E’ morto Enzo Biagi, maestro di giornalismo definito Omero del XX Secolo
Il giornalismo Italiano è in lutto. E’ morto ENZO BIAGI, Omero del XX Secolo. Abruzzo: "L’Albo è più leggero".
Franco Abruzzo
Milano, 6 novembre 2007. Enzo Biagi, maestro di giornalismo, è morto questa mattina nella clinica dove era ricoverato da 10 giorni. Aveva 87 anni. Era nato a Pianaccio di Lizzano in Belvedere il 9 agosto 1920. La notizia è stata diffusa alle 8,18. Il giornalismo italiano è in lutto. Biagi, – già direttore di Epoca, del Tg1 e del Resto del Carlino -, è stato giornalista, scrittore e conduttore televisivo della Rai. Ha lavorato per il Corriere della Sera, La Repubblica, Panorama, Oggi, L’Espresso, e La Stampa. Ha speso la sua vita a raccontare i fatti, tanto da meritarsi l’appellativo di "Omero del XX Secolo". Franco Abruzzo ha dichiarato: "Con la morte di Biagi, Il nostro Albo è più leggero".
TABLOID-n. 7/8 del 2005
Intervista di Emilio Pozzi in due tempi 2000-2005.
ENZO BIAGI alla soglia degli 85 anni: "Sono sempre andato
a cercare delle storie, è l’unica cosa che so fare".
Io ho avuto tre interventi al cuore, cioè il mio cuore è stato fermato tre volte e ho sei bypass; quindi ho chiara una mia idea della vita e della morte. Ho fatto anche 14 mesi sulla Linea gotica in una brigata partigiana a suo tempo. Il senso della morte, ce l’ho. Io sono abbastanza sereno e abbastanza contento di vivere queste giornate, anzi, contento, senza abbastanza…io credo che a morire siano capaci tutti. Imparare a vivere è molto più difficile. Bisogna avere rispetto per gli altri, rispetto per sé. Ci sono persone che non ne hanno tanto. Vedo delle cose sguaiate, ogni tanto, in giro: e certe esibizioni le trovo molto di cattivo gusto".
di Emilio Pozzi
Ho un debito, per fortuna non di quattrini, con Enzo Biagi. Però mi pesa più che se dovessi dargli una forte somma: il debito consiste in un’intervista mai pubblicata di cinque anni fa, quando aveva compiuto da poco gli ottanta anni. Per una banalissima ragione: lo smarrimento del nastro sulla quale avevo registrato la conversazione. Ora la cassetta è saltata fuori da un cassetto. Biagi si avvicina adesso agli ottantacinque anni (li compirà il 9 agosto) ma la sua firma compare puntualmente sul Corriere la domenica mattina e ogni settimana sul magazine del Corriere. Questi sono i miei due appuntamenti fissi con lui. Saltuariamente passo a salutarlo, nel suo minuscolo ufficio in Galleria, sopra la Libreria Rizzoli, possibilmente nel tardo pomeriggio dei primi giorni della settimana, secondo i suggerimenti della preziosissima Pierangela, collaboratrice da molti anni, in quei giorni ha più tempo per gli amici.Già, la Galleria.
In un libro a più voci, pubblicato nel 1987 per i 120 anni della creatura del Mengoni, chiesi a Biagi una testimonianza. La sua pagina cominciava così: "La Galleria è un posto del sentimento, per me. Ed è legata ai miei primi ricordi di Milano. Io sono passato da Milano, per la prima volta nel dopoguerra; ero in viaggio per andare in Inghilterra al matrimonio della regina Elisabetta che, allora, naturalmente era ancora principessa. Ero stato invitato con qualche altro collega – ricordo tra gli altri Enrico Emanuelli – dal Governo inglese. Di questo mio primo incontro con Milano ho un ricordo notturno che mi dava sgomento. Dentro di me, dicevo: io qui non ci vivrei mai. Nella vita non bisogna dire mai! Qualche anno dopo mi hanno offerto un posto di lavoro, in un momento anche difficile, era la carica di redattore capo a Epoca. Il settimanale a quel tempo era piuttosto traballante. Mi sono trasferito a Milano, come un emigrante, con mia moglie e le prime due figlie. La domenica ci spingevamo fino in centro, dandoci la mano, quasi per paura di perderci".
Più avanti Biagi scriveva: "La Galleria è poi diventata un posto di lavoro per me che ho avuto un ufficio alla Rizzoli, proprio lì. Ricordo la gente che mi veniva a trovare o che incontravo, da Sciascia al generale Dalla Chiesa. Passava a salutarmi in borghese, in quei momenti difficili, quando sparavano sulla gente e, in particolare, sugli ufficiali dei carabinieri. Ero diventato amico di tutti i negozianti della zona; mi consideravano, e mi consideravo, un loro collega perché anch’io la mia bottega l’avevo lì".
Anche adesso la sua bottega è al primo piano. Al di là di una porticina verde c’è Pierangela che fa buona guardia. E poi la sua stanzina: una scrivania, e un paio di sedie per gli ospiti. Sono andato a ricordargli il mio debito e, per pagarlo, gli ho proposto un’altra intervista. Anche perché la popolarità di Enzo Biagi è sempre ad alti vertici. Lo si è visto quando è comparso, ospite di Fabio Fazio domenica sera 22 maggio, nella intelligente e garbata trasmissione condotta da uno dei più seri intrattenitori televisivi. Gli applausi del pubblico presente non erano di convenienza e non c’erano segnali luminosi a comandarli. Anche Biagi che ha risposto con pacatezza, non perdendo l’occasione per qualche risposta arguta e pepata, si è sinceramente commosso. La voce gli si è rotta in gola quando ha accennato alla morte della figlia Anna, la più giovane, che aveva donato le retine (e adesso c’è chi vede con i suoi occhi). Una frecciatina l’ha tirata quando gli è stato chiesto come vede la situazione e ha risposto: "Mi sembra che ci sia aria da ora del dilettante, quando si parla di Romolo e Remolo". La filosofia di vita l’ha espressa quando ha detto: "La mattina leggo i necrologi sul Corriere. Se non trovo il mio nome metto giù il giornale". Più ricordi che sguardi in avanti. A proposito di Tv, alla domanda se deve essere educativa ha espresso con una parola un complesso pensiero: "Educata, perché all’educazione ci devono pensare i genitori e la maestra". Una risposta secca l’ha data all’intervistatore. Fazio gli aveva chiesto quali fossero i primi libri che aveva letto. Alla risposta di Biagi: "La Bibbia e i Miserabili", Fazio si era lasciato sfuggire un "davvero ?" al che Biagi ha replicato: "Non ci crede? Io non dico bugie. Se dovessi dire una bugia, la direi su altre cose". Fazio che aveva evidentemente capito che Biagi avesse letto quei libri a 5 anni quando ha cominciato ad andare a scuola, gli ha prontamente chiesto a che anno avesse letto due libri così impegnativi. "A dodici o 13 anni". Tutto ridimensionato.
La popolarità di Biagi, anche se non compare in Tv, è sempre alta. Basta controllarla ad esempio, nei siti Internet, che rappresentano di questi tempi un autentico indice di notorietà e di gradimento. C’è un sito internazionale nel quale il suo nome figura 13 milioni 37 mila 693 volte (l’ho riscontrato il 15 maggio scorso). In due siti italiani, sempre a metà maggio, questa è la situazione: Yahoo.com 67. 500, Google.com 92. 900.
In linea di massima, in ciascuno il doppio di Indro Montanelli. Quando sui giornali riemergono le polemiche sulla Rai, sui cambiamenti dei vertici, e sui contenuti dei programmi, il suo nome risalta fuori: a cominciare dalla gaffe di Berlusconi, quando dalla Bulgaria, parlò di informazione criminosa facendo i nomi di Biagi, Santoro e Luttazzi. Più che quella battuta a Biagi spiacque il comportamento dei burocrati, a cominciare dal direttore generale, che affidarono il suo congedo a quattro righe in una fredda comunicazione scritta.
Su questo argomento non ama parlare (unico commento: "se fosse criminosa non capisco perché la magistratura non è intervenuta") ma si capisce che è stato ferito profondamente nella dignità.
Altre sono le ferite che in questo periodo hanno lasciato il segno: "Nella mia vita ho avuto tante soddisfazioni, ma negli ultimi anni ho avuto due dolori tremendi, la morte di mia moglie e quella di Anna la mia figlia più giovane (al suo nome è stata intitolata una Fondazione per aiutare ragazzi a crescere e studiare)". E guarda, con commozione che si rinnova ogni volta, verso lo scaffale della stanza di lavoro dove sono comparse nuove fotografie davanti ai libri che gli servono di consultazione: foto di famiglia, la moglie, i genitori, le figlie e una con Papa Giovanni Paolo II, al cui fianco c’è il cardinale Tonini. E poi la foto di un personaggio tra le migliaia da lui incontrati in sessantacinque anni di lavoro, uno che ha fatto tanto bene all’umanità: il dottor Sabin, il medico che ha vinto la poliomielite.
Biagi continua a scrivere, nonostante i sei by pass, e la sua vestale ribatte i testi su una macchina elettrica, fotocopia gli articoli che possono interessare e li archivia. La modernizzazione non va più in là.
Biagi non ha confidenza con il computer. I suoi pezzi continua a scriverli con la biro, sui taccuini a righe che una volta usavano gli stenografi. Non so dove li trovi ancora.
Gli ho proposto di rileggere il testo trascritto dal nastro di cinque anni fa, e magari mettere risposte nuove a fianco di quelle di allora.
Mi ha detto: "Molto poco è cambiato e quindi non ho mutato opinioni, in questi cinque anni". E la chiacchierata con Fabio Fazio ha confermato, ad esempio che non ha invidia per nessuno, perché non ha ancora trovato qualcuno per cui valga la pena di essere invidioso.
Una curiosità, non certamente banale, gli è rimasta. Ricevette, un mattino presto, una telefonata da Gianni Agnelli, sul quale aveva scritto un libro ("Il signor Fiat") e che ogni tanto lo chiamava: "Biagi, devo vederla, ho da dirle una cosa molto importante". Cosa fosse quella cosa non lo seppe mai. L’avvocato morì dopo qualche giorno.
Ma ecco la trascrizione, riveduta e corretta da me, per il passaggio dal parlato alla pagina, senza alcuna alterazione o taglio, della chiacchierata avvenuta il 14 settembre 2000, a Milano, in Galleria, in quello stesso ufficietto nel quale trascorre le ore produttive della giornata.
Ho visto che in Internet il tuo nome c’è più di 100mila volte. Non so se tu l’hai fatto riscontrare…
Io non so assolutamente niente, non ho mai visto Internet, come vedi scrivo ancora con una biro, sono in tutti i sensi superato. Ho bisogno per fare il mio lavoro, quello che mi disse una volta Faulkner: "un po’ di pace e una cassa di whisky". Io del whisky – sono nato nel paese del Lambrusco – non ho bisogno; il Lambrusco lo bevo a tavola. Faccio questo mestiere perché ho deciso così, era l’aspirazione che avevo quando avevo tredici anni. In un tema scolastico, il solito tema "che cosa vuoi fare da grande" dissi: voglio fare il giornalista. Sono arrivato ad ottant’anni, alla conclusione, ho più ricordi che speranze di una lunga vita fortunata, perché ho fatto quello che volevo fare e spero di uscire dalla scena decorosamente con le mani pulite. Ho fatto certamente degli errori ma li ho fatti in buona fede. Trovo che nel nostro mestiere la cosa più umiliante sia di essere stupidi in conto terzi, a titolo personale può capitare; ma insomma non possiamo arrivare dappertutto.
Hai detto un tema di scuola… l’hai conservato? Ti ricordi che voto ti hanno dato?
Un voto quasi eccessivo, poco meno di dieci. Poi la professoressa, che si chiamava Lina Zanetti Cavalieri, una signora che ha contato moltissimo nella mia vita, mandò a chiamare mia madre, perché io sono nato, in un villaggio di 50 anime, da una famiglia operaia e disse: "sto ragazzino, se potete, fatelo studiare". Mio padre era vice magazziniere allo zuccherificio, mia madre cuciva camicie a cottimo per un grande magazzino, ma ho avuto un’infanzia felice, non mi è mancato niente, non ho mai sentito umiliante la mia condizione sociale. Ero fin da ragazzino appassionato di teatro, il loggione delle Duse mi ha visto arrivare tutti i pomeriggi di ogni festa, perché la sera i ragazzini devono andare a letto presto. Hemingway disse: "Io ho vissuto e ho scritto". Se dovessero mettere una lapide anche per me, potrebbero scrivere: "Ha vissuto e ha scritto". Se faccio un bilancio io devo moltissimo a tanti e sono stato circondato di tanta gente migliore di me e ho dei motivi di gratitudine nei confronti di tante persone, che rimpiango, perché molti non ci sono più.
Al tuo paese natale sei rimasto legatissimo
Il paese dove sono sepolti i miei morti, dove se vai nella chiesa il mio nome è ripetuto due o tre volte nelle lapidi, perché i miei antenati invece che lasciare quegli scudi che avevano a me li hanno lasciati alla chiesa perché fosse detta un’altra messa per i pastori. Lì è sepolta mia madre e mio padre no. Siamo divisi anche lì, uomini da una parte donne dall’altra, secondo le tradizioni per cui anche alla messa le donne stanno in certi banchi e gli uomini in altri. Quello è il mio paese, un villaggio della Appennino tosco emiliano, probabilmente neanche è segnato nelle carte topografiche o lo è con caratteri minimi. Il paese si chiama Lizzano. A Berlino ho visto una vecchia mappa del ‘700, lo chiamavano Lizzammatto; vuol dire che per le nostre teste c’è qualcosa che non combacia proprio con la normalità.
E il primo viaggio?
Il primo viaggio a Roma, 1933. Ho vinto un concorso di religione e sono stato ricevuto dal Papa Pio XI, con altri ragazzi. Ero cresciuto in un circolo parrocchiale, giocavamo a football. A questo proposito ti racconto che un giorno, prima di un collegamento televisivo, l’onorevole Fini mi ha portato i saluti di suo padre. Io l’ho ringraziato e gli ho risposto, sa, onorevole Fini, quando Longanesi sull’Assalto scriveva: "meglio un balilla di dieci chierici" suo padre ed io giocavamo a football nella squadra dei chierici.
L’itinerario che stiamo percorrendo vuol coniugare nostalgia e grande sincerità. Apriamo una parentesi seria. Vorrei che tu dessi qualche consiglio utile ai giovani.
– Diceva un umorista: non datemi consigli perché so sbagliare da solo. Quindi i giovani faranno i loro errori, anche perché si muovono in un mondo così diverso da quello dal quale abbiamo incominciato noi. C’è Internet, era già una meraviglia che ci fossero le telefoto allora; abbiamo visto nascere la televisione, poi abbiamo visto un uomo camminare sulla luna in diretta. Si diceva: nessuno piange per la morte di un mandarino cinese. Poi abbiamo visto piazza Tien An Men e quei ragazzi con la camicia bianca che andavano contro ai carri armati. È cambiato il mondo: non c’è più il senso della distanza. In tre ore sono andato col Concorde da Parigi a Washington; le madri che sventolavano i fazzoletti nelle stazioni sono sparite. È cambiato tutto quanto il mondo. Ad un ragazzo che vuol fare questo mestiere direi: fallo proprio se lo ritieni necessario. Si pensi: una volta si diceva la vocazione. È forse un termine che sa un po’ di mistico, di voti per la vita. Fallo proprio se credi che questo sia il tuo lavoro. E allora se è questa la tua aspirazione, non c’è nulla di meglio. L’illusione di mettere una virgola nel grande romanzo che si scrive ogni giorno, con una tua parola. Orgoglio, vanità? Quando abbiamo incominciato noi, l’obbiettivo era diventare una firma. Adesso forse è più importante diventare una faccia, è più facile. Credo che poi sia sempre essenziale possedere una testa.
A proposito di avere una faccia: tu ormai una faccia ce l’hai. Ti conoscono, non dico in tutto il mondo, ma siamo lì.
Sono a tutti gli effetti, una persona normale. Non ho mai avuto nessun tipo di pensiero per il look. Credo che poi la televisione sia una faccia in una telecamera che parla. Poi dietro può avere dei pinguini, dei cammelli, delle donne, degli uomini, dei bambini, dei paesaggi. È un rapporto molto semplice.
Il piacere dell’anonimato come gioia di mangiare qualcosa di sapore antico non ce l’hai?
Si ce l’ho, mi considero a tutti gli effetti un contemporaneo. Non vedo nessuna giustificazione, ho sempre trovato un po’ ridicoli quei nostri colleghi che si presentano dicendo "stampa". Parole che non ho mai peraltro avuto bisogno di usare. Credo che noi abbiamo già tanti privilegi come quello di fare un mestiere che se l’hai fatto perché da ragazzo sognavi di farlo, sei una persona molto fortunata.
Hai ancora quell’entusiasmo di scattare sulla notizia, di scattare sull’avvenimento, di non guardare che giorno della settimana e che cosa hai programmato, pronto ad andare a prendere il primo aereo per incontrare Tizio o Caio?
Mi è rimasto, l’interesse per quello che accade intorno a me. Quando è scoppiato il caso della fabbrica di Seveso, un bel po’ di anni fa, ricordi l’inquinamento? io ero in campagna, quel giorno. Al Corriere della Sera cercavano un inviato e non trovavano nessuno. Era un sabato. Ci sono andato io partendo da Sassomarconi e andando a Seveso. Trecentocinquanta chilometri buoni. "Dove il lavoro ivi è la mia vita". Dove c’è il fatto è importante esserci. Un grande giornalista di cui i nostri colleghi non si ricordano più, Tommaso Besozzi, è morto in maniera tragica. Hemingway che aveva visto certe cose disse: "questo è anche più bravo di me". Besozzi scoprì la verità sulla morte di Salvatore Giuliano, fece liberare un certo Cornu in Francia, che stava per finire sulla ghigliottina, scoprendone l’innocenza. Besozzi diceva che ad un certo momento se sei in una baracca nel deserto e sai guardare attorno, perché non si tratta solo di guardare, si tratta di vedere, puoi scoprire una storia meravigliosa.
Posso, per i lettori, testimoniare a questo punto dell’intervista che le citazioni che fa Enzo Biagi le sta facendo a memoria, e non avendo sottomano un utile archivio.
Io ho due dizionari, perché ho sempre dei dubbi e cerco di andare a controllare. Poi uno dei dizionari l’ha fatto un mio amico fraterno, Pittano, e quindi ogni volta che vado a cercare qualcosa è un modo anche per ricordarmi di lui.
E quando leggi il giornale la mattina ti arrabbi ancora quando trovi refusi magari sui tuoi articoli?
I miei articoli tendo a non rileggerli. I refusi e gli errori fanno parte del mestiere, e poi c’è sempre l’alibi di dare la colpa ai correttori di bozze (categoria scomparsa, ndr.). Del resto spesso erano più bravi dei giornalisti; una grande soddisfazione era quando loro potevano venirti a dire: scusi, ma qui che cosa voleva dire, guardi che non è Muzio Scevola quello che ha fatto… ma invece Attilio Regolo…
Erano quasi tutti insegnanti che arrotondavano lo stipendio, covando però il desiderio di diventare giornalisti
Molto bravi, molto bravi.
Abbiamo citato di passaggio, il teatro, al quale ti sei dedicato poco. Un paio di commedie messe in scena a Bologna alla Soffitta e a Milano, sl teatro Nuovo. Questa seconda si intitolava Noi moriamo sotto la pioggia ed aveva come interpreti Romolo Valli, Valentina Fortunato ed altri bravi attori guidati da Fantasio Piccoli. Un tuo collega. Dino Buzzati, aveva un vero debole per il teatro. Lui che aveva avuto molti successi come scrittore ovviamente e addirittura come pittore, come autore teatrale, dai critici non era molto amato. Una certa critica era un po’ compiacente ma quelli che non avevano legami con via Solferino, non lo trattavano bene. Lui ci restava male.
Doveva sapere che non gli avrebbero mai permesso di invadere un altro campo. Era un giornalista famoso, era uno scrittore tradotto in giro per il mondo e un giorno vuole anche fare teatro. Dicevano ma dove vuole arrivare? Sono tentazioni che non bisogna avere, anche se puoi avere interesse per questo straordinario mezzo per raccontare. E già per qualcuno facciamo troppo, già il fatto solo di esistere, magari anche ad una certa età di essere ancora sulla piazza. Bisogna camminare in punta di piedi senza far rumore.
E quali sono le stanze dentro alle quali hai deciso di non entrare e che magari forse, forse sono un po’ nel cuore?
Io sono piuttosto solitario come carattere. Sono goffo, imbarazzato, non ho mai fatto vita sociale. La sera sono sempre in casa. Pochi amici, anche i conoscenti erano di solito gente che aveva a che fare con me per ragioni di lavoro. Non ho mai pensato al mio mestiere come carriera, ho fatto semplicemente il cronista come avevo cominciato da ragazzo. Il Resto del Carlino mi sembrava già tanto, e quando sono tornato al Carlino come direttore – ed è stato un errore perché come mi disse Dollmann, interprete di Hitler e Mussolini, e aveva ragione "non bisogna mai ritornare dove si è stati felici" – tornavo al giornale dove avevo cominciato da ragazzo e passando davanti alla Certosa dov’è sepolto mio padre, mi venne spontaneo da dire: "vedi babbo che non ero un fesso?". Sono tornato qua in un certo modo. Invece un po’ fesso lo ero, perché proprio non bisogna guardare indietro. Ho visto anche altri colleghi che hanno fatto la stessa cosa, le cose riviste con gli occhi della giovinezza non sono più quelle, perché neanche noi siamo più quelli. Bernanos ha detto: "ci sono tanti morti nella mia vita, il primo morto di tutti è il ragazzo che io fui". Una cosa che io ho sempre in mente perché se è vero che portiamo dietro i sogni dell’adolescenza, le illusioni, una certa visione del mondo fatto in un certo modo… Poi col tempo…; è Pirandello che dice: "sono quei frutti che maturano a forza di ammaccature". Forse è stato così per la nostra generazione. Chi aveva vent’anni nel 1940 ha vissuto un’esperienza. Quelle esperienze tristissime che sono segnate dagli eventi. Auguro ai ragazzi, i nostri figli, i nostri nipoti, quelli che verranno, di avere pochi eventi, una vita il più possibile normale, consueta, abitudinaria.
Citando Pirandello hai usato il vocabolo frutto: c’è qualche frutto proibito che avresti voluto assaggiare?
Ma no, io ho avuto tanto, io sono una persona che ha ricevuto tantissimo. Non c’è motivo, mi è andata bene così. Sono ancora qua, mi guardo attorno, manca tanta gente nei miei appelli sentimentali della memoria. Ancora posso lavorare, non mi hanno ancora detto di scendere dal ring. Spero di farlo con le mie gambe. Quando sarà il momento, se mi accorgo o se mi faranno capire che non è più il caso di insistere.
Beh, una volta tutti i giovani giornalisti ambiziosi credevano di avere nello zaino il bastone di maresciallo, cioè quello di direttore del Corriere della Sera.
Io non ho mai avuto nello zaino queste cose, ma quello che mi serviva per sopravvivere.
Io so che qualche candidato direttore del Corriere della Sera è venuto a chiederti il permesso di occupare quella poltrona che lui riteneva fosse più giusto proporre a te.
Ma, caro Emilio, non ho mai avuto dei sogni di direzione e quando l’ho fatto è stato perché me l’hanno chiesto. A me è sempre piaciuto fare le cose con gli altri, certo qualche volta si vede solo la punta dell’iceberg. Nel lavoro che io ho fatto c’era tanta altra gente. A molti io debbo molto, insisto, ma è così.
Ho fatto una citazione senza fare il nome del protagonista e so anche chi te l’ha detto; probabilmente te ne ricorderai forse più di uno.
Va bene, ma mi credi se ti dico che non ricordo niente? È andato tutto molto bene, faccio le cose che mi piace di fare. Ho avuto dei giovani direttori che sono stati con me di una gentilezza infinita. Forse sarò anche alquanto sentimentale, ma mi fa piacere. Quando uno compie ottant’anni è già un traguardo inconsueto nella normalità della vita. Se uno poi fa il nostro mestiere che è un mestiere impudico, siamo esposti alla curiosità di tutti. Ho avuto tantissime cose, addirittura, fuori da ogni previsione. Sto per andare dieci giorni in Argentina, dove l’università di Buenos Aires vuole darmi la laurea per la comunicazione e devo fare una specie di discorso ai giovani colleghi che sono là e faranno la nostra professione.
Ma la lezione la scriverai o la improvviserai?
Parlerò, così come stiamo parlando noi adesso. . Credo che sia meglio. Poi dirò: "provate ad allenarvi a fare l’intervista, fatemi delle domande!".
Provo io a fartene una e chiederti: hai qualche sassolino nella scarpa da toglierti?
No, no, posso camminare agevolmente. Io credo che anche per avere dei rancori bisogna avere molta memoria e con la memoria che ho… la mia testa è fatta in un certo modo per cui ricordo le cose che mi servono per il mio lavoro. Per esempio non ho nessuna prontezza, se tu mi chiedi ad esempio : "Con chi stava Tizio?". Mia moglie dice: "perché sei ipocrita e queste piccole storie degli uomini non le vuoi dire!". E’ che a me di queste storielle, non m’importa proprio niente. Invece per le cose che mi servono, si, ho buona memoria.
Ci sono però anche le cose che noi rifiutiamo quelle che teniamo in mente sono quelle che ci premono di più o quelle che ci fanno compagnia. È anche legittima la difesa dell’uomo che vuole cancellare certe cose. Io trovo che si possa fare. Non si toglie niente; e poi guarda, per avere spazio e tempo per il rancore…, se ne può avere un po’ per i rimorsi, per le cose che abbiamo fatto. Io non sono praticante, sono religioso perché penso che fra noi e i lombrichi ci sia una certa differenza come destino, anche se non so come è fatta la società dei lombrichi, perché potrebbe essere migliore della nostra. Questo non lo posso escludere. E la sera, prima di addormentarmi, mia madre mi diceva sempre: "dì l’atto di dolore, perché se muori stanotte, vai in Purgatorio". Non era una prospettiva di grande letizia. Io non mi addormento mai senza chiedere perdono a Dio per quello che posso aver fatto di ingiusto, o posso aver ferito qualcuno. Anche scrivendo, può capitare. Mi ha detto Raimond Aron, una persona che io ho molto ammirato: "ci sono delle persone che non mi piacciono e faccio il possibile per farglielo sapere". Anche io nel mio piccolo mi comporto così.
Però di querele mi pare che tu non ne abbia avute tante.
No, pur avendo diretto per otto o nove anni delle cose, credo di averne avute un paio e anche di aver vinto le cause.
E tu ne hai date di querele?
Ne ho data soltanto una, credo.
A chi?
Beh, lasciamo stare. È uno che ha detto che mi faccio scrivere i libri. Se ci sono dei negri è ora di farli diventare bianchi. Sul mio lavoro non accetto scherzi, battute.
Chi ti ha deluso?
Per essere delusi bisogna aver avuto delle speranze. Non ho tante delusioni. Per le persone che hanno accompagnato la mia vita io non ho avuto molte delusioni. Poi sai, la memoria è un peso troppo grande per certe persone, anche delle quali magari sei stato buon amico. Quelli che spariscono è giusto che spariscano. Rimane quello che deve essere vivo negli affetti, nei rapporti. Io la penso così.
Mi pare che nella vita, a parte le delusioni professionali, ci siano anche appunto le delusioni a cui tu non dai grande importanza, cioè non senti il dolore di un coltello che ti gira nella piaga della memoria. Questo vuol dire avere una filosofia, magari una filosofia quasi orientale.
No, vuol dire avere rassegnazione. Io ho avuto tre interventi al cuore, cioè il mio cuore è stato fermato tre volte e ho sei bypass; quindi ho chiara una mia idea della vita e della morte. Ho fatto anche 14 mesi sulla Linea gotica in una brigata partigiana a suo tempo. Il senso della morte, ce l’ho. Io sono abbastanza sereno e abbastanza contento di vivere queste giornate, anzi, contento, senza abbastanza.
Faccio io una citazione a questo punto. Diceva Seneca: "non è importante imparare a vivere ma imparare a morire". La trovi giusta ?
No, io credo che a morire siano capaci tutti. Imparare a vivere è molto più difficile. Bisogna avere rispetto per gli altri, rispetto per sé. Ci sono persone che non ne hanno tanto. Vedo delle cose sguaiate, ogni tanto, in giro: e certe esibizioni le trovo molto di cattivo gusto.
Oggi, 14 settembre, è stata una giornata nella quale la cronaca ha fornito molti spunti, che prenderanno connotazioni molto più ampie quando quest’intervista sarà pubblicata. Ecco, tua una considerazione, non tanto sui fatti in sé (voglio citarli così disordinatamente: si sta aspettando la decisione finale se mandare sulla sedia elettrica Rocco Barnabei).
Questo è il fatto del giorno. Quello che colpisce è come tutto sia diventato spettacolo, La notizia si sta dilatando sarà tutta la serata, questa sera dedicata a questo disgraziato, protagonista della sua ultima pagina. con collegamenti continui, su tutte le reti, in ogni casa. La morte dovrebbe essere affrontata, la morte degli altri, in ben altro modo.
E la stessa giornata nella quale si sta attendendo notizie su quella madre che ha partorito una bimba e altri sette feti, c’è quella donna da Napoli che si è buttata…
E poi i drammi cosiddetti sociali, l’alluvione, la tempesta, vanno visti come tante storie individuali. Voglio dire sono i cosiddetti fenomeni della natura, no? L’alluvione, il temporale che distrugge, il ciclone, tutto!
A proposito di Soverato, un vescovo ha detto: dov’era Dio la mattina dalle 4.30?
Terribile, sono questi i destini che si incrociano come in quel bellissimo libro Il ponte di San Louis Rey, dove tutte le vicende e i drammi di una piccola città si mescolano. Chi c’è su quella diligenza che cade, che crolla sul ponte? Ecco sarebbe curioso dire chi erano, o chi sono. Sono tutte storie da ricostruire.
Io penso ad una parola che ha usato Mario Luzi a proposito del mondo come va. È un mondo che si sta sbriciolando…
Sai, nell’Ecclesiaste si dice: "una generazione va e un’altra viene". Quelli che sono stati i nostri sogni sono quelli dei ragazzi che crescono oggi. Gli orsi quando sono al Polo diventano bianchi, quando vanno sulle montagne dei Carpazi diventano bruni. Si adattano al tempo che gli tocca di vivere. Se penso a quella che è stata la nostra infanzia, la nostra adolescenza, ai piccoli piaceri, alle avventure che erano i film di Tom Mix…. Ma cosa vuoi, noi ormai partecipiamo, almeno visivamente, alle cose del mondo in diretta. Solo bisognerebbe insegnare a guardare la televisione. Come peraltro leggere il giornale. Leggere anche al di là di quello che sono le parole scritte.
Non so se questa domanda, che è molto banale sia giusto portela, ma io lo faccio: si parla spesso di sogni nel cassetto. I sogni possono essere grandi, piccoli… tu hai scritto più di 100 libri, magari potresti scriverne altri 100.
Per fortuna meno! Io non ho grandi programmi o grandi traguardi. Ogni giorno secondo me è una bellissima avventura. Il piacere di esserci, così, stando ragionevolmente bene. Non ho traguardi da pormi. Arrivati a questo punto non voglio tanto guardare indietro ma guardo davanti a me, al presente. Il presente è un giorno, poi un altro giorno, senza porsi delle mete così lontane. Poi, che tipo di ambizione? Sono tanto soddisfatto e contento di potere continuare a fare il mio mestiere. Chi ha avuto certe esperienze umane come ho avuto io, si considera già un grande privilegiato.
Fra le tante interviste che ti sono state chieste, fra le mille domande che ti sono state fatte, ce n’è qualcuna che non è stata fatta e che tu hai magari temuto che qualcuno te la ponesse?
Se una cosa non la so, dico: non lo so. Non ho nessun problema, nessun imbarazzo. . E se è una cosa che riguarda altre persone dico: beh, su questo posso parlare, non voglio parlare, desidero parlare, tutto lì.
A uno che ritiene di aver letto quasi tutti i tuoi libri…
Un gesto di buona volontà.
Un gesto di amicizia e anche di fiducia nel libro successivo. Ce ne sono alcuni nei quali maggiormente, per quanto mi riguarda, mi sono ritrovato, alcuni mi hanno colpito anche per le anticipazioni. Se tu dovessi fare un viaggio e potessi portare anche un solo libro, porteresti un tuo libro o il libro di qualcun altro?
Ah, porterei un altro libro: il Vangelo.
E a me cosa suggeriresti di leggere fra i tuoi libri?
Quelli più personali, quelli in cui racconto attraverso la mia storia anche delle altre storie. Quelli più narrativi. Poi dipende dall’interesse del momento. Forse anche le testimonianze su certi paesi, La mia Geografia, perché è fatta di uomini. Io sono stato in America 50 volte, l’ho girata coast to coast. Non ho mai visto le cascate del Niagara. Sono sempre andato a cercare delle storie, perché è l’unica cosa che so fare.
Già, …