Evergrande e non solo: perché la crisi immobiliare mette così a rischio la Cina
Federico Rampini
Evergrande ha chiesto di ristrutturare 19 miliardi di dollari di debiti con investitori internazionali: e questo ha fatto «esplodere» la crisi immobiliare che si trascina da anni in Cina. Finora Xi Jinping è riuscito a controllarla: ma la crescita cinese continua a rallentare, e le conseguenze finanziarie e sociali restano da vedere
La richiesta del colosso immobiliare Evergrande di «ristrutturare» 19 miliardi di dollari di debiti con investitori internazionali fa rimbalzare la crisi cinese davanti a un tribunale americano.
È una crisi al rallentatore, in atto da anni: cominciò molto prima della pandemia e coinvolge diversi gruppi, Evergrande è solo il più grosso e il più visibile.
Finora Xi Jinping è riuscito a controllarla, evitando che sfugga di mano al regime e produca conseguenze sociali destabilizzanti. Tant’è che su questa crisi esiste una narrazione propagandistica, secondo cui il governo di Pechino usando le leve del dirigismo e del capitalismo di Stato ha gestito meglio il suo bubbone immobiliare, rispetto a quanto fecero gli Stati Uniti nel 2008 con la crisi dei mutui subprime. Però la crescita cinese continua a rallentare e il nodo dell’edilizia è al centro di questa frenata.
Perché il settore immobiliare è così pericoloso per la Cina?
Rispetto all’Occidente il settore immobiliare cinese ha tre caratteristiche che bisogna tener presente per capire la portata del problema.
Il primo è il peso sproporzionato del mattone come deposito di risparmi del ceto medio: secondo alcune stime fino al 70% dei risparmi delle famiglie sono investiti in case. Questo spiega il legame immediato e diretto che lega la depressioni dei prezzi immobiliari e la stagnazione dei consumi: se le loro case valgono meno, i consumatori si sentono più poveri e stringono la cinghia. È uno dei motivi per cui la ripresa post-Covid è deludente.
L’immobiliare in senso lato include poi tutte le grandi opere edilizie che hanno fatto da motore della crescita cinese, con costruzioni di città nuove e delle loro infrastrutture, ben oltre le necessità demografiche del paese che ormai ha imboccato la via della denatalità e ha una disoccupazione giovanile al 21%, sicché molti giovani non possono certo metter su casa. Questo ha generato delle «cattedrali nel deserto», in parte inabitate e invendibili. Ma quando il motore dell’edilizia funzionava, considerando il settore delle costruzioni in senso stretto e in senso lato con tutto l’indotto (dal cemento a monte, fino agli elettrodomestici e mobili a valle) si stima che fino al 30% del Pil cinese fosse legato a queste attività. Questa è la seconda ragione per cui la crisi del mattone esercita un freno sostanziale alla crescita.
Infine c’è una terza peculiarità della Repubblica Popolare, che non ha analogie in Occidente. Gli enti locali traggono buona parte delle loro risorse finanziarie dalla vendita di terreni e licenze edilizie. L’implosione del settore priva città e provincie di mezzi per finanziare tutto, ivi compresi i servizi sociali. Quindi si porrà anche un problema di consenso, se l’austerity colpisce le municipalità.
Il versante finanziario della crisi immobiliare
La questione del consenso ha già preoccupato il regime cinese per un altro verso. Milioni di famiglie avevano versato anticipi su case che non sono state neppure costruite, perché i gruppi immobiliari falliti o sull’orlo della bancarotta hanno interrotto i cantieri. Le famiglie in questione, oltre a essere comprensibilmente furibonde, si sono rivalse cessando i pagamenti sui ratei dei loro mutui bancari. Ogni crisi del mattone – il 2008 americano insegna – ha sempre un versante creditizio, dato l’elevato inedbitamento dei gruppi immobiliari. Questo chiude il cerchio di tutte le ragioni per cui Xi Jinping è preoccupato dal caso Evergrande e ciò che nasconde. 18 agosto 2023
Fonte: corriere.it