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L’Europa assediata

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Iris Borelli
Presidente dell’Associazione Peace-makers for the local governance

"Da quando esistono le armi da fuoco e soprattutto da quando il loro uso si è’ generalizzato, chi non è passato per il "battesimo del fuoco" non può concretamente vantarsi di aver partecipato a quell’omicidio legale (ma anche suicidio) che è chiamato guerra: anche se la pittoresca espressione è sempre meno legata a un vero e proprio fuoco –  e come sarà in futuro, col "progresso"? – ma implica comunque un movimento e in generale un uso di mezzi meccanici, che richiamano un rischio concreto di morte immediata, propria o altrui."

Umberto Serafini, " La mia guerra contro la guerra"

Ad Hampton Court, Tony Blair si è trovato con il semestre di Presidenza britannico in una Europa disorientata e presa d’assedio. Alle porte di Shengen, area di democrazia e di  libero scambio, Giano mostra un’altra faccia, e scopre il volto della violenza, dell’arbitrio e del crimine.

Una Europa dove i principi che ne costituiscono il fondamento – orizzonte di senso dell’Unione  – sembrano sempre più ridursi ad una scatola vuota. L’inviolabilità della dignità umana, il diritto alla vita, il divieto di trattamenti inumani e degradanti, l’uguaglianza di fronte alla legge, per citarne solo alcuni, sono colonne portanti che smascherano ora la propria  virtualità, come se la massa ideale facesse ombra ad una realtà ben diversa.

Una realtà che sembra disincarnarsi nei grigi vapori dei pugni di ferro, od occultarsi sull’onda di parole e risoluzioni di vertici istituzionali sbiancati e verniciati di sintetico. Voci e scritture che hanno perso il senso del reale e della corposità che viene dalla rappresentatività e dal consenso, dalla capacità di plasmare e di riscaldare il cuore, di soffiarvi dentro aneliti di speranza.

Il vertice europeo del 27 ottobre si è aperto in un punto dello spazio-tempo della nostra Europa, un punto sulla tangenziale che lascia il filo scoperto per un tratto del suo percorso: dagli orizzonti del deserto del Sahara, dai muri di spine di Ceuta e Melilla e dalle latrine di Lampedusa, fin dentro le torce umane nei gabbioni di Schilpol e gli incendi di Seine-Sainte-Denis, nelle banlieues  metropolitane francesi al centro dell’Europa democratica.

Tra le aree prioritarie di lavoro poste da Tony Blair, la quarta è quella dell’immigrazione. Nel suo discorso al Parlamento Europeo di Strasburgo ha affermato che il problema è sia quello di controllare l’immigrazione, ma anche quello di usare le migrazioni per promuovere l’efficienza e la competitività dell’economia europea. Insomma, l’immigrazione va tenuta sotto controllo perché in questo modo può apportare benefici economici per noi europei. D’altra parte, come conferma in una recente conferenza stampa l’On. Frattini, in qualità di Vice-Presidente della Commissione Europea, l’Europa sta sigillando il nesso causale tra lavoro e permesso di soggiorno, con un prossimo pacchetto di proposte sull’immigrazione economica e con la costituzione di una carta verde per gli immigrati legali [1].

In questa pragmatica impostazione del problema, la persona, ogni persona, quale soggetto di diritto, tende di fatto a sbiadire i contorni, marcando invece una separazione tra legalità e illegalità del tutto particolare, basandola sulla capacità dell’individuo di competere per conquistare un contratto di lavoro in Europa, e di poter calpestare così quel suolo così ambito, costi quel che costi. Un pragmatismo che si interseca in un modello di sviluppo caratterizzato da una competitività selvaggia, e dal disciogliersi progressivo dello stato sociale, come anche preannunciato dalla Direttiva Bolkenstein [2] per la privatizzazione dei servizi, e da un uso flessibile e illegale delle risorse umane [3], attraverso l’organizzazione del mercato del lavoro in quattro categorie fondamentali: gli europei legali (per così dire, tra straordinari non pagati e precariato a breve termine) e quelli illegali, o al nero; gli extra-comunitari legali (la manovalanza delle quote di immigrazione, ma anche tecnici, imprenditori, ed operai qualificati, che testimoniano, con l’esportazione di cervelli,  il loro alto tasso di scolarità) ed i così detti clandestini,  termine usato in modo polimorfo, che sulle zattere del mare significa senza una identità documentabile, mentre nei campi europei di raccolta delle fragole sta a significare senza un permesso di soggiorno, con il più alto livello di sfruttamento del lavoro.

Paradigma e orientamento che con l’allargamento dell’Unione tende a rafforzarsi nei suoi schemi e nelle sue prospettive, in una competitività crescente anche tra i poveri della terra, in un quadro di delocalizzazione non solo delle imprese, ma anche della funzione di Cerbero e di guardiano alle frontiere dell’Europa, in paesi che dimostrano tuttora di essere al di fuori del rispetto di quei diritti che tanto pomposamente affermiamo.

Una prospettiva che passa in sordina, mentre il mito, l’ethos dell’Europa, si inabissa nella percezione diffusa di un fallimento di slanci ideali, della coesione e della solidarietà.

La percezione di una Europa messa sotto assedio non solo dalle invasioni commerciali della Cina e dell’India, dal terrorismo internazionale e da mafie locali o globali, ma insieme dai poveri della terra che premono alle frontiere, sia esterne che interne nelle rivolte delle periferie urbane. Frontiere che forse non è esagerato definire in guerra, dal momento che inviare l’esercito a Ceuta o deliberare il coprifuoco a Parigi appartengono alla prassi degli stati di emergenza ed anche dei conflitti armati. Se non ne abbiamo una vera percezione, è perché il fosforo bianco di Fallujia non ha ancora sciolto la nostra testa. Fin qui infatti siamo riusciti, noi europei ed occidentali, a reggerci sui trampoli, esportando la guerra nei ghetti e nei paesi terzi, il prezzo inevitabile dell’iniquità. Ma l’aria che respiriamo è infestata di inquietanti presagi, inzuppata di aliti cattivi, e delle tossine che emanano dalle no man’s lands,  dentro ed ai margini della nostra Europa del diritto. 

Non che a volte non serva l’acciaio. Ma l’acciaio va trasformato in oro. Se non c’è un’intelligenza superiore che trasforma e porta al cambiamento, con il coraggio di mettere in discussione i propri interessi di parte, con le gambe di legno prima o poi si cade.

È bene a volte ricordare la storia, ad esempio che il Terrore della Rivoluzione francese sopraggiunse dall’esclusione del popolo contadino da quei diritti appena proclamati.

È necessario interrogarsi sulle cause, e cogliere l’intima relazione tra gli eventi.  Ciò che sembra prevalere è invece una politica istituzionale, nazionale ed europea, che con la spada della fermezza s’infilza la testa nella sabbia e porta alla capitolazione dei valori umani e ideali dell’Europa, assieme ai suoi obiettivi di coesione economica e sociale, occultando all’opinione pubblica la vera natura degli interessi in campo.

Una Europa sulla difensiva, sotto l’assedio della paura di perdere profitti e privilegi, non fa più cultura, riduce i tempi ed i contenuti dell’istruzione a moduli aziendali. Non osa più riflettere, per difendere la propria storia di Unione. Si ammala per mancanza di respiro, e soccombe all’arbitrio e alle leggi della guerra.

Se la paura aumenta il rischio del terrore, il coraggio della verità può contrastarlo.

Ma questo non l’abbiamo compreso, e così le nostre colonne portanti sbiadiscono e si sgretolano, senza accorgercene, mentre i discorsi politici e programmatici perdono progressivamente di pudore. Restano labili lampi o balbettii sulla bocca di qualcuno, piuttosto come esercizio intellettuale e morale, che ha perso però di adesione alla realtà.

Così è nei fatti, e questi fatti vanno detti, non solo perché testimoniano una violazione concreta del diritto internazionale e di quello comunitario, ma innanzitutto perché scuotono la nostra coscienza di cittadini europei.

È vero, l’emergenza immigrazione è dirompente. È anche vero tuttavia che, secondo le Nazioni Unite, 200 milioni di persone vivono come migranti in tutto il mondo, e solo una minima percentuale si disloca in Europa, dove ogni anno circa in 500 mila tentano di entrare in modo irregolare. Mentre sto scrivendo, leggo che altri 374 stranieri sono sbarcati in Sicilia.  Secondo l’ultimo dossier della Caritas, quasi quattordicimila migranti sarebbero sbarcati in Italia nel 2004, e almeno 500, secondo le stime ufficiali, morti nei naufragi. Questi fenomeni stanno tuttavia a significare il fallimento delle strategie di difesa che l’Europa ha messo in atto, almeno rispetto ai suoi principi di costituzionalità e di rigetto di ogni barbarie. Incapacità di realizzare una strategia umanitaria,  in grado di andare alla radice del problema e di mettere in opera risposte adeguate ed efficaci, sulla base di norme e leggi a misura d’uomo.

Qualche mese fa, scrivevo sulle colonne di questa prestigiosa rivista sul genocidio degli Armeni, avvenuto attraverso le deportazioni nel deserto siriano. Non pensavo allora che avrei scritto ancora su deportazioni a noi contemporanee.

In effetti, già nell’ultimo mese di marzo, Fabrizio Gatti, il giornalista che, fingendosi immigrato clandestino, ha recentemente denunciato sulle pagine dell’Espresso il trattamento riservato agli ospiti del Centro di Permanenza Temporanea di Lampedusa, aveva già scritto, in un reportage pubblicato sulle pagine dello stesso giornale, della morte di più di cento migranti deportati nel deserto libico, al confine con il Niger, dopo essere stati espulsi dall’Italia [4]. Pochi mesi dopo, ad agosto, il premier Berlusconi firmò un patto con Gheddafi, per l’accoglienza e il reimpatrio dei migranti respinti dall’Italia, provenienti dal sud della Libia. L’accordo fu fatto con un paese che non ha ancora firmato la Convenzione di Ginevra. Cosa sia stato previsto in questo accordo, non è dato sapere neppure al Parlamento italiano, nonostante che le espulsioni di migranti dall’Italia alla Libia siano state al centro di preoccupazioni espresse dall’UNHCR sui metodi sbrigativi usati nei reimpatri forzati da Lampedusa nell’ottobre dello scorso anno e di interrogazioni internazionali, europee e parlamentari: dalla richiesta di informazioni avanzata dal Tribunale di Strasburgo a seguito della visita di una delegazione di eurodeputati nel mese di giugno [5], alle interrogazioni al Parlamento italiano su presunte espulsioni collettive [6] vietate dal Protocollo n. 4 della Convenzione Europea sui diritti dell’Uomo, alle denunce di diverse organizzazioni umanitarie [7].

Sembra però che, dopo questo accordo, la politica di accoglienza del governo libico ha cambiato rotta. Come testimonia Gatti nell’articolo citato, anche gli immigrati che lavoravano in Libia senza alcuna intenzione di tentare l’avventura europea, sono stati allontanati: in quattordicimila caricati su camion e scaricati nel deserto dopo dieci giorni di viaggio nel Sahara. Avevano pagato il loro viaggio di ritorno, per non finire nei campi di detenzione. Sono finiti invece sulle dune, derubati di soldi e bagagli, senza acqua né cibo.

Seppure ci si voglia trincerare dietro il diritto formale che prevede, nell’ambito di accordi bilaterali, l’espulsione del migrante irregolare, una volta che sia stato identificato, verso l’ultimo paese di transito, tuttavia ciò non esime i governi di questi paesi e di quelli europei coinvolti in queste vicende, dall’obbligo di rispondere, render conto e difendersi dalle accuse di gravi violazioni dei diritti umani, dai trattamenti inumani e degradanti, a stati di detenzione ingiustificati, all’espatrio massivo e forzato senza aver garantito l’accesso al diritto di asilo o di protezione sussidiaria [8], nel rispetto del principio del Non-Refoulement.  In tale contesto e non solo in ambito di politiche di integrazione e sviluppo, gli Enti locali e regionali potrebbero svolgere un ruolo importante nell’attivazione di prassi idonee all’accesso nei Centri di Protezione Temporanea, per il controllo sulla gestione e sul rispetto del diritto di asilo e dei diritti umani, facendosi protagonisti di una politica locale non solo sul piano amministrativo. 

Quel rispetto della legalità che qualcuno immagina riflessa in decorosi voli charter con a bordo gli espatriati riportati a casa e salvati dai trafficanti d’uomini, dalla prostituzione e dalla manovalanza del terrorismo, corrisponde solo in parte alla realtà: quando i paesi di origine, in virtù di specifici accordi, mettono a disposizione i loro voli. Eppure anche in questi casi dovrebbe essere stata accertata la mancanza dei requisiti per l’accesso al diritto di asilo, nel rispetto delle normative internazionali, europee, e nazionali [9], anche se il contesto di tali normative si sta progressivamente orientando verso una discutibile accelerazione delle procedure [10]. La realtà è che l’espulsione avviene in due tappe: verso l’ultimo paese di transito, come la Libia o il Marocco, e poi, nella maggior parte dei casi,  … nel deserto. ll controllo dell’immigrazione irregolare avviene nei paesi di ultimo transito, con le retate degli apparati di sicurezza, gli internamenti nei campi di detenzione e le deportazioni verso le zone di frontiera dei paesi che gli immigrati hanno attraversato nel loro percorso migratorio, quali l’Algeria, il Niger o l’Egitto,  prima di giungere ai confini del mare o delle enclaves, ultimo tratto di uno spazio infinito che ancora li separa dall’Europa. Il viaggio di reimpatrio forzato raramente arriva a destinazione. A volte la traiettoria viene depistata verso zone di naufragio, senza possibilità di andata o ritorno, verso una condanna a morte. Esportazione della violazione del diritto fondamentale alla vita.

Se l’Europa è terra di legalità, e se entro i confini di questa legalità non si riesce a gestire la pressione migratoria dei clandestini, forza occulta e inquietante che irrompe dalle viscere di una terra violata, umiliata e denudata fino all’osso, è perché questa legalità è ormai ridotta ad una cornice barocca, che rovescia i termini della questione e confonde le acque. Ciò che sta diventando legale è un’altra cosa rispetto a ciò che è scritto finora  nelle carte dell’Europa: è la logica che sigilla il vertice di Humpton Court, o le leggi come la Bossi-Fini. Ma questo tipo di legalità non può, non riesce a gestire la realtà, questa realtà che viviamo, e così la soluzione è quella di mettere fuori dalla porta il problema, fuori dell’area del libero scambio, della sicurezza e del diritto, delocalizzando l’illegalità negli spazi vuoti del deserto o delle no man’s lands. Così il "Mare nostrum"[11], la culla delle civiltà e di un partenariato euro-mediterraneo, con le sue Colonne d’Ercole e le sue vittorie, s’inquina di telecamere a raggi infrarossi oltre che di cadaveri, sottoponendo l’ormai lontano vertice di Tempere a qualche cancellatura, vertice che aveva tentato di porre i capisaldi di uno spazio europeo di sicurezza "e" di giustizia, e di regolamentare le politiche migratorie e dell’asilo in una prospettiva di armonizzazione delle normative nazionali. Cancellature, in cui i governi si ricompattano di fronte all’assedio delle frontiere e nelle pratiche di espulsione.

Una tragedia forse di più ampie dimensioni di quella consumata nelle terre libiche ha insanguinato la vigilia del vertice europeo. 

Dopo il rafforzamento degli sbarramenti sullo stretto di Gibilterra e le Canarie, i muri di filo spinato di Ceuta e Melilla – uniche frontiere terrestri tra l’Africa e l’Europa e porti franchi per traffici illeciti – sono stati presi d’assalto in un crescendo mozzafiato negli ultimi mesi dai migranti subsahariani, gente proveniente dal Senegal e dalla Nigeria, dalla Guinea, dal Mali, dal Camerun e dalla Costa d’Avorio, ma tra loro vi erano anche marocchini. Dopo un lungo percorso migratorio, si rifugiano nelle boscaglie attorno alle città o nelle medinas di Rabat e di Tangeri, in attesa del momento opportuno per tentare il salto in Europa. Una situazione esplosiva, già con 6.000 arresti dall’inizio dell’anno e 8.500 agenti di sicurezza impiegati nella lotta contro l’immigrazione illegale. Nei giorni tra il 27 settembre ed i primi di ottobre, proprio in coincidenza di un summit ispano-marocchino a Siviglia sulla questione dell’immigrazione, si sono contati morti e feriti. Il 28 settembre in trecento hanno tentato di oltrepassare le frontiere di Melilla: più di duecento arresti. La notte del 29 settembre, cinquecento immigrati, muniti di centinaia di scale fatte con i rami, assalgono le barriere di filo spinato di Ceuta: decine di feriti e 5 morti colpiti da proiettili di gomma; tra i morti c’è anche un neonato. Le accuse sulla responsabilità di questi omicidi sono rimbalzate dalla Spagna al Marocco e viceversa.

In risposta a questa emergenza, il governo spagnolo ha inviato circa 500 soldati dell’esercito per rafforzare la difesa delle sue enclaves. Il dramma si ripete. Il 3 e il 6 di ottobre altri assalti a Melilla, che lasciano sul terreno sei cadaveri, alcuni uccisi da proiettili, altri calpestati dai compagni o infilzati sulle spine.  Il 7 ottobre a Ceuta, nuovo tentativo da parte di circa 650 persone, di cui 300 riescono ad entrare, in un punto dove il muro del filo spinato è stato innalzato fino a sei metri. Sul terreno decine di feriti, colpiti a manganellate e calci di fucile, da un ingente spiegamento di forze: la Guardia Civile e l’esercito spagnolo, la Gendarmerie Royal, le forze ausiliarie e della protezione civile marocchine. Intanto gli accampamenti degli immigrati vengono rastrellati a tappeto, con battute di cani nelle foreste, furti, razzie e messa a fuoco delle capanne, mentre la stampa marocchina si fa lustro della partecipazione degli abitanti dei quartieri confinanti nella caccia all’uomo. Il 31 di ottobre in più di mille assaltano di nuovo le frontiere di Melilla, ma sono respinti dalle forze di sicurezza. Il giorno prima veniva rafforzata dal governo di Zapatero la Convenzione di espatrio stipulata tra Spagna e Marocco nel ’92, per l’espulsione immediata dei clandestini  penetrati in territorio spagnolo dal Marocco, come ultimo paese di transito.

La stampa spagnola ha avanzato il dubbio che il governo marocchino abbia in qualche modo spinto gli immigrati, come in una sorta di cavallo di Troia, verso questi assalti di particolare entità, intensificando, con l’inverno alle porte, la caccia a questa gente per deportarla negli accampamenti militari al fine di alzare il tiro sulle risorse necessarie per il controllo delle frontiere e per reclamare la sovranità delle due piazzeforti che sono ancora spagnole per una storia di colonialismo [12].

Contestualmente alla guerriglia di frontiera, ci sono state le deportazioni di massa nel deserto. L’Agenzia Euronews il 9 ottobre informava sul fatto che, al momento, risultavano reimpatriati via aerea solo i migranti provenienti dal Senegal e dal Mali, Stati con cui il Marocco ha raggiunto un accordo. È difficile ancora conoscere la vera entità del fenomeno.  In centinaia, abbandonati a 600 chilometri a Sud di Melilla, ai confini con l’Algeria; altre centinaia ai confini con la Mauritania. Sono state le testimonianze dei sopravvissuti, e di alcune Organizzazioni umanitarie internazionali presenti sul campo, a far emergere di fronte agli occhi dell’opinione pubblica questa orribile realtà.

Il 7 ottobre l’organizzazione MSF aveva localizzato circa 500 immigrati di origine subsahariana abbandonati dalla polizia marocchina a 600 chilometri a sud di Oujda, tra cui molti feriti per i maltrattamenti subiti, tra cui donne e minori, ed anche cadaveri vicino alla frontiera con l’Algeria. Il 16 ottobre l’organizzazione spagnola SOS Racismo denunciava la presenza di migliaia di subsahariani deambulanti nel deserto, verso la Mauritania, in condizioni disperate, molti dei quali feriti. Il 26 ottobre, a Madrid, Amnesty International  puntava il dito, in una conferenza stampa, contro le forze di sicurezza spagnole e marocchine, per l’uccisione ed il ferimento di persone che tentavano di superare un reticolato. Il Fronte Polisario paventava il rischio di una catastrofe umanitaria, a seguito di deportazioni avvenute in zone del Sahara occidentale, infestate dalle mine anticarro e antiuomo poste dall’esercito marocchino nella guerra con il Fronte.

Mentre si teme per l’abbandono nel deserto di migliaia di persone, emerge l’accusa contro il governo spagnolo e l’Unione Europea di corresponsabilità nella violazione dei Diritti Umani da parte del Marocco. 

La denuncia più documentata e che ha suscitato maggiore scalpore è quella di Médicins Sans Frontières, ed il loro Rapporto pubblicato di recente [13]. Le testimonianze sugli ultimi eventi sono state possibili per il soccorso prestato a cinquanta persone, tra cui anche donne in gravidanza e minori, contuse e ferite dalla violenza della polizia sia marocchina che spagnola, ed anche per il ritrovamento di cadaveri alla frontiera con l’Algeria. Quelli che sopravvivono riprendono a piedi il viaggio disperato verso la costa: è l’unica, pallida, possibilità di sopravvivenza. Nel suo rapporto, MSF denuncia misure repressive estremamente violente, e la morte di 6.300 persone sulle coste marocchine e spagnole negli ultimi dieci anni, oltre a coloro che muoiono durante il transito verso il Nord Africa attraverso il Sahara. Gli atti di violenza e le deportazioni di massa sono dirette a gruppi collettivi di migranti provenienti dai paesi dell’Africa sub-sahariana. L’organizzazione ha effettuato negli ultimi tre anni 9.350 consulti medici, per violenze subite a causa di aggressioni di cani, pestaggi, ferite da armi da fuoco, cadute, violenze sessuali. Violenze subite durante i raids della polizia, con l’uso di cani, cavalli, elicotteri e gas lacrimogeni, o per l’aggressione di nomadi e criminali comuni, o traumi subiti nel tentativo di scavalcare le frontiere. Le testimonianze riportate dalle vittime sono agghiaccianti. Ne voglio dire solo una. Un adolescente della Guinea-Conakry, assieme ad altri due immigrati, viene catturato dalle guardie spagnole mentre tenta di attraversare la rete di Ceuta e sospinto indietro attraverso il cancello. Gli spari in alto delle guardie spagnole attirano quelle marocchine che sequestrano il ragazzo, lo perquisiscono e lo derubano, lo bendano e lo conducono in una caverna, dove lo stuprano ripetutamente per un’ora prendendolo a calci e a pugni, minacciandolo che lo avrebbero spedito in Algeria se avesse parlato con qualcuno della sua disavventura.

Eppure il Marocco è un paese che ha ratificato la Convenzione di Ginevra, la Convenzione Internazionale del Lavoratori migranti, il Patto internazionale sui diritti civili e politici, quello sui Diritti economici, sociali e culturali, la Convenzione Internazionale contro ogni forma di discriminazione razziale, seppure non ha mai firmato il Protocollo sulla prevenzione e la repressione del traffico di persone [14].  D’altra parte, MSF mette in evidenza come la violazione dei diritti umani sussista non solo nel tentativo di attraversamento delle frontiere dal Marocco alla Spagna, ma anche nel respingimento illegale da parte delle autorità spagnole [15]. Entrambi i governi avrebbero violato l’art. 3 della Convenzione contro la tortura, in base al quale "nessun paese firmatario procederà all’espulsione o all’estradizione di un individuo verso un altro Stato nel quale si producano violazioni sistematiche, gravi o massicce dei Diritti Umani".

Una missione tecnica dell’Unione Europea è stata inviata a Ceuta e Melilla, dal 7 all’11 ottobre, formata da funzionari della Direzione Giustizia, Libertà e Sicurezza, dalla Direzione generale per le Relazioni esterne e dall’Agenzia per il controllo delle frontiere esterne. Anche l’UNHCR si è mobilitato, ma l’11 di ottobre non aveva ancora ottenuto il permesso dal governo marocchino di viaggiare fuori della capitale: ha potuto comunque affermare che vi sono prove evidenti di arresti illegali e di respingimento senza la verifica della sussistenza del diritto di asilo. Il rapporto sulla missione europea, diffuso a Bruxelles il 19 ottobre, ha confermato la preoccupante presenza di alcune migliaia di persone oltre i confini algerini e nella zona sud del Marocco, dopo che il premier Zapatero si era affrettato a dare disposizioni al Ministro degli Esteri di intervenire presso il governo marocchino per prestare immediata assistenza ai dispersi nel deserto.

Di fronte a tale evidente violazione dei diritti umani, l’On. Frattini, in una conferenza stampa in occasione del Consiglio Giustizia e Affari Interni del 12 ottobre, ha dichiarato: "è evidente che le morti di immigrati nel deserto sono una tragedia, ma ora non serve a nulla puntare l’indice contro qualcuno" [16], ed ha parlato di una cooperazione molto positiva con la Spagna ed il Marocco.

Dunque, anche alla luce di questi fatti sanguinosi e criminali, è stato accolto l’appello lanciato dal premier spagnolo e da quello francese ad affrontare la questione ad Hampton Court, per rafforzare la cooperazione con i paesi del Mediterraneo, in particolare con il Marocco e l’Algeria, per il controllo delle frontiere. Il come consiste essenzialmente in tre assi portanti: addestramento delle guardie di frontiera; istallazione di dispositivi di sicurezza e di controllo ad alta tecnologia; potenziamento del sistema di scambio delle informazioni. In attesa del summit di Barcellona previsto per il prossimo 27 e 28 Novembre, i morti di Ceuta e Melilla hanno intanto sbloccato un finanziamento al Marocco di 40 milioni di Euro, stanziati dalla Commissione Europea l’anno scorso, proprio per combattere la criminalità alle frontiere e per una maggiore sicurezza dei confini. Si delinea anche la creazione di un fondo speciale per l’emergenza immigrati al fine di assistere gli Stati membri maggiormente esposti (Spagna, Italia, Grecia, Malta, Cipro). 

D’altra parte, è stata annunciata una nuova Conferenza internazionale tra l’Unione ed i paesi africani sul tema dell’immigrazione. Sembra infatti che si stiano  profilando le linee di un nuovo partenariato strategico, che punta ad un rafforzamento delle infrastrutture in quei paesi: trasporti, acqua, energia e telecomunicazioni. Un nuovo piano Marshall, nella prospettiva di una privatizzazione e gestione delle risorse e della loro distribuzione, a fronte di accordi per la riammissione degli immigrati?

Intanto però, l’ONG Africana Raddho [17] ha dovuto constatare la tiepida reazione da parte dei paesi aderenti all’ OUA, a cui il Marocco non aderisce, che non hanno condannato esplicitamente gli omicidi e le deportazioni, pur criticando la risposta di pubblica sicurezza che l’Europa dà alla questione della migrazione africana.

Allora, siamo o no in guerra? Siamo o no, nel guado di un movimento od uso di certi mezzi "che richiamano un rischio concreto di morte immediata propria o altrui"?

La guerra contro i senza nome, i clandestini. Tra chi vuole a tutti i costi mantenere il proprio sistema di potere e di consumo, e chi muore di fame, o rischia di morirci. Una guerra combattuta con armi letali e tecnologie spaziali altamente sofisticate da una parte [18], e massa umana munita di pietre, scale d’assalto e petardi dall’altra. Le bombe degli attentati terroristici sembrano stare ancora da un’altra parte. Una guerra le cui fila sono tenute da trame occulte nelle retroguardie della globalizzazione, a cui tuttavia qualcosa sfugge di mano e impazzisce, nonostante le strategie della sicurezza, dell’ordine pubblico  e della paura.

Ad Hampton Court, il tema dell’immigrazione è riuscito a compattare i paesi dell’Unione attorno alle proposte di Zapatero e di Chirac sulle misure da adottare per combatterla: una polizia europea unificata, per il controllo comune delle frontiere comunitarie, in particolare quelle marittime nel Mediterraneo e nell’Atlantico, con piena operatività dell’Agenzia delle Frontiere; l’ampliamento degli accordi di riammissione tra l’UE e gli Stati vicini e tra questi ed i paesi di origine; il sostegno ai paesi dell’area sub-sahariana per lo sviluppo dell’occupazione ed il controllo dell’emigrazione. Risorse che andranno a finanziare soprattutto misure d’ordine pubblico idonee ad affrontare situazioni di emergenza.

Tale è stato l’impatto dei fatti di Ceuta e Melilla, che i Ministri degli Affari Esteri dei paesi del Sud dell’Unione si sono riconvocati solo pochi giorni dopo, il 4 novembre a Tolosa, sulle modalità del partenariato euro-mediterraneo, per configurarlo sempre più come un sistema di sicurezza. Una conferenza sul tema dell’immigrazione è prevista a Parigi il 9 e il 10 Novembre, tra cinque paesi europei e cinque dell’area mediterranea (Francia, Portogallo, Spagna, Italia, Malta, Mauritania, Marocco, Algeria, Tunisia, Libano).

Il summit di Barcellona che celebrerà il decimo anniversario del partenariato euro-mediterraneo si sta dunque configurando come un’opportunità per il Marocco e per gli altri paesi del Mediterraneo, per ottenere aiuti economici in virtù di questa piega che ha preso la cooperazione Euromed.

Ora, se notiamo l’ossessività con cui viene posta l’esigenza della difesa, nelle misure di controllo e di sicurezza, e come ogni altra proposta di sviluppo appaia solo strumentale a tale esigenza, già qui potremmo interpretare la direzione verso cui stiamo andando.

Uno dei punti più sensibili e tangibili sulla linea di demarcazione tra stato di pace e stato di guerra è proprio il confine, e le dichiarazioni di stato di emergenza suonano come uno squillar di trombe. Seppure ancora dentro i confini di uno Stato di diritto formale, un certo suono acuto e metallico annuncia la sospensione del diritto dei tempi di pace.

Ciò che accade nel bacino del Mare nostrum risuona in questo modo.

Ma c’è dell’altro su cui interrogarsi.

L’Europa non aveva posto come uno dei suoi obiettivi fondamentali la promozione dei Diritti Umani e della democrazia nei paesi terzi? E non aveva stabilito, nella clausola dell’elemento essenziale che il rispetto dei principi democratici e dei diritti fondamentali sono a fondamento delle politiche interne ed esterne dell’Unione [19], clausola che, a partire dal 1992, dovrebbe costituire la base del dialogo con i paesi terzi?  E nel processo di Barcellona, che avrebbe dovuto trasformare il Mediterraneo in uno spazio comune di pace, di stabilità e di prosperità, le parti non si erano forse impegnate ad agire in conformità della Carta delle Nazioni Unite e del rispetto dei Diritti Umani, e contro ogni forma di discriminazione, di razzismo e di xenofobia? E non era forse una raccomandazione della Commissione quella di "assicurare l’inclusione sistematica delle questioni relative ai Diritti umani e della democrazia in tutti gli accordi bilaterali su base istituzionale con i paesi terzi del Mediterraneo [20]? Ed il programma MEDA, strumento di realizzazione del Mediterraneo come zona di libero scambio entro il 2010, non prevedeva forse uno sviluppo sociale sostenibile, ed il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali, come elemento essenziale  del partenariato? E non era forse stabilito che la violazione di tali diritti avrebbe giustificato l’adozione di misure appropriate adottate dal Consiglio e deliberate a maggioranza qualificata, su proposta della Commissione?

Ora, perché tutto questo non è avvenuto e non sta avvenendo? Sono solo parole vuote? Oppure gli immigrati clandestini [21], questa nuova specie di gruppo o di classe umana, sono per qualche ragione al di fuori del diritto? Ma se anche loro, in quanto persone, sono soggetto di diritto, ed i crimini sono stati commessi in area mediterranea e da cittadini che abitano il Mediterraneo, come mai si sblocca un finanziamento verso un paese che ha eseguito deportazioni di massa? Sicuramente mi sfugge qualche particolare importante. Ma certo è che il vero volto di questa realtà è stato occultato sul punto di venire alla luce, nonostante le denunce di alcune organizzazioni umanitarie e l’impossibilità di negarne l’evidenza. 

Perché mentire, o dire mezze verità sbiancate dall’arroganza dell’impunità e dell’arbitrio? Che cosa dobbiamo annientare in noi per vivere in questa rimozione del reale, e dell’orrore dentro e fuori di noi? Cosa c’è al fondo di tanta indifferenza?

Non vi sono i presupposti per restare in pace, per difendere la pace.

L’Europa, tiranneggiata dall’assedio della paura, cela la verità a sé stessa dietro sofisticate tecnologie e misure di sicurezza; l’Europa dei valori e di progetti ambiziosi quanto irraggiungibili, vive in uno stato di pre-allerta, se non vogliamo dire guerra.

È all’ombra della guerra che avvengono i peggiori crimini, come quelli di genocidio, o di pulizia etnica. È storia recente. È storia contemporanea. Ciò che è successo ieri e l’altro ieri in Marocco ed in Libia, o che sta ora succedendo, potrebbe essere perseguibile come un delitto di genocidio e crimine internazionale? Per genocidio si intende un insieme di atti specifici tesi a distruggere un gruppo razziale, etnico, nazionale o religioso. Alcuni degli atti sono stati compiuti, come quello di sottoporre deliberatamente un gruppo a condizioni di vita tese a provocare la sua distruzione fisica. Potrebbe essere oggetto di riflessione giuridica ed antropologica se nella definizione di subsahariani o clandestini sia implicito anche il significato di gruppo etnico. Se così fosse, anche coloro che concorrono a tali atti risulterebbero esserne co-responsabili.

Non vi sono ancora elementi d’indagine tali da poter mostrare la verità nuda e cruda, dobbiamo quindi lasciare ai posteri l’ardua sentenza, a un altro tempo della giustizia, semmai vedrà l’alba.

Non c’è dubbio però che il Premier José Luis Rodríguez Zapatero si sia presentato al vertice di Humpton Court avvolto da un’aura un po’ diversa dal solito. Il personaggio che aveva incarnato fino all’altro ieri, punta di diamante di una Europa progressista, libertaria e pacifista, si è d’incanto sciolto come neve alla luce del sole. Chi s’illude va incontro a delusioni. Il fatto è che spesso facciamo confusione quando si parla di diritti e di libertà.  Non tutto ciò che si dice diritto è diritto, e ci sono diritti e diritti. Ci sono diritti individuali e diritti collettivi, e non tutte le leggi sono dalla stessa parte. E c’è la libertà di  e la libertà da (così mi insegnavano a scuola, ai miei tempi).  La libertà deve esser posta entro i confini della Legge. Ma quale legge? Non può essere una legge valida per tutti, di valenza sovranazionale e supra partes, se produce una proliferazione di diritti individuali che poggiano la loro base culturale ed etica sull’auto-referenza e l’auto-affermazione dell’individuo e delle sue scelte, nella sua piena ed indiscutibile autonomia. La libertà può scivolare verso l’arbitrio, se pretende di rappresentare gli innumerevoli personaggi che popolano il palcoscenico della nostra civiltà contemporanea, e che si fanno la guerra l’uno con l’altro. Una civiltà in cui la più profonda identità dell’Essere dell’uomo è inabissato nella separazione dalle sue Leggi.

Certe libertà e certi diritti sono possibili solo entro i recinti delle fortezze, e sono godibili solo per mezzo di confini che possano garantirne l’esclusione degli altri.

Libertà come status symbol di una democrazia apparente, surrogato dell’etica, ultimi bagliori del crepuscolo di un’epoca illuministica: espedienti, oppio da fine dei tempi.

Libertà individuali che possono essere difese pagando il prezzo dell’isolamento e della separazione,  all’ombra di una cattiva coscienza che trasforma la realtà in tabù. Interessi privati che appaiono pubbliche virtù, in un artificio virtuale che viene scambiato per realtà in carne ed ossa.  Non è una questione morale, ma etica e relazionale. Relazione con gli altri, con gli altri che fanno parte di noi. Separazione od oblio della Legge, delle geometrie e delle armonie, delle intime connessioni che sono alla base della vita nel Cosmo.

Fonte/Rivista Comuni d’Europa, Dic 2005,pag 84 ss


[1] Si  prevede, per tutti i lavoratori residenti da più di cinque anni in Europa legalmente, la possibilità di lavorare in tutti i paesi europei secondo il principio della libera circolazione.

[2] Cfr. www.itlay.indymedia.org, "Direttiva Bolkenstein e paradigma liberista nella Ue"

[3] Cfr. "L’Europe organise la clandestinité", di Nicholas Bell,  in Le Monde diplomatique, Aprile 2003

[4] Fabrizio Gatti, "L’ultimo viaggio dei dannati del Sahara", in L’Espresso, 24 Marzo 2004 

[5] Il Parlamento Europeo ha rilevato, a seguito della sua visita al Centro di permanenza temporanea  di  Lampedusa: condizioni di esistenza precarie, insufficiente trasparenza da parte delle autorità italiane rispetto all’accesso ai documenti che certificano la posizione giuridica delle persone alloggiate nel Centro. La delegazione ha chiesto inoltre alla Commissione Europea di fare un rapporto al parlamento sulla missione effettuata in Libia per la verifica delle condizioni dei migranti nei centri libici.

[6] Interrogazioni della senatrice Tana de Zulueta nell’ottobre ’04, per conoscere i nominativi dei migranti espulsi da Lampedusa, secondo il Ministro Pisanu tutti identificati prima dell’espulsione.

[7] Denuncia di Amnesty International sulla presenza di funzionari del governo libico a Lampedusa e di espulsioni avvenute senza identificazione, e senza essere le dovute informazioni sulle procedure per accedere al diritto di asilo.

[8] Cfr. la Direttiva 2004/83/CE  del 29 Aprile 04,  recante norme minime sull’attribuzione a cittadini di paesi terzi, o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale"

[9] Negli ultimi anni  l’Europa sta procedendo verso una accelerazione delle procedure del diritto di asilo, che ha suscitato perplessità presso l’UNHCR ed ONG.  Oltre alla Convenzione di Ginevra e relativo Protocollo, Cfr. la Risoluzione 1471 (2005) del COE e la Raccomandazione 1727 (2005) , che conclude con l’affermazione:  "la migrazione è legata alle questioni delle politiche di sviluppo e non può essere indirizzata dal punto di vista del controllo e della repressione, ma deve essere inserita in uno sviluppo sostenibile". Per le procedure accelerate in Italia, cfr. la Legge Bossi Fini, e il DPR 16/9/04, n.303: "Regolamento relativo alle procedure per il riconoscimento dello status di rifugiato". 

[10] Cfr. l’interessante articolo di Alain Morice, in "Le Monde Diplomatique", del Marzo 2004, L’Europa sotterra il diritto d’asilo.

[11] Titolo, tra l’altro di un recente film-inchiesta sull’immigrazione, del giornalista e regista Stefano Moncherini, sottoposto di fatto a censura

[12] Ceuta fu conquistata dal Portogallo nel 1415 e ceduta alla Spagna nel 1668; Melilla fu conquistata dalla Spagna nel 1497.  Fecero parte del Marocco Spagnolo, prima del 1956

[13] "Violence and Immigration. Report on illegal Sub-Saharan immigrants (ISSs) in Morocco"

[14] Il Rapporto evidenzia nello specifico le norme nazionali ed internazionali che il Marocco ha violato: oltre a quelle citate, la legge nazionale sugli stranieri immigrati in Marocco, la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, il Protocollo di N.Y. sullo status di rifugiato, la Convenzione Internazionale contro la Tortura,la  Convenzione internazionale per la protezione dei diritti dell’infanzia,   

[15] Nella violazione dello "Spanish Immigration Act",  Art. 157, che definisce le procedure da eseguire nel rimpatrio dei migranti entrati illegalmente: con il foglio di deportazione, il migrante ha diritto ad un legale e ad un interprete, e gli immigrati devono restare in custodia se non possono essere espulsi entro le 72 ore.  La Guardia Civile spagnola infrangerebbe questa legge espellendo i migranti intercettati vicino al confine. Inoltre sussisterebbe, oltre alla violazione dell’Art. 3 della C onvenzione Europea per la protezione dei Diritti Umani, quella dei principi sanciti dalla Convenzione di Ginevra.

[16] Fonte: AGIEuropa, mercoledì 19 ottobre

[17] Rencontre Africane pour la défence des Droits de l’Homme

[18] E’ da ricordare che la guerra all’Iraq coincise con la conquista di Marte da parte degli Stai Uniti

[19] Art. 96 dell’Accordo di Cotonou tra UE e paesi ACP, entrato in vogore nell’Aprile 2003, per il quale si prevede la possibilità di prendere le misure necessarie, anche la sospensione dell’accordo, in caso di violazione da una delle parti degli elementi essenziali dell’accordo, ossia il rispetto dei Diritti Umani, dei principi democratici e dello stato di diritto.

[20] Comunicazione della Commissione al Consiglio ed al parlamento Europeo del 21/5/03: "Imprimere un nuovo impulso alle azioni dell’UE con i partner del mediterraneo nel campo dei Diritti Umani e della democratizzazione. Documento di orientamento strategico. COM (2003) 294

[21] termine usato impropriamente, ad indicare l’immigrato che penetra in territorio straniero in modo  irregolare, ossia senza visto di ingresso. Deriva dal latino clam-des-tinus,  ed etimologicamente significa "ciò che sta nascosto al giorno", ciò che si nasconde o che odia la luce. Rispetto all’uso del termine illegale, forse sarebbe più appropriato parlare di irregolare.   

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