L’annuncio di Cristo non e’ monopolio di ‘professionisti’!
Isaia 6, 1-2a.3-8;
Salmo 137;
1Corinzi 15, 1-11;
Luca 5, 1-11.
Il tema della vocazione, della chiamata e quindi della missione di annunciare il Vangelo di Cristo a tutti, è presente nelle letture di oggi.
Siamo in un mondo che è preda di una devastante crisi morale. I giovani, ma anche gli adulti, sono aggrediti dalla nebbia del nichilismo. Parole come bene, verità, giustizia, amore, fedeltà, appaiono a un numero crescente di persone solo ingenue illusioni. La missione morale e spirituale della Chiesa è quindi più urgente che mai.
Ma oggi la nostra Chiesa deve cominciare a evangelizzare prima di tutto se stessa, iniziando dai suoi vertici, dalle guide. E’ quanto ha detto il Papa mercoledì scorso, durante l’udienza pubblica, quando si è chiesto: "Non è forse una tentazione quella della carriera, del potere, una tentazione da cui non sono immuni neppure coloro che hanno un ruolo di animazione e di governo nella Chiesa?".
Ed ha aggiunto: "Non cerchiamo potere, prestigio, stima per noi stessi…Molti di coloro ai quali è stata conferita una responsabilità lavorano per se stessi e non per la comunità". Durissime parole su cui bisogna riflettere. La Chiesa o sta con i poveri e si allontana totalmente dai potenti, o tradisce il messaggio di Cristo e perde la sua credibilità e vanifica la sua vocazione.
Tre vocazioni ci presenta oggi la Parola di Dio: di Isaia, di Paolo, di Pietro; essi ci rappresentano, sono ciascuno di noi.
La prima lettura comprende una teofania (solenne e cosmica apparizione di Dio) e un racconto di purificazione. Il profeta, chiamato da Dio per una missione, ha paura: è la nostra paura, di noi, abilitati dal battesimo ad evangelizzare. Il profeta grida: "Un uomo dalle labbra impure io sono". L’espressione "labbra impure" è una figura retorica ( sineddoche), dove una parte del corpo esprime il tutto, cioè la persona. Isaia è totalmente impuro e inadeguato per la missione, come noi. Questo è il senso del limite, non quello creaturale, proprio di ogni essere finito, ma quello morale: siamo tutti attraversati e stigmatizzati dal peccato, dall’egoismo e dal ripiegamento su noi stessi e sui nostri problemi.
Anche Paolo, nella seconda lettura, prova questo sentimento di impotenza quando esclama: Cristo risorto, dopo essere apparso a tutti gli Apostoli e a più di cinquecento fratelli "apparve anche a me come ad un aborto".
Un altro, chiamato da Dio, indegno e pauroso, è presente nel vangelo: Pietro. Dalla sua barca, come da una cattedra improvvisata, Gesù insegna. Il maestro non insegna più nelle sinagoghe, ma proclama la Parola di Dio dalla barca di Pietro, tradizionale figura della Chiesa, quando annuncia, senza tradirlo, il messaggio di Cristo.
Pietro, anche come pescatore di professione, sembra un fallito: "Abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla"; l’espressione esprime delusione non solo per l’insuccesso contingente, ma dà voce a un bilancio non sempre brillante dell’esistenza di Pietro.
Quando si parla di missione o di evangelizzazione, alcuni pensano ancora solo ai preti, ai consacrati (frati, suore, monaci, missionari). Per ignoranza, per paura di compromettersi, per voglia di delegare? Sono tutti alibi, solo alibi, da stroncare!
Occorre superare l’ancestrale sindrome clericale che confinava l’opera evangelizzatrice esclusivamente a una parte della gerarchia ecclesiastica. L’apostolato non è monopolio di "professionisti", ma competenza di quanti hanno ricevuto la consacrazione battesimale. Gesù dice a tutti noi: Prendete il largo e calate le reti per la pesca, cioè, andate nel mondo intero e annunciate la buona notizia della salvezza liberante di Dio a tutti gli uomini e a tutte le donne, cominciando dagli ultimi, che sono i malati, i più deboli, i più fragili della società.
Oggi è la giornata per la Vita, perché sia dignitosa, umana, non parvenza di vita, non vegetale e una vita non aggredita dalla povertà e dalla precarietà, come ci ricordano i Vescovi nel loro messaggio:
"Proprio perché conosciamo Cristo, la Vita vera, sappiamo riconoscere il valore della vita umana e quale minaccia sia insita in una crescente povertà di mezzi e risorse. Il benessere economico non è un fine ma un mezzo, il cui valore è determinato dall’uso che se ne fa: è a servizio della vita, ma non è la vita. Quando, anzi, pretende di sostituirsi alla vita e di diventarne la motivazione, si snatura e si perverte. Anche per questo Gesù ha proclamato beati i poveri e ci ha messo in guardia dal pericolo delle ricchezze. Alla sua sequela e testimoniando la libertà del Vangelo, tutti siamo chiamati a uno stile di vita sobrio, che non confonde la ricchezza economica con la ricchezza di vita".
Una vita vera è anche quella che si realizza là dove si toglie, con leggi giuste e radicali, a chi ha troppo, a chi ha molto, e si dà a chi ha poco o a chi ha niente.
Ce lo ricorda il grande poeta dell’India, Tagore:
"Il mondo è un piccolo villaggio e in questo piccolo villaggio o ci sono pane e pace per tutti o non ci sono per nessuno".
Luciano Scaccaglia,
teologo e parroco.