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VOCAZIONI A TEMPO PIENO E NON BRICIOLE DI VOLONTARIATO

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Atti 13, 14.43-52;
Salmo 99;
Apocalisse 7, 9.14b-17;
Giovanni 10, 27-30.

Una grande festa civile, della Liberazione, coincide con una importante festa cristiana: la quarta domenica di Pasqua.

Felice coincidenza, perché la fede autentica, biblica, è anche liberazione politica da ogni dittatura, dal nazifascismo, da poteri oppressivi e da mentalità ed iniziative razziste e discriminanti, penalizzanti il Sud dell’Italia, presenti anche in movimenti e partiti, nonché in tanti cittadini.

Il 25 aprile, festa della Resistenza, non è quindi la festa di tutti, come spesso si afferma. E’ la festa di chi vuol coniugare libertà, giustizia e solidarietà a favore di tutti, cittadini indigeni e cittadini provenienti da altri paesi.

Seguendo la Prima Lettura siamo chiamati a rigettare ogni nazionalismo, l’idolo della razza, l’idolo di una religione fanatica, intollerante, esclusivista che pensa di avere il monopolio della verità e della morale.

Paolo e Barnaba,  capi storici del movimento voluto da Gesù di Nazaret, rifiutati da alcuni Giudei, portano il messaggio cristiano ai pagani, agli stranieri.

Infatti: "Tu Signore, non sei legato

a nessuna città e a nessun nome:

la tua realtà è misteriosa e inesauribile

e il tuoi regno è sempre mobile,

esso può passar anche ora in altre mani:

così noi possiamo presumere

di essere cristiani e non lo siamo,

presumere di possedere il regno

ed avere invece le mani vuote;

Signore, che non avvenga anche per noi

quanto è accaduto per il primo Israele".

La seconda lettura apre alla universalità e dipinge molte nostre assemblee liturgiche.

Vi si legge infatti:

"Apparve una moltitudine immensa…di ogni nazione, popolo, lingua".

E’ il popolo della Pentecoste che incontriamo nelle strade del Sud e del Nord, che nessuno, nessun gruppo o movimento politico potrà fermare: è il popolo di Dio, e non rappresenta una minaccia, come tanti vanno dicendo. L’unica vera minaccia, l’unica vera mina vagante, nascosta e insidiosa è il nostro egoismo, personale e corporativo. Il popolo dell’Apocalisse stringe in mano delle palme, simbolo di un futuro di vittoria e di festa, ed è rivestito di una veste bianca, candida; nella Bibbia il bianco è simbolo, non tanto della purezza, ma della divinità: ogni individuo oppresso, ogni popolo oppresso ha la dignità di Dio.

L’Agnello dell’Apocalisse diventa il Pastore del brano evangelico; pastore è  tipico attributo di Dio, come recita il Salmo 23[22]: "Il Signore è il mio pastore" (v.1).

Ci conosce personalmente, non come numeri, non ha bisogno di fare un appello anagrafico. Come dicono i profeti, il suo amore per noi è più forte di quello di un padre per il suo bambino (Os 11, 8ss; Ger 31, 20), più tenero dell’affetto di una madre per il frutto delle sue viscere (Is 4, 95), più inebriante della passione dell’uomo per la donna del suo cuore (Is 54, 4-8).

Per noi moderni l’allegoria del "Buon Pastore"è quasi incomprensibile. Per gli antichi, compresi gli Ebrei, le cose andavano diversamente, fino al punto che gli stessi re erano chiamati"pastori di popoli".

Senza pastore una pecora è persa. Preda dei lupi, in cerca di acqua e di pascoli introvabili, oggetto di mire interessate da parte di gente affamata.

Nulla ha per difendersi la pecora. Possiamo dirlo: la vita della pecora dipende dal pastore. Che Gesù, il falegname di Nazaret, si definisca il "Pastore buono", (in greco bello), non è una cosa da poco.

E’ gioia, è spinta a stare sempre sulla strada, in mezzo alla gente, in mezzo ai più deboli.

Questa è la nostra vocazione, la vocazione di tutti.

Oggi si celebra la giornata di preghiera per le vocazioni, presentata con uno slogan molto simpatico: "Ho una bella notizia! Io l’ho incontrato…. Chi? Gesù il Buon Pastore!"

Egli ci fa dono della vocazione, della sua chiamata ad amare sempre e tutti, come lui.

Parlo di vocazioni a tempo pieno e non di briciole di volontariato o di sporadiche impennate rivoluzionarie; non parlo di impennate episodiche e stagionali, mentre mi lascio cullare tra le braccia del neo-capitalismo imperante.

Parlo di vocazione che sfocia nella vita presbiterale, nella vita religiosa, missionaria, nel matrimonio e non solo: infatti ogni esistenza, ogni unione deve avere il timbro della vocazione, cioè dell’amore e del dono verso tutti e sempre.

"Signore, anch’io sono chiamato da te per nome, e faccio parte del tuo gregge! Ma ho la maledetta abitudine di stazionare sempre in coda la gruppo; devo passare davanti, devo tirare, devo essere sempre e ovunque, a qualsiasi età, un ‘sovversivo’ non per moda, né per posa, non perché seguo un certo branco, ma perché so che il tuo Vangelo non è omologabile alla mentalità corrente!".

Nel ricordo del 25 aprile vi faccio dono della provocazione di Primo Levi:

"Tutti coloro che dimenticano il loro passato sono condannati a riviverlo".

Don Luciano Scaccaglia,
teologo e parroco

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