Parrocchiani dal vescovo Trasferito don Luciano?
Il prete più scomodo di Parma secondo i fedeli rischia di essere spedito altrove dopo 22 anni in Santa Cristina
(polisquotidiano.it) Il tam tam più che tra i fedeli corre come un lampo tra i fedelissimi. Temono che don Luciano Scaccaglia, il prete "contro", il prete che nelle sue omelie concilia parole come omosessuale e cristiano (sano, sanissimo), il prete che nel gennaio del 2005 trasformò la sua chiesa in un rifugio per 21 extracomunitari in fuga dal freddo, debba lasciare dopo 22 anni la centralissima parrocchia di Santa Cristina, in via Repubblica. Qualcuno ha già telefonato al sacerdote per avere maggiori informazioni, tutti offrono la loro versione dei fatti: don Luciano è stato richiamato dal vescovo Enrico Solmi, don Luciano è diventato un caso scomodo per la curia romana, don Luciano metterà in naftalina l’abito talare. Preoccupazioni in ordine sparso, ma anche prova inequivocabile di un attaccamento sincero a questo prete scomodo. Non ci si preoccupa per chi non si stima. E lui? Non polemizza, non si difende. Tace. «Non c’è niente ancora di accertato», dice, assicurando solo che «io sono un prete e resterò per sempre un prete». Con o senza valigie in mano.
Intanto, una mini delegazione di parrocchiani nel tardo pomeriggio di ieri pare non sia rimasta con le mani in mano e si sarebbe recata in Curia dal vescovo Solmi, con l’obiettivo di fare chiarezza e, nel caso ce ne sia davvero bisogno, difendere la permanenza del prete a Parma. Il vescovo Solmi, dal canto suo, alla vigilia dell’incontro, allontana da sé l’immagine del censore, del castigatore del prete andato troppo oltre il limite della tollerabilità. «Non so che dire, se non che non c’è un "caso" don Luciano. Non farò pagare niente a nessuno», argomenta pacatamente il monsignore, ricordando che «noi tutti, i sacerdoti e io stesso, che prima di essere vescovo sono stato prete, siamo a servizio della diocesi e della gente, in un rapporto sereno con la comunità e con il magistero della Chiesa. Come in una famiglia se c’è un problema se ne parla serenamente, senza clamori». A ben guardare con le frasi celebri di don Luciano e le sue prese di posizione controcorrente ci si potrebbe fare un libro. Anzi, l’hanno già scritto: è stato Candido Cannavò (ex direttore della Gazzetta dello Sport), con il suo "Pretacci". Vista col senno di poi, ha dell’incredibile la permanenza sotto lo stesso tetto curiale del mite e misurato vescovo Cesare Bonicelli e del suo battagliero Luciano, che senza pudori nel 2007 si definiva il «Che Guevara di Parma». Dal 1986, quando diventò parroco della centralissima e conservatrice Santa Cristina, da buon rivoluzionario ha dato del filo da torcere alla gerarchia ecclesiastica come ai politici di Parma e alla sua gente. Prete "rosso" come lo chiamano i detrattori, animalista convinto – ha ammesso alla funzione domenicale cani e gatti, strigliando le signore a messa in pelliccia -, nella città del capitale a misura d’uomo, due mesi dopo il crac della Parmalat, don Luciano chiedeva che la Chiesa locale restituisse i soldi ricevuti dalla famiglia Tanzi per il restauro del Duomo. Pauperista, forse. Marxista, soprattutto. Don Luciano segue la cosiddetta teologia della Liberazione, riflessione che ispirò molti sacerdoti negli anni ’70 – chi si ricorda i preti operai? – e che coniuga il credo cristiano al marxismo. L’uno e l’altro, per farla breve, forse troppo, lottano contro la povertà, le disuguaglianze, l’iniquità sociale. Don Luciano sferza la città con i suoi famosi cartelloni esposti davanti al sagrato di santa Cristina, che nel 2007 gli sono costati un pugno da parte di un cittadino irritato. Non di meno un consigliere comunale di Forza Italia lo definì uno spargitore di odio, ma l’unica cosa che odia il diretto interessato è la ricchezza (iniqua). Ci ha scritto pure il suo 21° libro, con tanto di prefazione di Fausto Bertinotti, all’epoca non ancora extraparlamentare ma presidente della Camera dei Deputati. «Invece di dire che il vicario di Cristo è il papa di Roma, i padri della Chiesa dicano che i vicari di Cristo sono i poveri», ci disse, aggiungendo che «la Chiesa è mia madre ma ciò non toglie che non si possano vedere anche le sue rughe». Rughe che per il prete ribelle – scusateci la banalità – sono ad esempio il ritorno della Chiesa alla messa in latino, voluto da quel papa Ratzinger accolto così nell’aprile del 2005: «Desideravo l’elezione di un sudamericano, ma se lo Spirito Santo ha voluto lui, oggi spero ancora nello Spirito Santo perchè riesca nel miracolo di una conversione di Ratzinger, su molti punti».