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Donne diverse al Bookpride di Milano

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di Francesca Avanzini

Da Bookpride, Fiera dell’Editoria Indipendente, a Milano dal 15 al 17 marzo, dedicata al tema del desiderio, due storie di diversità femminile. La prima riguarda Grisélidis Réal e il suo libro “Il nero è un colore”, edito da Keller. Il traduttore, Yari Moro, spiega che “Grisélidis Réal è nota a tutti a Ginevra, più come prostituta che come scrittrice. Dieci anni fa la sua salma è stata inumata al Cimitière des Rois, proprio vicino a quella di Calvino, il profeta impotente, come lo chiamava lei, la ‘puttana rivoluzionaria’.

“Ma”, continua Moro, “non è un prodotto locale. In Francia è già nota per aver pubblicato il “Carnet de bal d’une cortisane”, una specie di diario di tutti i clienti che andavano a trovarla.

“Si parla molto del personaggio, eppure è una scrittrice a tutti gli effetti, che credeva fortemente nella sua arte, tanto da volere come effigie sulla tomba “écrivaine, peintre, prostituée”.

“Di ‘Le noir est une couleur’”, prosegue Moro, “mi ha affascinato la scrittura che, col suo misto di lirismo e realismo, mi ricorda Baudelaire. Racconta di una realtà degradata e difficoltà esistenziali, quando la donna, che negli anni ’60 decide di fuggire da Ginevra a Berlino con due figli e l’amante nero, è spinta dalla mancanza di soldi, oltre che dall’amante Bill, a prostituirsi, e lo fa nelle caserme dei neri. Disprezza i bianchi, la sua è una dichiarazione d’amore per la carne nera, resa con una scrittura debordante, a volte di un lirismo eccessivo.”

“Anche se il suo è un amore antiastratto, “ interviene la traduttrice Maurizia Balmelli, che ha affiancato Moro nella sua opera, ”ne ha una visione molto particolare, quasi una filosofia. D’altra parte sosteneva che la prostituzione sarebbe diventata metafisica, e che era ‘un’arte, un umanesimo, una scienza’. È spietata nei confronti dei suoi clienti, eppure restituisce loro umanità, ne fa degli esseri degni di essere raccontati. Credeva fermamente nel ruolo sociale del suo mestiere e ne difende la dignità, al punto di battersi per legalizzare i diritti delle prostitute.

“Per quanto riguarda la scrittura, la sua è una lingua immediata, sregolata, che esprime una vitalità feroce. Nella traduzione abbiamo dovuto fare interventi, il troppo non può essere reso, rischia di diventare respingente. Più che normalizzato o contenuto il testo, l’abbiamo distillato.”

Un criterio su cui si può discutere a lungo, ma pur sempre una scelta.

La diversità di Claudia Durastanti consiste nell’essere stata cresciuta da genitori sordomuti tra Brooklin e un paesino della Basilicata, in condizioni di grande povertà. Il suo libro, “La straniera” (La nave di Teseo) muovendosi tra memoir, biografia e romanzo, è difficilmente classificabile in un genere, anche se la critica tende a chiamarlo romanzo, e tratta temi più tipici della narrativa anglosassone che non di quella italiana: invalidità, famiglia, disparità di classe. Stimolata dalle domande degli scrittori Fabio Deotto e Giorgio Fontana, Durastanti dice di non amare il memoir “perché si è consolidato su certe aspettative, narra il dolore, soprattutto femminile, in genere con sfumature psicoanalitiche e un retrogusto un po’ novecentesco. Ma tra fiction e non fiction si possono fare molte cose. Il libro ha una storia pregressa perché è basato su conversazioni, e poi un po’ di romanzesco c’è, anche solo nel modo in cui mio padre e mia madre si sono incontrati: lei racconta di averlo salvato mentre voleva buttarsi dal ponte Sisto, lui di averla sottratta a un gruppo che intendeva usarle violenza. Ovviamente ai fini della scrittura non è importante quale sia la verità.

“Per quanto basato su eventi reali, il libro ha una trama. Non credo alla retorica dei fatti senza pietà, bisogna rendere la lettura accattivante per il lettore. E neanche volevo una voce confessionale. Forse nella consapevolezza di ciò che non volevo ho trovato la mia voce.”

Il libro mischia passato e presente o, per dirla con la metafora di Deotto, Durastanti “ha esposto la lastra della pagina al presente e alla memoria. “

Altro elemento importante è la musica, di cui l’autrice ha scritto per anni. Paradossalmente “la musica mi arriva dai miei. Mia madre mi chiedeva, ‘cos’è la musica?’ Ne aveva una dimensione tattile, la percepiva attraverso le vibrazioni. Musica senza strumenti, nel silenzio, è questa che mi ha formato.”

Deotto fa notare come, nonostante l’autobiografia, il libro tratti temi riguardanti molti, per esempio la disabilità di cui in Italia ancora si parla poco in letteratura: “Nei romanzi non puoi essere una normale persona disabile, devi essere un genio. Un personaggio è definito solo dalla sua disabilità.”

“Mi mancavano i miei genitori in letteratura”, spiega Durastanti, “forse anche per questo ho scritto il libro.”

Ci sono poi le questioni della classe, della povertà, della violenza, del bilinguismo ma, dice Fontana, “non c’è rischio né di ideologismo né di autocommiserazione, l’autrice ha portato il tutto a compiutezza stilistica.”

Durastanti aggiunge che “è possibile lavorare a una lingua ricca e complessa ma anche accessibile, che unisce riflessione alta e azione diretta. Scrivere in italiano mi porta verso il lirismo, in americano verso l’azione.”

Francesca Avanzini

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