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L’Italia non è triste ma è solo schifata

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Eugenio Scalfari

(repubblica.it) La discussione sulla legge elettorale non è molto popolare. Le tv quasi non ne parlano salvo che in qualche salotto televisivo riservato ai pochi appassionati del politichese. I giornali e gli editorialisti si accostano all’argomento con toni sopraccigliosi (con l’eccezione di Giovanni Sartori che è uno specialista in chiarezza sulla materia). Il Paese ha bisogno di ben altro, scrivono, e giù l’elenco dei bisogni insoddisfatti e delle speranze tradite, che sono tanti e anche tanto antichi.

Lo stesso presidente della Repubblica – che pure ha fatto della riforma delle legge elettorale uno dei temi principali della sua predicazione democratica – l’altro giorno ha manifestato il suo malcontento nei confronti del governo per i troppi voti di fiducia ai quali è stato costretto a ricorrere, del resto nel solco aperto dal governo che l’ha preceduto e che peraltro disponeva nelle due Camere di maggioranze numericamente imponenti.

Ma il presidente della Repubblica sa benissimo che il voto di fiducia più volte reiterato al Senato, non è altro che la risposta necessaria all’avvelenamento dei pozzi operato dalla legge-porcata, il "porcellum" proposto dal leghista Calderoli sullo scorcio della passata legislatura e approvato da tutto il centrodestra, Casini in prima fila. I due voti, anzi ormai uno soltanto, di maggioranza al netto dei senatori a vita, non consentono la sopravvivenza del governo senza il ricorso alla fiducia. Perciò è inutile prendersela col termometro, bisogna invece curare la febbre, i sintomi e soprattutto le cause.

È sicuramente vero che il Paese ha bisogno di ben altro, ma è altrettanto vero che una buona legge elettorale costituisce la premessa necessaria e indispensabile affinché quel "ben altro" abbia almeno un inizio. Se c’è bisogno di acqua serve un secchio per trasportarla, ma se il secchio è sfondato bisogna anzitutto ripararlo.

Come si vede, la discussione sulla legge elettorale è tutt’altro che oziosa. Allo stato dei fatti è anzi la questione da risolvere se si vuole che la democrazia italiana possa ancora sopravvivere alla crisi che la sta squassando.

* * *

Una riforma dunque. Ma poi bisogna anche dire quale riforma e perché. Non sono uno specialista, ma la sostanza delle cose è abbastanza semplice da spiegare e da capire.

Non abbiamo in Italia due soli partiti che si contendano il potere di governare. Il Partito democratico di due ne ha fatto uno, ma ne restano ancora troppi, a sinistra come a destra. A sinistra ce ne sono a dir poco sei (senza contare Dini e alcuni "cani sciolti"). A destra quattro (senza contare Storace). Forse ne dimentico qualcuno ma il quadro in sostanza è questo.

Gli elettori sono stufi di questa polverizzazione che accentua il distacco crescente tra l’opinione pubblica e le istituzioni. Sono stufi dei poteri di veto diffusi, delle risse continue, della continua ricerca di visibilità. Un accorpamento è quindi necessario ed è questo l’obiettivo principale della riforma elettorale.

Si può raggiungere in vari modi. Con una legge proporzionale con soglia di sbarramento di almeno il 5 per cento. Chi resta sotto a quella soglia è fuori dal Parlamento. Oppure con il doppio turno e i collegi uninominali. Oppure con una proporzionale con piccole correzioni che premino i partiti di maggiori dimensioni.
Il risultato comune a tutti questi diversi meccanismi è comunque di ridurre i partiti a non più di sei: a destra Berlusconi, Fini, Casini e Bossi; a sinistra il Pd e la sinistra radicale. Più alcune minoranze "linguistiche" come gli altoatesini. Sarebbe già un buon risultato.
Il proporzionale fotograferebbe i consensi ricevuti da ciascuno.

Il proporzionale corretto in senso maggioritario darebbe un premio aggiuntivo ai partiti maggiori: quello di Berlusconi da un lato, quello di Veltroni dall’altro. Rendendo tuttavia necessarie le alleanze dopo il voto poiché nessuno dei due da solo potrà raggiungere il 51 per cento dei seggi parlamentari.
Quali alleanze? Problema difficile da risolvere prima di conoscere dove andranno i voti degli elettori. Se i partiti maggiori supereranno ciascuno il 40 per cento dei voti sarà più facile comporre il "puzzle". Se si attesteranno intorno al 30-35 si rischia l’ingovernabilità.

Ecco la ragione che suggerisce un proporzionale con qualche elemento correttivo in senso maggioritario, visto che bisogna pure che un governo ci sia ed abbia la forza di governare e la capacità necessaria per affrontare pochi ma essenziali temi.

L’interesse del Paese richiede qualche sacrificio alle varie "ditte" partitiche. Gli elettori hanno comunque il potere di concentrare i voti se la governabilità è l’obiettivo per riparare il secchio sfondato. Lo usino, quale che sia il meccanismo della legge. Se non saranno capaci di usarlo non si lamentino poi di ciò che accadrà.

Per un giorno almeno il potere sarà nelle loro mani.

* * *

Quando arriverà quel giorno?
Molti danno per conclusa l’esperienza del governo Prodi. La previsione è che entro gennaio ci sarà la crisi. Provocata da un voto di sfiducia cui basterebbe la diserzione di Dini e gli altri senatori "extra-vagantes".
È possibile che ciò avvenga anche se non è affatto
certo.

Prodi si accinge a varare un pacchetto di iniziative in campo sociale che dovrebbe far aumentare in misura consistente il potere d’acquisto dei lavoratori e dei redditi più bassi. Non sembri strano, ma la copertura finanziaria di queste misure c’è ed è anche abbondante. La spesa pubblica infatti negli ultimi mesi ha rallentato il suo flusso. Il deficit è diminuito dal previsto 2,4 sul Pil niente meno che all’1,5. Nove punti in meno. Basterebbe darne un paio all’ulteriore rafforzamento dei parametri europei attestandoci sul 2,2; resterebbero comunque 7 punti per sostenere i salari e i redditi bassi.

Se il governo affronterà questo tema, reclamato perfino dal governatore della Banca d’Italia e dal presidente della Confindustria oltre che dai sindacati confederali, sarà difficile licenziarlo su due piedi. Tecnicamente può accadere, i cespugli del Senato sono in grado di farlo, ma senza alcuna apprezzabile motivazione di fronte al Paese. Tanto più che la permanenza in carica del governo non impedisce (anzi) il negoziato sulla riforma elettorale. Neppure la pronuncia della Corte costituzionale sul referendum la impedisce. Fino a marzo il Parlamento è in grado di approvare la riforma quale che sia e bloccare il referendum.

Ci sono perciò tutte le condizioni affinché il governo resti in carica e governi.

Un consiglio al presidente Prodi (da uno che è stato tra i pochi a ravvisare più i suoi meriti che i suoi difetti): non si occupi della legge elettorale. È un tema che riguarda il Parlamento e non il governo. Pensi a governare, ce n’è già abbastanza per occupare il suo tempo e quello dei suoi ministri, nessuno escluso a cominciare dai vice-presidenti del Consiglio.

"Lasci il mestiere a chi tocca, Vostra Signoria" disse il padre provinciale dei cappuccini al conte zio che reclamava il trasferimento di fra Cristoforo e suggeriva una sede molto lontana da Milano. Il mestiere in questo caso è dei partiti. I ministri facciano i ministri.

* * *

È chiaro che comunque resta il tema del disagio del Paese e del suo distacco profondo dalle istituzioni. Dalla sfera pubblica. Il suo chiudersi nel privato. Le sue incertezze, le sue paure. La sua indifferenza.
Non è vero che gli italiani siano improvvisamente diventati pigri e tristi. Non è vero che solo piccole minoranze siano ancora animate dalla voglia di intraprendere e di farsi largo nel mondo. Questa è una rappresentazione distorta della realtà, affidata alle rozze domande di rozzi sondaggi.

Gli italiani di provincia e di città hanno voglia di fare e anche di ridere e divertirsi. Di pensare con la propria testa e di non farsi imbonire.

Ce ne sono anche disposti ad essere manipolati, a ricevere passivamente gli slogan, le ideologie, perfino i lazzi dei tanti Dulcamara e dei tanti buffoni di corte che li attorniano. Ma quegli italiani, loro sì, sono minoranza. Tre, quattro, cinque milioni tra manipolati, furbetti, furboni. "Clientes". Non è questa la maggioranza del Paese.

Ma un punto resta fermo: la maggioranza del Paese ha rigetto per gli spettacoli che gli vengono inflitti da chi, maggioranza od opposizione, dovrebbe rappresentarli. Un rigetto crescente, che sta superando i limiti di guardia.

Una magistratura che ricama sgorbi sulle sue toghe aggrappandosi al cavillo della norma senza capacità né voglia di coglierne la sostanza. Magistratura pubblicitaria, così dovrebbe chiamarsi la parte ormai largamente diffusa che insegue la propria visibilità non meno dei Diliberto e dei Mastella.

La vicenda Forleo è il sintomo palese di questa devastazione pubblicitaria che sta sconvolgendo l’Ordine giudiziario e, con esso, il corretto esercizio della giurisdizione. Ho grande rispetto per Franco Cordero, nostro esimio collaboratore, e capisco anche le motivazioni giuridiche che l’hanno indotto a difendere il Gip milanese.

Secondo me quel Gip andrebbe censurato dal Csm non per la procedura che ha seguito ma per l’esibizione di volta in volta vittimistica e sguaiata, con la quale ha invaso teleschermi e giornali. Disdicevole. Aberrante per un magistrato. Falcone, tanto per dire, non ha mai usato quel metodo né lo usarono il magistrato Alessandrini, l’avvocato Giorgio Ambrosoli e tutti coloro che del mondo della giustizia caddero sotto il piombo del terrorismo o della mafia.

Ma la maggioranza degli italiani è anche schifata per la vergognosa commedia che si continua a recitare alla Rai, tra il capo di Mediaset e i suoi servi inseriti in servizio permanente nell’azienda pubblica.

Ha scritto ieri Giovanni Valentini su queste pagine commentando la telefonata tra Berlusconi e Agostino Saccà: "Così la Rai, già greppia e alcova di Stato, viene ridotta al rango d’una filiale di Mediaset, una società controllata, una "dependance" e un "pied a’ terre" del Biscione".

Bisogna averla ascoltata oltre che letta quella telefonata, quelle due voci, la voce del padrone di volta in volta annoiata e imperativa, e quella del servo, omaggiante, inginocchiato, pronto ad anticipare i voleri del padrone cercando di riceverne qualche briciola e qualche osso per andarselo a rosicchiare in cucina. Disdicevole. Anzi stomachevole. Ma i politici, tutti senza quasi eccezione, hanno avuto come reazione quella di accelerare il decreto che bloccherà le intercettazioni e la loro pubblicazione. Sul merito, sui contenuti, hanno sorvolato come se fosse ininfluente che il pubblico li conoscesse. Solo Prodi, voglio dargliene atto, ha frenato lo zelo assai mal riposto del Guardasigilli.

Non parlerò del Tar del Lazio. Le sue pronunce parlano da sole. In una doppietta di sentenze ha stabilito nella prima il principio che l’azionista della Rai, che ha il diritto di nominare un solo membro del consiglio d’amministrazione dell’azienda su nove, non può revocarlo dopo averne messo alla prova per un anno intero l’obiettività o la partigianeria. E, secondo colpo della doppietta, aver stabilito l’altro incredibile principio che il ministro che ha la responsabilità politica della Guardia di Finanza non può revocarne il Comandante quando il rapporto fiduciario sia venuto meno per scorrettezze gravi e fondati elementi di negativo giudizio a carico del Comandante in questione.

Come si deve valutare un Tribunale che è una delle più importanti istituzioni giudiziarie e che sentenzia in modo anti-istituzionale? L’opinione pubblica che riceve questo tipo di esempi dai presidi dello Stato, come può riconoscersi nello Stato?

No, colleghi del "New York Times" il nostro non è un Paese né triste né inerte. Semmai è un Paese indignato che non si sente rappresentato oggi come ieri come l’altro ieri e più indietro ancora, fino ai Viceré di triste memoria. L’hanno fatto diventare un Paese anarcoide e allo stesso tempo pronto a farsi cavalcare dai potenti di turno. Ma ci sono ancora – e sono tanti – che rifiutano questi attributi e si aspettano un cambio di marcia e nuove speranze.
Noi siamo tra questi. (23 dicembre 2007)

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