dell’Anima…le sofferente il proprio, allora le conclusioni pessimistiche di Gottfried Benn difficilmente potranno essere scongiurate: “Ci sono soltanto due cose: schifosa umanità e silenzioso, solitario soffrire – un confine che non si sposta!” “Non esiste più un uomo, rimangono solo i suoi sintomi”
Giuseppe De Filippo