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Riflessioni sul Vangelo di don Umberto Cocconi: Chi ha visto me, ha visto il Padre.

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Chi ha visto me ha visto il Padre

Umberto Cocconi

Disse Filippo a Gesù: «Signore, mostraci il Padre e ci basta». Gli rispose Gesù: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre. Come puoi tu dire: “Mostraci il Padre”? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me stesso; ma il Padre, che rimane in me, compie le sue opere. Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me» (Vangelo di Giovanni).

Se mi guardassi allo specchio, in questo oggi della mia vita, che cosa vedrei? Chi vede me che cosa vede? Che personalità ho? “Persona” in latino significa letteralmente “maschera d’attore”, e porta con sé un triplice senso. Un primo sta ad indicare quell’immagine, quel ruolo che, nel corso della vita di ogni giorno, ogni persona si trova ad interpretare, ad essere. Un secondo indica invece quella fittizia immagine di sé che, per diversi intenti, una persona può volontariamente scegliere di dare di sé. Mentre un terzo senso sta ad indicare l’etichetta, il giudizio con il quale “veniamo vestiti” da chi abbiamo di fronte. Alcune maschere le portiamo di nostra iniziativa, altre ci vengono accollate. Partendo dal primo, possiamo constatare come questo “vivere terreno”, sia per certi versi il trovarsi ad essere un attore sul palcoscenico dell’esistenza. Con il proprio figlio si è madri o padri, al lavoro si è dipendenti o manager, e via dicendo… In base al contesto, assumiamo maschere differenti, certo pur sempre legate da una struttura di fondo che distingue la nostra personalità strutturata, ma pur sempre ci troviamo ad essere attori di una storia. In questo senso “attore” non assume il significato di “finto”, di “ diverso dal reale”, ma mostra come l’essere umano rappresenti quel volto capace di formarsi solo attraverso delle maschere. L’uomo nasce come attore privo di copione, è nella storia, ed in qualche modo ad essa deve rispondere. Si nasce seme, non fiore! Il secondo si scompone, a sua volta, in due diverse sfumature: succede, ad esempio, che a volte si è costretti a recitare e ad indossare maschere per farsi accettare dal gruppo di riferimento. Secondo Pirandello, l’individuo è quasi costretto a dover indossare diverse maschere nella vita di tutti i giorni, soprattutto perché la società esige, per essere accettati, l’omologarsi a determinati modi di vivere. Può anche succedere che si possano indossare maschere fittizie al fine di raggiungere scopi quantomeno poco nobili. Pensiamo come questo risulti lampante grazie all’avvento dei social network. L’individuo, in tal modo, cerca di evadere dalla forma impostagli dalla società, ottenendo asilo in un’identità fittizia, che gli permette di scostarsi dalle pressioni esterne. Il prototipo di individuo moderno suole cercare una scappatoia in quel mondo virtuale, che presenta i caratteri di un Eden in cui ha la facoltà di costruirsi, reinventarsi, attribuirsi pregi o difetti che invero non gli appartengono, senza doverne dar conto o giustificazione. La differenza è sottile, ma molto significativa. Da un lato la “maschera fittizia” viene utilizzata dall’uomo fragile o ambiguo, che nel tentativo di farsi accettare da questa società particolarmente “ giudicante” e selettiva, cerca di reinventarsi, finendo così coll’innaffiare con la benzina, invece che con l’acqua il proprio fiorire. Dall’altro, invece, c’è chi utilizza questo espediente solamente per buttare benzina nel vaso altrui, mirando esclusivamente al proprio tornaconto. Convinti di ingannare gli altri, in verità fuorviano, per primi, proprio loro stessi. Eppure, prima o dopo, arriva il fatidico momento in cui il vero insorge, lasciando spazio ad uno spettacolo senza audience, caratterizzato dal più tragico dei finali: la realtà nuda e cruda, come in effetti è, e non come appare o dovrebbe apparire. Voltaire soleva dire, a questo riguardo: «gli uomini sono uguali. Non la nascita, ma la virtù fa la differenza». Niente più apparenze o filtri, ma la semplice purezza dell’essere lì per come si è. Infine si ha la tendenza – siamo così giunti alla terza declinazione – al giudizio facile, all’etichettare qualcuno in un determinato modo, spesso dispregiativo. Si realizza così proprio quello che Pirandello aveva teorizzato nel romanzo Uno, nessuno, centomila, dove il protagonista arriva a comprendere che ogni persona crea nella sua mente una visione soggettiva di ogni individuo e che l’uomo non è “uno” agli occhi degli altri, ma centomila. L’essere noi stessi implica, al contrario, accettare il peso del confronto, affrontare conflitti e sperimentarne i danni, mettere in discussione le proprie idee, con il pericolo che vengano demolite. Da ciò deriva che si trovi più facile e meno rischioso occultare il proprio volto dietro una maschera, vivere ai margini della mediocrità, senza abbracciare apertamente alcuna posizione. Chi non si mostra non ha il pericolo di perdere, chi non si mette in gioco, non può stabilire autentici legami con l’altro. Chiediamoci dunque, ancora una volta, con verità: “Chi vede me che cosa vede?”. Quando ci alziamo la mattina potremmo dire: “Signore, aiutami ad essere come Te”. Infatti, Gesù dice ai suoi discepoli: “Siate misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso”. Non si è veramente umani, se non si desidera essere misericordiosi come il Padre che sta nei cieli. Il miracolo della misericordia è il desiderio di cambiare. E questo implica l’accettarsi!

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