Home Memorial Francesco Cossiga Amato: “Mi disse che faceva il matto altrimenti sarebbe stato impeachment”

Amato: “Mi disse che faceva il matto altrimenti sarebbe stato impeachment”

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L’ex presidente del Consiglio: "Eravamo amici". "Fu lui a portare gli ex comunisti al governo del Paese assumendosene la piena responsbailità"

MASSIMO GIANNINI

(repubblica.it) ROMA – "Ora che Francesco non c’è più, posso dirlo: la sua è stata una storia assai complessa, nella quale la dimensione politica e pubblica è stata investita pesantemente dalle traversie personali e psicologiche…". In vacanza ad Ansedonia, Giuliano Amato ricorda così "l’amico Cossiga". "Ho cominciato con lui ai tempi in cui ero sottosegretario a Palazzo Chigi e Francesco era Capo dello Stato. Si è sviluppata da allora quella naturale liason istituzionale che si crea tra la presidenza del Consiglio e il Quirinale. Ho vissuto con lui proprio gli anni cruciali della sua trasformazione, da notaio a Picconatore".

Quanto ha pesato questa metamorfosi, nel giudizio politico che si può dare di Cossiga?
"Francesco ha vissuto una vita privata difficile, accompagnata da fase depressive sempre più accentuate. E questo ha inciso sui suoi comportamenti, sui suoi rapporti con gli altri ed anche sulle vicende politiche del Paese. Posso dirlo, ora che non c’è più: io sono stato uno dei suoi amici, nella vita. Eppure, in più occasioni, ha avuto reazioni irritate anche nei miei confronti. Ma più volte, dopo i suoi sfoghi pubblici, mi ha chiamato per dirmi: "caro Giuliano, ho detto su di te cattiverie che non meriti, ma quando ho questi momenti non riesco a controllarmi…". L’uomo era così. E certo, questo suo carattere spesso confliggeva con il suo ruolo di presidente della Repubblica".

Ricorda qualche momento in cui questo "conflitto" fu più aspro?
"Uno su tutti. Quanta fatica facemmo per evitare che definisse l’allora leader dei Ds "uno zombie". Era un linguaggio che non si addiceva a un capo dello Stato. Ma non c’era nulla da fare. E queste intemperanze gli costarono molto, anche in sede giudiziaria. Tuttavia, un’altra cosa va detta, oggi: in queste sue reazioni sproporzionate incise molto anche il modo in cui venne combattuto nella vita politica e istituzionale".

Sta dicendo che se Cossiga diventò il Picconatore, questo dipende anche dal modo in cui lo attaccarono i suoi avversari?
"E’ così. Limitiamoci all’episodio dell’impeachment, che proprio non meritava. E’ vero, le sue stravaganze offensive erano frequenti. Ma mai, neanche in quell’infausta vicenda, si trasformarono in tradimenti della Costituzione. I suoi comportamenti istituzionali non giustificarono mai le aggressioni a cui fu sottoposto. Ci fu un vero e proprio attacco concentrico contro di lui. Ed io temetti un nuovo caso Leone".

Ma quel clima giustificava invece le sue "picconate"?
"Quanto meno le spiegava. Una sera mi disse: "Tu, caro Giuliano, ti domanderai se io penso davvero certe cose che dico. Ebbene, sappi che se non mi fossi comportato come una specie di pazzo, forse l’impeachment sarebbe scattato…". Una confessione che mi colpì molto. Mi suggerì l’immagine di una sorta di Enrico IV di Pirandello. Un’immagine tragica. E anche anomala, perché sempre sul crinale: da una parte una condizione psicologica difficile, ma dall’altra parte una grande lucidità e capacità di capire, prima di altri, come si muoveva
la politica intorno a lui…".

Anche su questo i giudizi su di lui sono molto controversi. Capì davvero che senza una radicale riforma politica e costituzionale la Prima Repubblica sarebbe crollata?
"Cossiga si mise a picconare un mondo che stava oggettivamente franando. Si potrà obiettare che quello era il suo mondo. Ma resta il fatto che lui lo capì, e lo denunciò alla sua maniera. E non fu la sua unica intuizione. Certo, nessuno immaginava che alla Terza Via di Aldo Moro si sarebbe arrivati nel modo tortuoso con il quale ci si arrivò nel ’98, dopo la caduta del primo governo Prodi. Ma fu lui a voler portare gli ex comunisti al governo. E lo volle in un momento difficile per gli ex comunisti, costretti ad assumere la responsabilità di governare un paese che di lì a poco avrebbe dovuto decidere l’intervento militare nei Balcani. Sono convinto che vi fosse anche questa consapevolezza, nella scelta di Cossiga. Perché di scelta si trattò: altrimenti avremmo avuto il secondo governo Ciampi, e non il primo governo D’Alema".

Lei citava Moro. Altro passaggio cruciale: il rapimento, la linea della fermezza, l’assassinio. E la storia d’Italia che cambia radicalmente. Come giudica il Cossiga di quei giorni?
"Anche in quella vicenda Cossiga visse in una doppia e ancora una volta tragica dimensione. Da un lato doveva rappresentare lo Stato in prima linea, che non può cedere al ricatto dei brigatisti. Ma dall’altro lato doveva verificare se e in quali condizioni si potesse evitare che l’amico e maestro venisse ucciso. Visse insomma questo tragico sdoppiamento: ebbe il dovere di teorizzare la linea della fermezza, ma al tempo stesso andò febbrilmente in cerca di consiglieri, purtroppo non tutti giusti, che lo aiutassero a trovare uno spiraglio per salvare l’ostaggio. Tenere insieme questi due piani era e fu purtroppo impossibile. Proprio questo spiega perché poi si dimise: percepì la morte di Moro come una sua sconfitta personale, anche se per lo Stato della fermezza fu una drammatica vittoria".

E dell’ultimo Cossiga, quello dopo il Quirinale, cosa ricorda?
"Ritrovarsi a soli 60 anni ad essere già un ex capo dello Stato non fu certo facile. Sentiva di dover partecipare ancora alla vita politica del Paese. E ha trovato il modo di farlo. Sempre alla sua maniera. Intervenendo anche su temi che proprio non ti aspetti. Ma con una qualità rara, che è stata tutta sua ed è tuttora di pochi: quella di saper trarre succo politico anche da vicende che in mano ad altri sarebbero del tutto prive di sapore. E alla fine con un’altra qualità, che non ha mai perso e che oggi mi piace ricordare: quella di saper essere amico, pur continuando ad essere a volte così estremo nei giudizi".

Anche con lei questa amicizia non si è mai persa?
"Le racconto un ultimo aneddoto. Tre anni fa, appena diventato ministro degli Interni, ebbi con lui un piccolo disaccordo politico, e ad essere sincero non ricordo nemmeno su cosa. Immediatamente dettò un secco comunicato ufficiale alle agenzie, in cui annunciava che, nella sua veste di senatore a vita, non si sarebbe più avvalso dei servizi della "batteria" del Viminale, poiché era passata sotto le mie dipendenze. Il giorno dopo ci incontrammo per caso, davanti a un ascensore del Senato. Mi venne incontro, e mi abbracciò dicendo "Giuliano, amico mio, ti voglio bene…". Questo era Francesco Cossiga".

(18 agosto 2010)

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