Una parabola di Gesù per gli atei
Ezechiele 34, 11-12. 15-17;
Salmo 22;
1Corinzi 15,20-26.28;
Matteo 25,31-46.
Festa di Cristo Re: è una festa liturgica che non sento, che non mi coinvolge e allora dico: Festa del Crocifisso, e di tutti i crocifissi veri, presenti anche a Parma, tra l’indifferenza delle istituzioni e delle persone.
Ieri mattina apro la chiesa di S. Cristina alle 8; i primi "fedeli" sono due giovani intirizziti dal freddo che mi chiedono coperte e di dormire in chiesa. Siamo molto esperti nel costruire croci per il nostro Re, Gesù di Nazareth e i suoi prediletti!
Tant’è che sulla Gazzetta di Parma un lettore scrive:
"Signor direttore,
ieri sera, con un gruppo di amici, ho visitato la piacevole mostra sul Correggio. All’uscita alle ore 21 circa, per scendere dalle scale della Galleria Nazionale in Pilotta abbiamo dovuto far spostare un folto gruppo di persone che vi bivaccavano apprestandosi a passarvi la notte. Ai lati erano cumuli di cartoni, coperte, valige… Ecco cosa mostriamo ai turisti in visita: una baraccopoli abusiva in pieno centro assolutamente tollerata come fosse cosa normale".
Questo è il problema per molti cittadini di Parma e per i mass-media! Non "oscurare" il Correggio; non importa se si oscura e si dimentica la solidarietà!
Questa mentalità è umiliata, svergognata dalle Letture di oggi.
La prima lettura descrive la vera "regalità", secondo la Bibbia.
I re, in antico, erano chiamati anche "pastori", i "pastori delle nazioni" (così li presenta Omero). Loro compito era quello di tenere unito il popolo e, soprattutto, difendere i più deboli, le categorie "a rischio" come si dice oggi, quali i poveri, gli orfani, le vedove, gli stranieri. Ma i re di Israele non si comportano così e Dio – Adonai prende il loro posto: Lui è il re-pastore perfetto: non sfrutta, non sta con i più forti, non approfitta della sua autorità: "Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo ed io le farò riposare… andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita".
Il brano di Matteo, sempre sconvolgente è stato proclamato poco tempo fa: l’1 di novembre.
Il diavolo e l’immaginario del supplizio e del fuoco eterno appartengono al linguaggio delle apocalissi giudaiche. Sarebbe un tragico equivoco pensare che qui venga descritta la sorte finale dei singoli. Essa è nelle mani di Dio e non possiamo che lasciarla a Lui.
Il vangelo non vuole affatto spaventarci. Questo "linguaggio del terrore" ha ben altra funzione: intende sollecitarci alle nostre responsabilità e indicarci le esigenze radicali e concrete che la proposta di Gesù mette in luce.
Usare questa pagina evangelica per confermare i credenti nella paura di un Dio giudice e di un inferno aperto è davvero deviante.
Come è deviante spostare il giudizio di Dio alla fine del mondo.
Dal momento della venduta di Gesù nel mondo il regno di Dio è presente tra noi, anche se non si è ancora manifestato in tutta la sua pienezza. Così anche il giudizio di Cristo si sta già realizzando durante la nostra vita. Il giudizio finale consisterà solo nel rendere pubblica la sentenza che giorno dopo giorno andiamo pronunciando noi stessi con la nostra vita d’amore o di egoismo.
Un’altra nota: spesso si è tagliato il mondo in due, come fosse un pezzo di formaggio: da una parte i buoni e dall’altra i cattivi!
Sappiamo bene che la realtà è più complessa, più intrecciata. Il buono e il cattivo vivono in ognuno di noi, abitano "lo stesso condominio"!
C’è poi un messaggio che piace poco ai fanatici delle religioni, ai bigotti, ai teodem e ai teocom della politica. Questa parabola, infatti, si differenzia da tutte le altre di Gesù, indirizzate ai discepoli, ai cristiani, alle comunità della Chiesa.
Qui si parla di tutti e di tutte le nazioni.
Il metro di questa separazione non è costituito da questioni morali o teologiche: la salvezza dipende dall’aver o meno servito i fratelli e le sorelle, dalle relazioni di comunione con quanti abbiamo incontrato sul nostro cammino.
Per questo la parabola è detta "la parabola degli atei" (G. Ruiz, teologo).
Contro la presunzione diffusa nei credenti, è sempre salutare ricordare che spesso la solidarietà è vissuta molto più concretamente da persone che non hanno costantemente in bocca il Vangelo. La "Chiesa dei documenti" spesso nasconde il vuoto d’amore.
E ancora: nella parabola sono elencati 6 modi di amare il prossimo; sono le famose opere di misericordia; ma non si tratta di un elenco esaustivo e tanto meno esclusivo. Contro questo governo affermo un’altra opera: "non denunciare, da parte dei medici, i clandestini malati". Anzi, nessun clandestino va denunciato, ma aiutato a entrare nella legalità.
Un interrogativo finale: chi è il nostro prossimo? Non solo i familiari e gli amici, come alcuni credono e perciò si illudono. Ma coloro che incontriamo e coloro che andiamo a cercare per aiutarli.
Il prossimo è lo schermo della nostra vita, il video dove leggere la nostra condotta, lo specchio per ricomporre la nostra persona perché "chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede" (1Gv 4,20). La sensibilità e la solidarietà effettive davanti al dolore altrui sono, quindi, la misura esatta del nostro cristianesimo.
Don Luciano Scaccaglia
Teologo – Parroco di Santa Cristina (PR)