Cibi italiani copiati, un mercato da 52 miliardi di euro
Aldo Tagliaferro
(gazzettadiparma.it) Se ne parlava anche due anni fa, qui a Cibus, di imitazioni, falsi, contraffazioni, insomma di tutto quell’"italian sounding" che tiene banco nelle tavole di mezzo mondo. Due anni dopo la situazione non si può dire che sia migliorata in modo sostanziale: Cibus continua ad occuparsi del problema, spuntano qua e là il pecorino laziale con l’immagine della mucca, il "Pamesello" o il "Rapisan" che ricordano il nostro Parmigiano Reggiano o ancora l’Aceto Balsamico di Modena prodotto in Germania o i "Pomodori Collina" che vengono dalla Cina…
FALSI PER 52 MILIARDI. Eppure qualcosa si muove, proprio sulla Grande Muraglia: la Ferrero ha appena vinto una causa a Pechino contro la Montresor che copiava i Rocher infischiandosene dei divieti. E il Tribunale di Berlino ha fermato il "Parmesan" tedesco.
Segnali, dunque, ma le cifre che snocciola Federalimentare fanno paura: l’imitazione del made in Italy nel mondo, inclusi Sud America, Est europeo ed asiatico, arriva ogni anno a 52 miliardi di euro. Certo, «la contraffazione è essenzialmente un fenomeno estero. L’industria alimentare ne è vittima al pari del consumatore», dicono gli industriali del Made in Italy, che stimano il valore fenomeno circa tre volte superiore al nostro export alimentare, che nel 2007 ha toccato i 18 miliardi di euro.
POTENZIALE TRIPLO. Secondo una stima presentata dall’Ice alla Camera di Commercio a Parma, nel Nord America considerando "100" la quota di esportazione di prodotti alimentari italiani autentici, il cosiddetto «italian sounding», cioè l’imitazione, supera quota 300. Se fosse possibile eliminare integralmente la presenza delle imitazioni, le imprese italiane crescerebbero sul mercato nord-americano, da 3 a 9 miliardi di export.
E qui è «lo scandalo», secondo Federalimentare, per la quale il falso Made in Italy comporta «una sottrazione di mercato macroscopica, tanto più grave in una fase come quella presente che avrebbe bisogno di maggiore spazio e compensazione all’estero». Il falso Made in Italy, insiste Federalimentare, non fa altro che danneggiare all’estero l’immagine dell’originale su gusto, qualità e sicurezza. La beffa è che ogni anno l’industria alimentare italiana spende in ricerca, per qualità e sicurezza, circa 3 miliardi di euro.
LA SOLUZIONE. Qual è allora la via da percorrere? «Facciamo un esempio – spiega Marco Rosi, presidente di Parmacotto -. Molti ristoranti di qualità a New York oggi propongono cucina all’italiana, spesso sono gestiti da americani con cuochi che fanno – va detto – cucina di alta qualità e trovano il prodotto italiano fatto negli States. Allora, se vogliamo inseguire il mito dello slow food è un conto, se invece cerchiamo di sostituire quei prodotti con i nostri, allora il conto torna. E questo può avvenire solo a condizione che le norme e i patti fra i governi consentano di esportare facilmente».