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Analisi del Canto Terzo (seconda Parte) dell’Inferno della Divina Commedia secondo la Psicologia del profondo

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Ignavi Canto Terzo Divina Commedia

Marco Vettori
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A COLLOQUIO CON L’INCONSCIO

Analisi del Canto Terzo dell’Inferno della Divina Commedia secondo la Psicologia del profondo.

Parte Seconda

Quivi sospiri, pianti e alti guai 
risonavan per l’aere sanza stelle, 
per ch’io al cominciar ne lagrimai.                              

Diverse lingue, orribili favelle, 
parole di dolore, accenti d’ira, 
voci alte e fioche, e suon di man con elle                    

facevano un tumulto, il qual s’aggira 
sempre in quell’aura sanza tempo tinta, 
come la rena quando turbo spira.  

E io ch’avea d’error la testa cinta, 
dissi: «Maestro, che è quel ch’i’ odo? 
e che gent’è che par nel duol sì vinta?».                      

Ed elli a me: «Questo misero modo 
tegnon l’anime triste di coloro 
che visser sanza ’nfamia e sanza lodo.                       

Mischiate sono a quel cattivo coro 
de li angeli che non furon ribelli 
né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro. 

Caccianli i ciel per non esser men belli, 
né lo profondo inferno li riceve, 
ch’alcuna gloria i rei avrebber d’elli».  

E io: «Maestro, che è tanto greve 
a lor, che lamentar li fa sì forte?». 
Rispuose: «Dicerolti molto breve. 

Questi non hanno speranza di morte 
e la lor cieca vita è tanto bassa, 
che ’nvidiosi son d’ogne altra sorte.  

Fama di loro il mondo esser non lassa; 
misericordia e giustizia li sdegna: 
non ragioniam di lor, ma guarda e passa». 

Subito dopo la porta, nel vestibolo Dante incontra uno dei peccati più antichi del mondo: l’indisponibilità ad assumersi qualsiasi responsabilità attraverso la più totale inerzia Coloro che sono puniti nell’Anti inferno sono gli ignavi. Individui che non hanno mai voluto scegliere rendendosi disponibili pedissequamente ai voleri e dettami pubblici al di fuori di ogni scelta personale. Cadaveri viventi vengono tormentati da mosconi e vespe. La loro vita è stata una non esistenza che non li ha resi umani. Questi morti viventi sono cibo per i vermi. Gli ignavi soffrono macerandosi nell’invidia di chiunque sia entrato attivamente e responsabilmente nella vita. Virgilio considera questi personaggi “degli aborti di vita” e non degni di essere ricordati. Tenendo presente le osservazioni di Virgilio è importante riflettere sui nostri comportamenti irresponsabili quando permettiamo che i diritti del nostro prossimo vengano negati e calpestati. In questo momento il sommo poeta è all’inizio del viaggio e desidera aver chiaro il significato della sua impresa e delle realtà che gli si presentano davanti. Virgilio lo richiama pacatamente il poeta e lo invita ad osservare senza pretendere di capire tutto immediatamente. Il discepolo deve esercitarsi alla pazienza! Lo stesso ammonimento vale per coloro che sono all’inizio di un percorso analitico.

E’ inoltre importante che Dante impari a non cedere alla curiosità  che desidera sapere e capire immediatamente, ma focalizzi la sua attenzione  sulle emozioni  che le immagini provocano  senza lascarsi andare a giudizi prematuri . Caronte, il traghettatore che conduce le anime all’altra sponda, pare palesare l’aspetto potente dell’energia vitale che sovrasta l’essere umano dominato dall’istinto.  Minaccia e grida su una barca galleggiante sull’acqua e pare simboleggiare gli esseri umani travolti dalla violenza delle passioni. Virgilio spiega a Dante il significato del perpetuo correre dei dannati che sono morti senza riconciliarsi con Dio chiarendo che quello che l’uomo crea con la propria azione ricade su di lui fino a quando l’individuo non avrà imparato ad armonizzarsi con l’energia vitale. Pertanto le anime dannate corrono e pagano su loro stesse le conseguenze delle negatività create dalle loro azioni. L’Inconscio ha una funzione compensatoria dell’unilateralità della coscienza.

I malesseri psichici sono spesso le conseguenze delle negatività create dall’Io. Spesso le persone si rifugiano negli psicofarmaci piuttosto che affrontare le responsabilità   collegate ai propri malesseri e sintomi attraverso un’adeguata terapia analitica.   Dante non può passare dall’altra parte del fiume per mezzo della barca di coloro che fanno parte del gregge dei trascinati, ma dovrà servirsi di un legno particolare collegato alla Croce del Cristo. Colui che è sulla strada della ricerca per seguire il Salvatore deve fare morire l’Io-Persona ‘pubblico’ per risorgere rinnovato alla coscienza dello spirito.  L’essere umano impari a occhio dello spirito, vedere con l’occhio dello spirito nelle profondità della Psiche, al di là delle apparenze. Dante, pertanto, affida al Sé ed aderisce a Cristo per essere trasportato dall’altra parte.  Il terremoto che si presenta al termine del canto simboleggia il sommovimento verso la trasformazione della vita amorfa dell’uomo.             

Ricapitolando,  inizialmente vi è paura e preoccupazione . Successivamente la persona è disponibile ad aderire ad un cambiamento attraverso l’intervento del Sé che dà la possibilità di superare le sofferenze e permette il distacco da queste sotto la forma del sonno.  Il sommo poeta, dopo questo basilare passaggio, è pronto a discendere nel mondo senza luce e a guardare e squarciare le tenebre.  

E io, che riguardai, vidi una ’nsegna 
che girando correva tanto ratta, 
che d’ogne posa mi parea indegna; 

e dietro le venìa sì lunga tratta 
di gente, ch’i’ non averei creduto 
che morte tanta n’avesse disfatta.

Poscia ch’io v’ebbi alcun riconosciuto, 
vidi e conobbi l’ombra di colui 
che fece per viltade il gran rifiuto.  

Incontanente intesi e certo fui 
che questa era la setta d’i cattivi, 
a Dio spiacenti e a’ nemici sui. 

Questi sciaurati, che mai non fur vivi, 
erano ignudi e stimolati molto 
da mosconi e da vespe ch’eran ivi. 

Elle rigavan lor di sangue il volto, 
che, mischiato di lagrime, a’ lor piedi 
da fastidiosi vermi era ricolto. 

E poi ch’a riguardar oltre mi diedi, 
vidi genti a la riva d’un gran fiume; 
per ch’io dissi: «Maestro, or mi concedi

ch’i’ sappia quali sono, e qual costume 
le fa di trapassar parer sì pronte, 
com’io discerno per lo fioco lume».

Ed elli a me: «Le cose ti fier conte 
quando noi fermerem li nostri passi 
su la trista riviera d’Acheronte».

Allor con li occhi vergognosi e bassi, 
temendo no ’l mio dir li fosse grave, 
infino al fiume del parlar mi trassi. 

Ed ecco verso noi venir per nave 
un vecchio, bianco per antico pelo, 
gridando: «Guai a voi, anime prave!

Non isperate mai veder lo cielo: 
i’ vegno per menarvi a l’altra riva 
ne le tenebre etterne, in caldo e ’n gelo.     

E tu che se’ costì, anima viva, 
pàrtiti da cotesti che son morti». 
Ma poi che vide ch’io non mi partiva,

disse: «Per altra via, per altri porti 
verrai a piaggia, non qui, per passare: 
più lieve legno convien che ti porti».

E ’l duca lui: «Caron, non ti crucciare: 
vuolsi così colà dove si puote 
ciò che si vuole, e più non dimandare».

Quinci fuor quete le lanose gote 
al nocchier de la livida palude, 
che ’ntorno a li occhi avea di fiamme rote.

Ma quell’anime, ch’eran lasse e nude, 
cangiar colore e dibattero i denti, 
ratto che ’nteser le parole crude.

Bestemmiavano Dio e lor parenti, 
l’umana spezie e ’l loco e ’l tempo e ’l seme 
di lor semenza e di lor nascimenti. 

Poi si ritrasser tutte quante insieme, 
forte piangendo, a la riva malvagia 
ch’attende ciascun uom che Dio non teme.     

Caron dimonio, con occhi di bragia, 
loro accennando, tutte le raccoglie; 
batte col remo qualunque s’adagia.

Come d’autunno si levan le foglie 
l’una appresso de l’altra, fin che ’l ramo 
vede a la terra tutte le sue spoglie, 

similemente il mal seme d’Adamo 
gittansi di quel lito ad una ad una, 
per cenni come augel per suo richiamo.  

Così sen vanno su per l’onda bruna, 
e avanti che sien di là discese, 
anche di qua nuova schiera s’auna. 

«Figliuol mio», disse ’l maestro cortese, 
«quelli che muoion ne l’ira di Dio 
tutti convegnon qui d’ogne paese:            

e pronti sono a trapassar lo rio, 
ché‚ la divina giustizia li sprona, 
sì che la tema si volve in disio.  

Quinci non passa mai anima buona; 
e però, se Caron di te si lagna, 
ben puoi sapere omai che ’l suo dir suona».

Finito questo, la buia campagna 
tremò sì forte, che de lo spavento 
la mente di sudore ancor mi bagna. 

La terra lagrimosa diede vento, 
che balenò una luce vermiglia 
la qual mi vinse ciascun sentimento; 

e caddi come l’uom cui sonno piglia.    

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