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L’Italia, “meno sociale” tra gli statalisti

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Oscar Giannino

(chicago-blog.it)
Ho appena terminato di studiare una bellissima ricerca realizzata da Mathias Dolls e Andreas Peichl dell’Università di Colonia, e Clemens Fuest dell’Università di Oxford. I politici italiani di entrambi gli schieramenti dovrebbero leggerla. I contribuenti italiani di tutte le fedi politiche, dovrebbero leggerla. I sindacalisti e gli industriali, dovrebbero abbeverarsene. Non capita spesso, infatti, di incappare in uno studio che esamini in maniera comparata tanto efficacemente la funzionalità di così numerosi ordinamenti di welfare, al fine di misurarne gli effetti di "assorbimento" di una crisi economica. Gli autori erano mossi dall’intento di paragonare i due macromodelli a confronto, quello americano e quello europeo. Ma in realtà, poiché le misurazioni sono realizzate non per media europea ma distinguendo ciascuno dei 19 Paesi europei rilevati, le conclusioni più interessanti riguardano proprio il nostro Paese. Perché tra i Paesi ad altissima tassazione e contribuzione, l’Italia si classifica come il più inefficiente sistema di welfare pubblico ai fini del mitigamento degli effetti della crisi.

L’America fa come noi o meglio di noi, ma con una pressione fiscale di oltre il 12% di Pil in meno. Ciò che di solito sinistra, sindacato e anche destra qui in Italia considerano la garanzia di un sistema più efficace nel "non lasciare nessuno solo di fronte alla crisi", rispetto all’America – e cioè più spesa pubblica in nome della quale si giustifica l’enorme percentuale di prelievo pubblico in più – si rivela in realtà a un’attenta disamina per ciò che è: una bu-fa-la assoluta. Gli autori simulano nei diversi Paesi l’effetto di una crisi il cui effetto sia una diminuzione del reddito lordo del 5% su un campione pienamente rappresentativo di famiglie, e di una che determini un aumento della disoccupazione del 5%. Calcolano poi la percentuale di assorbimento degli effetti di tali due distinte crisi  sviluppata dagli "stabilizzatori automatici", che identificano l’efficacia degli apparati pubblici esistenti al netto di politiche discrezionali aggiuntive anticrisi. Tali apparati pubblici cono calcolati come connessi alla somma di imposte e contributi sociali, nonché dall’ammontare degli ammortizzatori sociali forniti dal sistema pubblico ai lavoratori in difficoltà. Tutto ciò per 19 Paesi europei – dell’euroarea o meno – e per gli USA.

Il dato che più interessa rilevare e commentare ai tre autori, è la distanza notevole che separa le due macroaree. Approssimativamente viene assorbita dagli stabilizzatori pubblici automatici europei il 38% dell’effetto di uno shock sul reddito e ben il 48% di uno shock sull’occupazione. Gli USA sono meno protettivi: gli stabilizzatori pubblici assorbono "solo" il 32% degli effetti di uno shock sul reddito, e il 34% di uno shock sull’occupazione. In particolare in questo secondo caso, i disoccupati americani sono assai meno tutelati di quelli europei: c’è una distanza relativa di ben 14 punti tra la media europea fatta di alti assegni di disoccupazione e gli USA. Quanto invece agli effetti sulla stabilizzazione della domanda – ciò che conta in definitiva per davvero ai fini di una ripresa della crescita, da un punto di vista strettamente keynesiano – in realtà UE e USA non differiscono poi di molto: il 23% degli effetti è assorbito dalle tutele e stimoli pubblici in Europa, il 19% in America.

Ma ciò che è più interessante da un punto di vista italiano è la comparazione decomposta Paese per Paese, che trovate nei grafici da pagina 12 in avanti. Se i Paesi europei a maggior efficienza di assorbimento da parte del cuscinetto di tutele pubbliche degli effetti di uno shock sul reddito  sono la Danimarca col 56%, il Belgio col 53% e la Germania col 48%, l’Italia sta esattamente allo stesso 32% degli Stati Uniti (s’intende di quelli preobamiani), meno tutelante del Regno Unito. Quanto all’assorbimento pubblico di uno shock sull’occupazione, rispetto al record di efficienza del sistema danese col suo 71%, svedese col 69%, austriaco col 67%, l’Italia sta molto più in basso, al 35% battendo di un solo miserrimo punto percentuale gli Stati Uniti. Quanto agli effetti pubblici di stabilizzazione della domanda, il nostro sistema italiano fa veramente pena: vale solo il 6%, rispetto al 46% dell’Ungheria, al 26% della Svezia e al 25% della Germania.

Siamo nella parte inesorabilmente più bassa dell’efficienza stabilizzatrice per pesantezza del prelievo fiscale e contributivo, in tutte le categorie di effetti rilevati dalla ricerca. Non siamo solo un Paese fortissimamente statalista. Siamo anche i più fessi tra gli statalisti, perché disposti a sopportare il minor effetto sociale che altrove lo statalismo è si dimostra molto meglio in grado di esercitare.  È con questi numeri alla mano, che bisognerebbe smettere di votare tutti coloro che non tagliano le imposte in Italia, e smettere di credere a sindacati che scambiano il peso dei propri apparati per tutela sociale.

(09/09/2009)

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