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Quando la politica inquina la Giustizia
Brancaccio e Laguardia i raccomandati. Quando la politica inquina la Giustizia
Una trasmissione come Report della Gabanelli – che i deputati “nominati” in parlamento hanno anche tentato di eliminare con quel vergognoso tentativo di varare una legge sulla diffamazione che avrebbe definitivamente imbavagliato la stampa – non ha solo aperto gli occhi agli italiani sul partito di Di Pietro, facendolo precipitare nei sondaggi, in pochi giorni, sotto la soglia della sopravvivenza parlamentare.
Quella della scorsa settimana è servita a far comprendere i retroscena delle nomine dei magistrati effettuate da quel Consiglio Superiore della Magistratura che non fa altro che rivendicare, un giorno sì e l’altro pure, la sua natura di organo di autogoverno dei giudici, indipendente da ogni altro potere per volontà costituzionale.
A sentire la battuta che è “sfuggita” – a telecamere spente – al dottor Giovanni Tinebra, aspirante alla poltrona di Procuratore della Repubblica di Catania, viene da sbudellarsi dal ridere, di fronte a queste rivendicazioni di autonomia della magistratura dalla politica. Tirato in ballo per una “raccomandazione” da lui richiesta, tramite un banchiere, a un “membro laico” del Csm in quota alla Lega Nord, l’alto magistrato ha risposto al cronista di Report – tradotto in soldoni – che affidarsi ai politici per sostenere le proprie domande al Csm è una prassi consolidata.
Noi della “Voce”, per la verità, non avevamo bisogno di assistere a questa trasmissione per sapere come andavano le cose dentro quel consesso che, destinando i giudici nelle varie sedi e sovraintendendo al giudizio – anche disciplinare – sul loro operato – in definitiva determina il buono o il cattivo andamento della amministrazione della giustizia nel nostro Paese. Non avevamo affatto bisogno di sentirlo parlare in televisione perché il dottor Tinebra è una vecchia conoscenza nostra e dei nostri lettori. Egli, infatti, era un grande amico di Giovanni Panebianco, il Procuratore della Repubblica di Parma che con grande determinazione, senza lesinare impiego di mezzi e di uomini, per primo ha cercato di distruggere la nostra stampa libera. Almeno fino a quando dovette gettare la spugna dopo la richiesta di rinvio a giudizio a suo carico della Procura della Repubblica di Firenze per corruzione in atti giudiziari e falso in atto pubblico unitamente all’allora presidente della Fondazione Cariparma Luciano Silingardi(poi assolto con formula piena) e al loro amico Antonino Rizzone. Un procedimento iniziato a seguito di una denuncia da me inoltrata alla Procura di Ancona (oggetto furono i famosi finanziamenti della Cassa di Risparmio a società fantasma del Rizzone, con la sola garanzia della raccomandazione del procuratore) e finito con l’assoluzione con formula dubitativa del Panebianco per il reato di corruzione e con la prescrizione per il falso.
Ebbene, durante le indagini portate avanti dal Pm Suchan della Procura di Firenze, gli inquirenti scoprirono non solo che il grande amico di Panebianco era un personaggio in odore di mafia. Ma anche, nel corso di una perquisisizione nella sua casa di Montecatini, che il Panebianco si era rivolto a lui affinché facesse avere al giudice Tinebra, grande amico oltre che conterraneo catanese di entrambi, una busta contenente una raccomandazione da inoltrare evidentemente a sue “teste di ponte” dentro il Csm per fare avere un importante incarico a Francesco Saverio Brancaccio, il sostituto anziano della Procura di Parma.
Inutile dire che quella raccomandazione non arriverà mai all’organo di autogoverno dei magistrati.
L’importante incarico ambito dal Brancaccio sfumò. E al suo posto il Csm decretò il trasferimento da Parma per incompatibilità ambientale a seguito della vicenda, anche questa denunciata dal nostro settimanale, dei soldi che, sempre Cariparma, gli elargiva con grande generosità.
(Fabrizio Castellini Direttore de La voce di Parma)