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Parma anno zero evitiamo lo tsunami della cultura

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Giorgio Gennari (Teatro Due) apre il dibattito dopo gli Stati generali organizzati dall’assessore Sommi al Teatro Regio. Spiega il senso di una frase, mutuata dal film di Rossellini, e lancia la provocazione di sperimentare una legge sugli spettacoli dal vivo che ancora non c’è e che potrebbe essere scritta proprio nella città ducale

(parma.repubblica.it) Gli Stati Generali sulla Cultura a Parma sono stati attraversati da una definizione lanciata dall’assessore Sommi che ha finito per diventarne l’icona: l’ "anno zero". Trovandomi nella scomoda posizione di possessore del suo copyright, lo ha "denunciato" lo stesso assessore, sento il dovere di chiarirne i connotati. Le semplificazioni a slogan sono utili in tempi di ottimismo, possono diventare deleterie in tempi depressivi, e peggio ancora se circolano come una leggenda metropolitana sulla bocca di chi ragiona a schemi. Ancor più se questa sorta di neologismo deriva da "Germania anno zero", il bellissimo e disperato film di Rossellini intorno alle rovine morali e materiali dell’ultimo dopoguerra. Nel nostro caso e, ne sono sicuro, nel caso dell’assessore Sommi che lo ha adottato, non c’è ombra di catastrofe, c’è al contrario un metodo di riflessione, di ricerca per evitare il rischio di tsunami evocato in quella stessa assemblea.

"Anno zero" significa giocare "come se". Come se non ci fosse più niente, come se fossimo nel deserto e volessimo immaginare di fondare una nuova città. E’ il gioco da cui emergono, in mezzo alle idee più strampalate, le idee più giuste, più "innovative". Uso questo termine ormai diventato odioso perché è ormai proprio a tutte le realtà aziendali, specie anglosassoni, che una volta al mese indicono il "giorno delle idee". Invece che lavorare al desk , si riuniscono intorno a un tavolo imbandito a giocare appunto al " come se". Grasse risate, coesione dello staff e la possibilità di un’idea che, sviluppata, potrebbe portare un sacco di soldi.

Se si fa nelle felpate sale dei consigli di amministrazione di mezzo mondo, siamo autorizzati anche noi eredi delle seriose discussioni di cultura post-idealistica. Il sano pragmatismo può essere molto divertente. Un’idea strampalata, ad esempio, la buttai lì anni fa, ai tempi di un Parma in serie A con decine di migliaia di spettatori, nella terza pagina della Gazzetta. Confesso, sotto pseudonimo.

Si trattava, in breve, della "modesta proposta" che alla fine di ogni partita al Tardini si dovesse coinvolgere quegli spettatori, pieni di adrenalina ludica, nel gioco "live" di poeti declamanti alla Yevtushenko, attori shakespiriani alla Gasmann, orchestre sinfoniche che davan musica ai mitici film muti di massa genere Cabiria o Napoleon. Una forma di "teatro totale" che desse continuità ai virtuosismi di Zola e compagni nelle forme di un nuovo spettacolo popolare.

Non mi seguì nessuno, in questa seriosa città crociana. Sono sicuro che, fatta in Germania o in Gran Bretagna ad esempio, qualcuno avrebbe colto la provocazione. Per fortuna, anni dopo, mi sono sfogato al Colosseo di Roma. Ma questa è un’altra storia. Però quell’esempio post-marinettiano mi porta a riflettere su un "come se": e se riprogettassimo i modi di produzione? Qualcuno, al Ridotto, ha evocato le fabbriche. Bene, nello spettacolo dal vivo, noi produciamo ancora come in tempi pre-industriali. Non mi si fraintenda, non parlo di catene di montaggio o di robotizzazione piuttosto che di nuove tecnologie, parlo di separazione di generi, di modi di produzione ereditati dalle compagnie viaggianti, di organizzazione del lavoro di tipo bracciantile oppure di previlegi concessi da un Re Sole.

Tutto questo non è ascrivibile a colpe specifiche della Città, al contrario la Città di Parma ha còlto e coltivato un sistema che, pur nelle contraddizioni, può considerarsi virtuoso se confrontato alle Cento città d’Italia, Capitale compresa. Le colpe sono di uno Stato che da decenni non ha saputo, non dico proporre, ma nemmeno raccogliere fino in fondo i suggerimenti virtuosi che gli sono venuti dal basso. Da Parma per prima quando ha deciso, in controtendenza clamorosa con tutta la provincia italiana, di abbandonare il ruolo di consumatrice per prendersi quello di produttrice di cultura e ha saputo esportarne l’intuizione in molta parte d’Italia.

Erano gli anni ’80, e oggi sarebbe il momento giusto di riproporre lo schema di una Legge sullo Spettacolo dal Vivo che non c’è. Facciamo "come se" ci fossero regole che ancora non esistono altrove. Questa è innovazione ed è offrire un modello, ed è l’unica strada che ci concede la politica culturale di uno Stato che ha sempre e solo saputo, a posteriori, ridisegnare la mappa del nuovo in sua assenza e suo malgrado. Offriamoci come un laboratorio per una legge che forse non ci sarà mai (la mia generazione l’aspetta da cinquant’anni) ma che potrà essere riconosciuto come un modello. Anticipiamo i tempi, altri seguiranno.

Si dà il caso che, a Parma, esistano e operino tutte le diverse tipologie di produzione dello spettacolo dal vivo: teatro di prosa e musicale, danza, concertistica, festival e , in molte forme, anche la formazione. Sono i settori che un’eventuale riforma promossa dallo Stato dovrebbe normare e che soffrono, prima che della attuale crisi finanziaria, dell’assenza di regole, moderne ed "europee" che diano reale possibilità di programmazione e sviluppo invece che la semplice e precaria sopravvivenza. E questo, vedi caso, riguarda anche la "produzione" all’interno dei Beni Culturali.

Siamo sicuri che la Fondazione Teatro Regio debba diventare un’Ente Lirico con le attuali regole o che invece non sia meglio che prefiguri un modello che, volenti o nolenti, dovrà sostituire quello attuale, ormai nei fatti sterile e bloccato? Siamo sicuri che un Teatro Stabile non possa superare – nascosto dietro le vecchie definizioni pubblico/privato – l’eterna lotta per essere davvero "stabile" con tutte le conseguenze del caso? E anche che le vecchie categorie di"avanguardia-ricerca-tradizione" faccia parte di una storia stanca e soprattutto molto ambigua? Siamo sicuri che la rigida separazione dei generi – prosa, teatro musicale etc – invece che un valore non debba essere considerata invece quel che veramente è, cioè una disgrazia?

Proviamo a pensare, a simulare, secondo queste domande, come cambierebbero i modi di produzione, anche nell’immediato. Potrebbe infatti attrarre intelligenze esterne ad operare qui, invece di reiterare all’infinito l’esercizio della vetrina estemporanea. Un conto è avere un Nobel che opera qui, un’altra cosa una pur bella e interessante sua affollata conferenza e chi si è visto si è visto.

E i giovani? Invece di cacciarli di fatto nei ghetti autoreferenziali della precaria piccola compagnia, nel magma della proliferazione di piccole sigle a caccia di riconoscimento, non potrebbero essere inclusi da strutture produttive sane e vitali assicurando così una giusta selezione di qualità? Finisco con un’a ltra idea strampalata: e se, contestualmente, buttassimo giù un testo di Legge sullo Spettacolo dal Vivo di iniziativa popolare da proporre al Parlamento? Cinquantamila firme. A dispetto delle apparenze, strampalati ne esistono ancora. (17 aprile 2009)

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