INTERVENTO DI DANIELA COCCHI
Prof.ssa Daniela Cocchi
Presidente della Società Italiana di Statistica
Dipartimento di Scienze Statistiche "Paolo Fortunati"
Tavola rotonda: La formazione e il reclutamento dei ricercatori
Ringrazio gli organizzatori per l’invito a partecipare a questa tavola rotonda e per l’opportunità che mi viene fornita.
Al momento dell’istituzione della SIPS, cento anni fa, le questioni della organicità della formazione dei futuri ricercatori e della trasparenza del loro reclutamento non erano così necessarie e stringenti, e quindi da dibattere, come adesso, e forse le differenze tra paesi non erano così forti. L’istruzione, e ancora di più l’istruzione superiore, era accessibile a pochi, così come il miglioramento delle procedure di allocazione delle risorse non era un’esigenza prioritaria.
Un esempio dell’evoluzione rispetto alla situazione del passato è costituito dai cambiamenti di struttura delle Società Scientifiche, di cui la Società Italiana di Statistica è un esempio. E’ stata fondata nel 1939, su sollecitazione di una quarantina di studiosi. Il numero dei soci non superò di molto il centinaio per qualche decennio. A partire dalla fine degli anni ‘70 è iniziato l’aumento delle iscrizioni. Negli ultimi anni ci siamo attestati nell’ordine del migliaio di soci ordinari, di oltre un centinaio di enti aderenti, di più di centocinquanta studiosi corrispondenti e, soprattutto, circa duecentoventi studiosi junior. Questo gruppo è molto importante per la SIS in generale, e lo è rispetto al tema di questa tavola rotonda.
L’argomento di questa discussione è generale e riguarda tutte le discipline, ma penso che si tratti di un’ottima occasione di confronto per gli statistici, particolarmente duttili e attenti alle opportunità di ricerca trans-disciplinari: la nostra disciplina è giovane, e, per lo sviluppo accelerato delle facoltà di impostazione economica e sociale negli anni più recenti, ha potuto offrire parecchie opportunità di impiego, sia permanente sia precario, ai giovani studiosi. So bene che questo non è avvenuto per tutte le discipline.
Nel mio intervento vorrei toccare tre punti che riguardano il succedersi delle fasi di avvio alla ricerca: i due estremi sono la formazione del futuro ricercatore e la conquista di un posto permanente nel mondo della ricerca. In mezzo si trova il percorso accidentato e in molti casi poco trasparente che dovrebbe selezionare i migliori, fatto di contratti a termine o di lavoro poco o nulla retribuito..
Due manchevolezze a questo riguardo sono: compensi troppo bassi, quando ci sono, e progetti di ricerca non definiti con la precisione dovuta. Questi ultimi delineano a volte situazioni di parcheggio, che non hanno la possibilità di prefigurare le modalità e gli esiti della futura selezione. Fuori dall’università si percepisce un mercato del lavoro che non comprende le potenzialità di laureati magistrali e dottori di ricerca in possesso di un’ottima formazione e non è pronto né a comprenderne il curriculum, né ad inserirli in attività di ricerca e sviluppo.
Le materie dell’area statistica, economica, giuridica e sociale sono forse tra quelle in cui i giovani ricercatori sono più esposti e rischiano maggiormente l’espulsione in momenti di rallentato dinamismo del reclutamento. In altre discipline, come la fisica o la chimica, per non parlare delle scienze mediche, i progetti per cui si ricevono finanziamenti coinvolgono e fanno interagire gruppi di persone appositamente costituiti. Al termine del percorso, si possono valutare le peculiarità, i punti forti e i punti deboli dei giovani che hanno collaborato. Nel nostro ambito, la ricerca si svolge in modo più individuale, il singolo ricercatore può essere meno seguito e quindi, se viene lasciato solo, il suo futuro è più incerto.
Un aspetto che molto mi preoccupa è la mancanza di simmetria nello scambio con gli altri paesi, a proposito sia dell’alta formazione, come il dottorato, sia dell’ingresso permanente nel mondo della ricerca. Le opportunità italiane di lavoro a termine tra la conclusione del dottorato e l’inizio di un lavoro a tempo indeterminato non sono di alcun interesse per gli stranieri, se non in casi eccezionali.
Non sono riuscita a reperire dati utili sul numero di posizioni permanenti aperte, su quello di assegni di ricerca e borse post dottorato, e i posti di dottorato negli ultimi 10 anni. Non mi risultano raccolte organiche di dati sulla destinazione dei dottori di ricerca che vengono formati nel nostro paese.
Da statistico, vorrei precisare che i giacimenti di dati esistono, e risiedono negli archivi delle singole università. Il loro reperimento e la loro armonizzazione non sono facili, anche se il ministero promuove periodicamente la raccolta di dati sul tema del dottorato e degli sbocchi dei dottori di ricerca. Le indagini a partecipazione volontaria, a loro volta, rischiano di portare a risultati ingannevoli, in quanto la decisione di aderire o no dipende dall’interesse per il contenuto del questionario, con la possibilità di verosimili distorsioni nell’orientamento delle risposte rispetto quelle del gruppo globale dei potenziali intervistati.
Tenendo presenti queste cautele, il Comitato Nazionale per la Valutazione del Sistema Universitario ha prodotto, poco più di un anno fa, un "Progetto per la ricognizione, raccolta e analisi dei dati esistenti sul dottorato di ricerca e per l’indagine sull’inserimento professionale dei dottori di ricerca" a cui hanno partecipato le Università di Pavia, Pisa, Salerno e Siena, che hanno addottorato 2.383 studiosi dal 1998 al 2003. I settori MIUR dei dottorati sono 23, che possono esser aggregati nella classificazione in 5 macro aree disciplinari: Gruppo Scientifico, Medicina e Veterinaria, Ingegneria ed Architettura, Scienze Umane, Scienze Economiche Giuridiche e Sociali. Per quanto inficiata dalla partecipazione di un numero molto limitato di atenei e da cadute verosimilmente non casuali nelle risposte, l’indagine condotta per l’elaborazione del progetto ha fornito indicazioni interessanti.
Dal rapporto relativo al progetto, si comprende come sia importante monitorare, sia sul totale sia sulle aree disciplinari, l’evoluzione dell’età di ammissione al dottorato, della distanza di tale ammissione dalla discussione della tesi di laurea, eventuali squilibri di genere, la diffusione del conseguimento del dottorato di ricerca in un ateneo diverso da quello in cui ci si è laureati.
Le diverse scuole di dottorato hanno atteggiamenti diversi riguardo alla proposta di attività formative specificatamente rivolte ai dottorandi, che appaiono poco frequentemente proposte nell’area medica e molto di più nell’area delle Scienze economiche, giuridiche e sociali, di cui anche la statistica fa attualmente parte.
Anche la produzione di ricerca dei dottori non è omogenea, con diversa attenzione alla pubblicazione internazionale e alla partecipazione a congressi e al fatto di produrre lavori individuali o di gruppo secondo l’area di studio.
Diversi dottori di ricerca lavoravano già al momento dell’ammissione al dottorato. Sono numerosi, tra chi ha conseguito il titolo ed ha risposto all’indagine, gli assegnisti di ricerca o coloro che svolgono lavori con contratti di collaborazione o a progetto. Il lavoro dipendente a termine e parasubordinato è tipico negli enti di ricerca e dell’università. Dopo il conseguimento del dottorato, diversi dottori vengono assorbiti dal mondo della scuola.
I dottori di ricerca tendono a diventare ricercatori universitari: lo sono la metà dei rispondenti all’indagine CNVSU, con maggior intensità nelle scienze economico-giuridiche, per via dello sviluppo più accelerato in questi anni delle facoltà interessate. Diventano ricercatori non universitari soprattutto i dottori del gruppo scientifico.
I collaboratori alla ricerca e gli assegnisti sono coloro che risentono delle retribuzioni inferiori: anche rimanendo in Italia, senza pensare di trasferirsi all’estero, chi opta per questa forma di lavoro non stabile, si trova in una situazione meno fortunata rispetto a coloro che svolgono attività diverse dalla i ricerca.
I dati raccolti nell’elaborazione dal progetto mettono in evidenza che i dottori che lavorano fuori dell’università senza compiti di ricerca sono una minoranza. Invece, una buona parte lavora fuori dell’università con compiti di ricerca e sviluppo, mentre la grande maggioranza lavora in università, in posizioni sia di ruolo (discipline economiche statistiche giuridiche e sociali) sia non strutturate, come nelle discipline del gruppo scientifico e medico.
All’indagine sembrano essere sfuggiti coloro che hanno una posizione all’estero.
Chi è di ruolo all’università guadagna più dei colleghi non strutturati, ma si guadagna di più fuori dell’università, soprattutto se si svolgono attività di ricerca. La scelta di rimanere all’università non è quindi motivata dalla spinta economica. Per i dottori di ricerca, le sinergie tra il mondo universitario e il mondo extra-universitario sono abbastanza limitate. Le speranze di impiego dei dottorandi sono rivolte, all’inizio del dottorato, verso l’università ma questa preferenza si riduce, dopo che il dottorato è stato conseguito. Inoltre, l’esperienza del dottorato non viene considerata molto utile per chi abbia avuto accesso a una posizione fuori dall’università, segnalando lo scarso interesse che il mondo delle imprese rivolge a questo tipo di ricercatore e delle sue maggiori potenzialità rispetto a un laureato. Il dottorato è invece ritenuto indispensabile per posizioni di tipo accademico. I dottori di ricerca danno un giudizio negativo riguardo alla fase post dottorato, con riferimento alle scarse prospettive in Italia e alle maggiori opportunità che si possono avere all’estero.
Anche alla luce del contenuto del progetto, si può sostenere la tesi che attualmente il dottorato sia ormai il primo passo consolidato per la individuazione dei futuri ricercatori, universitari o no.
Per quanto riguarda la partecipazione ai dottorati italiani, il reclutamento degli allievi di dottorato tra aspiranti stranieri è ancora sporadico. Il miglioramento della situazione dipenderà dai cambiamenti nelle modalità della prova di selezione che, inizialmente concepite in modo molto burocratico, si stanno snellendo, prevedendo pian piano l’ammissione su dossier e con lettere di presentazione, in modo simile a quanto avviene in molti altri paesi, con più attività formativa strutturata per l’insegnamento del terzo ciclo.
Tralasciando la difficoltà di attirare sistematicamente, e non episodicamente, giovani stranieri nei nostri dottorati, nel nostro paese è più critico il momento del reclutamento rispetto a quello della formazione.
Infatti, fino alla conclusione del dottorato, seppure manifestando un’elevata eterogeneità, il nostro paese è in molte discipline abbastanza allineato con gli altri. Il dottorato costituisce il più alto livello di formazione e tutti gli studiosi coinvolti concorrono a svilupparlo, seppure con diversità tra gli atenei e diversità tra le discipline.
Le borse di dottorato sono, in grande maggioranza, finanziate con fondi pubblici, anche se esistono borse finanziate da enti esterni, che in qualche caso vincolano la direzione della ricerca del borsista. Una parte dei posti di dottorato è senza borsa, ma questo non significa necessariamente che i dottorandi non abbiano sostentamento: a volte il dottorando gode di assegni di ricerca, fruisce di contratti a vario titolo o è pagato dall’ente per cui lavora e che lo ha messo in congedo. Manca in Italia, rispetto ad altri paesi, il collegamento tra dottorato e industria. In altri paesi non è così. In Francia, ad esempio, esistono programmi di stretto collegamento tra le due realtà, con un buon successo nel collocamento dei dottori di ricerca nel mondo produttivo. Nel nostro Paese l’ultima legge finanziaria, per cercare di rimediare a questa situazione, ha concesso sgravi fiscali a coloro che finanziano la ricerca universitaria.
Il punto debole del nostro sistema si manifesta platealmente dopo il dottorato, con un percorso che si rivela incerto, tortuoso, con meccanismi di selezione che sono i più disparati e scarsamente legati al merito.
Né è facile da calcolare il numero di giovani che ha trovato un impiego all’estero, sia complessivamente, sia per macroaree. In particolare, il numero di studiosi in discipline statistiche, ma anche economiche e aziendali che lavorano all’estero è elevato, rapportato, doverosamente, al .numero di coloro che nelle varie discipline hanno ottenuto il titolo. Alcuni hanno provato a tracciare il proprio percorso di lavoro in Italia, ma hanno successivamente ricevuto proposte allettanti che li hanno indotti a partire.
Purtroppo, le condizioni per l’ingresso alla ricerca nella situazione italiana non sono competitive rispetto a quelle degli altri paesi e quindi, l’investimento che è stato fatto sul giovane non dà frutti.
Nel panorama italiano si manifesta infatti la strana situazione secondo cui un bravo ricercatore può non avere interesse a rimanere in Italia, ma cerca opportunità all’estero perché non si sente garantito su tre aspetti principali. Il primo aspetto è l’accesso ad una posizione lavorativa che abbia prospettive di diventare permanente o sia immediatamente permanente, mentre il secondo è la previsione della progressione della carriera. I tempi di realizzazione sono incerti, uniti al timore che in nessuno dei due momenti il merito sia il requisito più importante.
L’incertezza dei tempi è dovuta al fatto che i sistemi di reclutamento e progressione non sono ideati facendo riferimento alle situazioni individuali, ma dipendono da complicati meccanismi locali, nel caso dei posti da ricercatore, o nazionali, come per i posti da professore. In parecchi paesi stranieri, invece, si riscontra la ormai ben nota possibilità di trasformare in ciascuna sede un posto a termine in un posto permanente, entro un periodo di tempo predefinito chiaramente, come quattro, sei, otto anni.
Il terzo aspetto è costituito dai salari indubbiamente più alti della maggior parte dei paesi stranieri, soprattutto nelle posizioni non permanenti.
L’introduzione della posizione di ricercatore a tempo determinato potrebbe favorire il finanziamento dei posti da parte di enti esterni. Questa opportunità è stata colta da atenei come quello di Firenze, Torino e Milano-Bocconi.
Un’altra manifestazione del provincialismo che ci caratterizza, oltre all’imbarazzante differenza tra l’Italia e l’estero, è anche la scarsa disponibilità a muoversi all’interno del paese da parte dei giovani, che si accompagna alla resistenza a rinunciare alla collaborazione dei propri allievi da parte dei professori con cui si sono laureati. In molti paesi, invece, non si può iniziare la carriera nella sede dove si è conseguito il dottorato e d’altronde, svolgere una parte della propria carriera all’estero viene considerato un fattore positivo preliminare al rientro e non un esilio.
Il punto veramente negativo, che abbiamo anticipato all’inizio dell’intervento, è la mancanza di simmetria fra l’Italia e l’estero. Per la ragione, accennata precedentemente, dei bassi salari e delle prospettive di carriera incerte e non sempre legate al merito, i giovani stranieri non sono interessati a venire a lavorare in Italia nelle posizioni tipiche del post dottorato, perchè hanno l’impressione che i processi di selezione siano poco trasparenti e in certi casi non favoriscano i più meritevoli. E potrebbero anche essere visti come coloro che si impadroniscono dei rari posti disponibili a scapito degli italiani.
Vorrei illustrare come esempio l’offerta con tenure track per una posizione all’Università Pompeu Fabre di Barcellona. Si tratta di un contratto di tre anni, con la certezza di una valutazione alla fine del terzo anno. Se la valutazione sarà positiva, il contratto verrà prolungato per altri tre anni e, alla fine, dopo una ulteriore valutazione potrà trasformarsi in un posto permanente.
Il salario è di circa 41500 euro per anno se lo studioso ha il PhD. Se invece il PhD non è ancora conseguito, il salario è di poco più di 28000 euro fino a che il dottorato non è conseguito. Viene garantito un fondo spese minimo e la garanzia del finanziamento di un’ulteriore partecipazione a convegni per il primo anno.
C’è inoltre una ricompensa in danaro per le pubblicazioni, diversa a seconda del prestigio della rivista. Il carico didattico è di 120 ore, con una riduzione a 80 ore per il primo anno.
Il contratto ha inizio a settembre e si chiede di comunicare l’accettazione entro il febbraio precedente. Questo significa che la ricerca verosimilmente comincia poco meno di un anno prima dell’inizio del contratto.
La lettera di offerta si conclude con una frase comunque interessante, anche se fa parte delle formule di cortesia, che sottolinea come l’Università sia in una fase di crescita in cui il contributo di giovani studiosi di valore apporta molto peso.
Ho illustrato ampiamente questa procedura per sottolineare che, a fronte di un sistema così trasparente e flessibile, il nostro sistema non riesce a competere e il giovane dottore di ricerca italiano può decidere facilmente, se giudicato adeguato, di optare per un posto come quello appena descritto.
Tutti concordano sul fatto che le leggi dovrebbero essere modificate per facilitare la possibilità di assumere ricercatori con contratti di durata limitata, ad esempio tre o quattro anni, con la prospettiva del tenure track.
In realtà, impiegando adeguatamente le forme di reclutamento attuali, si potrebbero già ottenere risultati migliori di quanto non avvenga attualmente. Dopo il dottorato sono possibili due strade di lavoro temporaneo, l’assegno di ricerca e la borsa post-dottorato. Quest’ultima non è frequente come la prima, non è incentivata anche dal ministero come avviene per l’assegno, riguardo al quale una quota del FFO è legata all’attivazione. I due tipi di borsa possono essere visti come un contratto a termine alla fine del quale si può prefigurare un tenure track. Si dovrebbe però prefigurare esplicitamente una struttura piramidale, istituendo di volta in volta un numero predeterminato di borse e informando chiaramente i concorrenti che alla loro conclusione verrà bandito un numero inferiore, ma specificato, di posti da ricercatore. In questo modo è chiaro fin dall’inizio che non tutti potranno rimanere. Il passaggio al posto da ricercatore non sarebbe automatico, e si riproporrebbe la situazione tipica dei paesi stranieri, in cui, a fianco della mancanza della garanzia della continuazione, non si ha la certezza di non poter continuare. Nella procedura occorrerebbe la garanzia del dipartimento, o della struttura di ricerca che bandisce le borse, nel senso che, pur essendo l’esito del concorso da ricercatore ovviamente incerto, il dipartimento può informare i selezionatori riguardo a chi abbia perseguito al meglio gli scopi che erano stati definiti.
Se viene a mancare una competizione, una selezione basata sul merito, tutti coloro che vengono reclutati per un posto da assegnista si aspettano di veder trasformato il posto a termine in un posto permanente da ricercatore. Se l’argomento del merito viene illustrato e tenuto presente fin dall’inizio, dichiarando che il numero di posti permanenti è inferiore a quello del numero degli aspiranti, i giovani studiosi capiscono di entrare in un sistema competitivo.
I giovani sono poco propensi ad accettare il sistema attuale perché i posti da assegnista e di post-dottorato sono mal pagati e la remunerazione non compensa il rischio di esclusione collegato a quel percorso. Nelle università straniere i posti a termine sono meglio pagati, compensando così questo rischio. Invece, per la situazione italiana si ritrova quasi la situazione tipica del pubblico impiego: si è pagati poco, ma con la perseveranza o anche con l’inerzia si otterrà un posto. La situazione attuale prefigura quindi uno dei modi possibili, e non il migliore, di prefigurare la catena dottorato – borsa post dottorato – assegno – posto permanente da ricercatore. I giovani più dinamici sono poco disposti ad accettare questa prospettiva. Si deve dire che anche le istituzioni hanno responsabilità a questo riguardo perché stanno al gioco: in molti casi questo assetto fa comodo ai docenti perché permette loro di far avanzare i loro prediletti.
L’esito negativo del processo riguarda i numerosi casi di persone che hanno un’ottima formazione, vivacchiano con contratti e collaborazioni non esaltanti e che, dopo un certo numero di anni di povertà e di basso salario, si ritrovano disoccupati. Per loro non ha funzionato con chiarezza il sistema di selezione, le regole iniziali erano ambigue. Hanno sperato che l’inerzia che ha protetto la carriera di altri potesse valere anche per loro, e invece per loro non è stata applicata. Per quanto riguarda il loro caso personale sono stati illusi e forse sono stati sfruttati. Dal punto di vista collettivo, non poterli utilizzare secondo le loro competenze rappresenta uno spreco.
Il paese subisce una perdita, perché forma i potenziali studiosi fino a un certo punto, ma poi i giovani promettenti si trasferiscono all’estero con scarse speranze di rientrare, oppure sono respinti dopo anni di ambiguità senza che i loro meriti siano valorizzati.
In Italia purtroppo non c’è il travaso virtuoso tra accademia, enti di ricerca e mondo produttivo che c’è in altri paesi e che si manifesta simmetricamente nelle due direzioni. Il mancato assorbimento da parte dell’università crea quindi dei danni tremendi perché il capitale umano che si è venuto a costituire viene stupidamente disperso. Si dovrebbero proporre alternative di riorientamento non imbarazzanti per coloro che non potranno rimanere all’università.
La correzione alle distorsioni, e a mio avviso importanti, che ho tentato di mettere in evidenza può avvenire con un aumento delle risorse finanziarie per la fase che segue la conclusione del dottorato sia da parte delle università sia da parte degli enti esterni, sia pubblici sia privati. Non è sensato, infatti, disperdere i risultati del percorso di studi, che si conclude con il conseguimento di un dottorato, che tutto sommato è allineato agli standard internazionali. Viviamo in un paese ricco rispetto a molti altri, che non investe abbastanza in ricerca e che ha un sistema di istruzione superiore malfunzionante che però produce ricercatori che si collocano tra i migliori al mondo.
Le possibili azioni di risanamento contengono l’applicazione congiunta di maggiori risorse finanziarie e reclutamento trasparente. Con regole chiare e valide per tutti si potranno favorire sia la partecipazione sia il numero dei ricercatori.
Il mercato potrebbe fare il resto.