storie da un’altra sinistra
di Riccardo Orioles
parte prima, 1984-1988
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mardiponente
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INTRODUZIONE
estate 1999
Si è fatto tardi, ed è tempo di cominciare a lasciare qualcosa. Qualcosa a chi? Mah. Forse a Giorgio di Lovere (in provincia di Bergamo: Giorgio era un ragazzo dei Siciliani) che è venuto a trovarmi l’altro giorno, tornando dall’Albania (volontario cattolico) e prima di partire per Tijuana, sempre da volontario della pace.
Non credo che Giorgio non dorma la notte pensando alla crisi della sinistra perbene (lui "è" la sinistra, quella vera). Ma forse prima o poi avrà bisogno di sapere come sono andate, nel suo Paese, le cose. Così, queste storie successe per lo più in Sicilia, nel corso d’un quindici anni, sono in realtà successe dappertutto: una guerra feroce, senza mezze misure, dei compiti da affrontare, i compagni che crescono, una sinistra che a poco a poco si forma. Una sinistra seria, a differenza di altre, perché fin troppo seria era – nel caso nostro – la situazione.
Una sinistra sconfitta, anche, alla fine del ciclo. Come i garibaldini di una volta, come i partigiani. Sconfitta, ma non perdente: le cose di questo genere restano vive molto a lungo, è ad esse che si ricorre quando l’alternativa "realistica" – il Regio Governo dei notabili, la democrazia cristiana o la "sinistra" di mercato d’oggigiorno – termina (di solito, lasciando il Paese in braghe di tela) il ciclo suo e c’è da ricominciare tutto daccapo. Allora le vecchie carte possono servire.
Così, vale la pena di lasciare qualcosa a Giorgio e agli altri che stanno crescendo dopo di lui. Verrà il momento in cui per loro sarà fondamentale sapere che nella storia della sinistra non c’era solo quello che dicono i notabili ma anche – per esempio – cose come quelle che sono successe ai Siciliani. Se si riesce a lasciargli queste cose, a quei ragazzi, si può avere tranquillamente fiducia in loro.
E ora basta così, perché faccio una fatica del diavolo a scrivere anche queste poche righe d’introduzione. E’ molto bello perdere insieme con la propria gente, condividerne la sconfitta senza trucchi e fino in fondo. Ma ti lascia, come dire, un po’ spossato. Comunque caro Giorgio e cari gli altri che non conosco ma che sicuramente ci siete, comunque fino a qui ci siamo arrivati. Prima o poi toccherà a voi continuare, anche se ora non lo sapete.
R.O.
I COMPAGNI
Ma uno dopo l’altro, ancora impietriti dall’orrore,
Li risvegliava l’affetto e li faceva parlare
Sapendo, in quella pena, che c’era molto da fare
Perchè non fosse inutile Perchè vivesse ancora
Dieci creature sole, senza dei a portar doni
Di genio o d’eroismo nella notte feroce:
E una dopo l’altra prendono la parola
Consigliando i compagni, inghiottendo il dolore,
Decidendo con calma ciò che faranno insieme
Sapendo che lo faranno, fra dieci anni o domani
E che in questo se stessi resta un uomo e il suo dono
UN UOMO
I Siciliani, gennaio 1984
Pippo Fava ha scritto un sacco di libri, e cose di teatro anche. Però Pippo Fava non è mica uno importante. Per esempio, arriva una centoventiquattro scassata, dalla centoventiquattro esce uno con la faccia da saraceno e un’Esportazione che gli pende da un angolo della bocca e ride e quello è Pippo Fava.
Bene, un giorno a Pippo Fava gli dicono di fare un giornale, è una faccenda strana affidare un giornale a Fava che, dice la gente perbene, è uno che non si sa mai che scherzi ti combina: comunque il giornale c’è, si chiama il Giornale del Sud e subito Pippo Fava lo riempie di ragazzi senza molta carriera ma in compenso mezzi matti come lui. "Tu, come ti chiami?". "Così e cosà". "E cosa vorresti fare?". "Mah, politica estera…". "Ok, cronaca nera". La cronaca, al Giornale del Sud, la si fa all’avventura. Non si conosce nessuno, si parte proprio da zero. Ci sono storie divertenti, tipo quella del povero emarginato napoletano che arriva in redazione e tutti fanno i pezzi commoventi sul povero emarginato e poi arriva Lizzio dalla questura per un paio di stupri… Si chiude alle tre di notte; non si "buca" una notizia. Con grande stupore, i catanesi apprendono che a Catania c’è una cosa che si chiama mafia. E che Catania è divenuta un centro del traffico di droga. Dopo qualche mese, un attentato: un chilo di tritolo. Ma si va avanti.
La faccenda dura un anno. Poi succedono tre cose. La prima è che gli americani decidono che la Sicilia va bene per coltivarci missili. E questo a Fava non va bene, e lo scrive. La seconda che a Milano acchiappano un grosso mafioso, Ferlito, parente di un assessore e uomo di molto rispetto; e anche qua, Fava si comporta piuttosto – come dire – maleducatamente. La terza è che nella proprietà del giornale arrivano amici nuovi, uno dei quali è – ok, avvocato, niente nomi – un importante imprenditore catanese coinvolto nel caso Sindona e un altro un importante politico catanese coinvolto nell’assessorato all’agricoltura. Telegramma all’illustrissimo dottor Fava: "Comunichiamo con rincrescimento a vossignoria illustrissima che il giornale ora ha un altro direttore". I matti, i ragazzi della redazione vogliamo dire, occupano il giornale. L’occupazione dura una settimana, durante la quale gli occupanti ricevono la solidarietà di alcuni tipografi, di una telefonista, di un guardiano notturno e di un ragazzino dell’Ansa (a pensarci, anche un giornalista ha telefonato, allora). Poi arriva il sindacato e, molto ragionevolmente, l’occupazione finisce.
Senza Fava finisce anche, e alla svelta, il Giornale del Sud (perché non-leggere le stesse notizie su un giornale nuovo, se puoi già non-leggerle su quello vecchio?). Ma Fava nel frattempo non s’è stato con le mani in mano. Ha raccolto una decina dei "suoi" matti: "Si fa un giornale". Come, quando e se si farà non lo sa nessuno. Ma intanto si mette su una bella redazione, con le sue brave "lettera ventidue" scassate.
Chi è disposto a investire qualche centinaio di milioni su due "lettera ventidue" scassate, dieci matti fra i venti e i venticinque anni e uno di sessanta? Ovviamente, nessuno. D’altra parte dopo l’esperienza del GdS Fava e i suoi, a sentir parlare di padroni, si mettono a bestemmiare. Allora si mette su una bella cooperativa – "Radar!". "E che vuol dire?". "Suona bene!" – si disegna un bellissimo stemmino per la cooperativa e si firmano alcune tonnellate di cambiali. Due mesi dopo arrivano due bellissime Roland di seconda mano, offset bicolori settanta/cento, e Fava se le cova con lo sguardo che se invece di essere due offset fossero due turiste svedesi lo denuncerebbero per stupro.
A fine novembre, Pippo Fava arriva in redazione, schiaccia l’Esportazione nel portacenere e fa: "Ragazzi, si fa il giornale". "Quando?" "Con quali soldi?" "Io faccio il pezzo sulla Procura!" "Come lo chiamiamo?" "Io ho un’idea per il pezzo di colore" "Ma i soldi…". La vigilia di Natale, le Roland sputano una cosa rettangolare con scritto su "I Siciliani". Anno uno, numero uno, i cavalieri di Catania e la mafia, la donna e l’amore nel sud. Un tipografo porta il pupo in redazione. "Be’, potrebbe anche andare" fa uno dei redattori con nonchalanche, e subito dopo si mette a ballare.
Il giornale arriva in edicola alle nove di mattina. A mezzogiorno non ce n’è più (a piazza della Guardia, dicono, due fanno a cazzotti per l’ultima copia: ma onestamente non ne abbiamo le prove). Si brinda nei bicchieri di plastica, e si prepara il numero due; nel cassetto i mazzi di cambiali sembrano meno minacciosi.
Ed è passato un anno. La mafia, a Catania, c’è o non c’è? "Ma no… al massimo un po’ di delinquenza…" (il signor Prefetto). "Cristo se c’è! E sbrigatevi a fare qualcosa che qui finisce peggio di Napoli" (I Siciliani). E quel signore, come si chiama quel signore là? "Noto pregiudicato…" (la stampa per bene). "Santapaola Benedetto, detto Nitto, MAFIOSO!" (I Siciliani). E i missili, dite un po’, vi dispiace se lascio un paio di missili nel sottoscala? "Ma prego, si figuri, come fosse a casa sua!". "Ahò! Ca quali méssili e méssili! I cutiddati a’ casa vostra, si vvi l’aviti a ddàri!" E i cavalieri, vediamo un po’; anzi, i Cavalieri? "Ecco dunque cioè nella misura in cui ma però… AIUTO diffamano Catania!" "I cavalieri catanesi alla conquista di Palermo con la tolleranza della mafia. Firmato Dalla Chiesa. Noi stiamo con Dalla Chiesa". Ed è passato un anno.
C’è un ragazzino, a Montepò, che ancora non sa bene se andrà a fare il suo primo scippo o no. C’è una vecchia, in via della Concordia, che è rimasta fuori dall’ospedale perché non c’era posto. C’è una tizia, a viale Regione Siciliana, che costa ventimila lire ed ha quattordici anni. C’è un manovale, alla zona industriale, che ci ha rimesso una mano e dicono che la colpa è sua. C’è uno sbirro, in viale Giafaar, che ha una bambina a casa ma va di pattuglia lo stesso. C’è una bambina, da qualche parte allo Zen, che forse diventerà una puttana e forse una donna felice. E c’è un’altra bambina, in un cortile pieno di sole, e ora Pippo Fava prende in braccio la bambina e la bambina ride. "Nonno, nonno, ora faccio l’attrice".
"Qualche volta mi devi spiegare chi ce lo fa fare, perdìo. Tanto, lo sai come finisce una volta o l’altra: mezzo milione a un ragazzotto qualunque e quello ti aspetta sotto casa… Beh, te lo prendi un caffé? E l’occhiello, vedi che dieci righe per un occhiello a una colonna sono troppe".
Forse mezzo milione, forse di più: il tizio, con l’altro tizio e quello che doveva dare il segnale, era là ad aspettare e ha alzato la 7,65 e ha sparato. Professionale. Certo, in una villa di Catania, s’è brindato, quella notte. Forse ha avuto il tempo di guardarlo negli occhi. Non pensiamo spaventato. Forse, impietosito. Sapendo benissimo che il tizio pagato – uscito forse da un miserabile quartiere, uno di quelli che lui non era riuscito a salvare – sparava anche contro se stesso, contro la propria eventuale speranza. Forse ha pensato che un giorno o l’altro quelli che venivano dopo di lui ci sarebbero riusciti a farli smettere di sparare, a… Ma forse non gliene hanno dato il tempo.
* * *
E questo è tutto. Ok, ringraziamo tutti quanti, grazie di cuore a tutti. Adesso dobbiamo ricominciare a lavorare, c’è ancora un sacco di lavoro da fare per i prossimi dieci anni. Mica possiamo tirarci indietro con la scusa che è morto uno di noi. Se qualcuno vuole dare una mano ok, è il benvenuto, altrimenti facciamo da soli, tanto per cambiare.
Va bene così, direttore?
ANCORA UNA VOLTA
I Siciliani, gennaio 1984
Ancora una volta la mafia ha colpito un uomo che lottava per il bene di tutti. Noi non sappiamo ancora quali specifici settori di essa e quali specifici interessi si siano sentiti più direttamente minacciati dal lavoro che Giuseppe Fava portava avanti alla testa di questo giornale. Sappiamo però quali argomenti non sono mai mancati dalle pagine de "I Siciliani": la crescente e troppo a lungo sottovalutata potenza delle famiglie mafiose catanesi; il flusso di denaro pubblico dalle casse delle istituzioni siciliane a quelle dei soggetti equivoci o addirittura mafiosi; il pericolo, non solo di guerra ma anche di rafforzamento della presenza mafiosa, portato dall’introduzione delle basi nucleari; la necessità, segnalata a suo tempo dal genrale Dalla Chiesa, di far luce sulle fortune dei principali imprenditori catanesi; le connessioni, ormai ben più che occasionali, fra mafia e politica. Su tutti questi argomenti, a nostro avviso, non mancheranno d’investigare i responsabili delle indagini su questo delitto; quanto a noi, continueremo a porli al centro del nostro lavoro, che proseguirà regolarmente.
Ringraziamo tutti coloro che hanno voluto esprimere la loro solidarietà in questo momento; e soprattutto coloro la cui solidarietà vorrà tradursi, nel tempo a venire, in concreta mobilitazione e lotta contro la mafia. La Sicilia non attenderà il duemila per abbattere la mafia. La Sicilia dei lavoratori, dei giovani, delle donne, delle persone oneste combatte già da ora la sua battaglia. Il nostro direttore non ha avuto paura di esserne la voce, di raccogliere e dare espressione a ciò che ogni siciliano sa e troppo spesso non può dire.
E’ una ben esigua minoranza, nel mondo del giornalismo siciliano, quella che realmente e senza compromessi tiene testa alla mafia: esigua, ma capace tuttavia di esprimenre i Mauro De Mauro, i Mario Francese, i Peppino Impastato, i Giuseppe Fava. Su questa minoranza il popolo siciliano potrà sempre contare, in qualunque circostanza e a qualunque prezzo.
I redattori de "I Siciliani"
APPUNTI
promemoria interno, gennaio 1984
1) La cosa più difficile è di renderci veramente conto che nulla potrà essere più come prima, soprattutto non noi. Questo non è più un giornale (solo un giornale), e noi non siamo più giornalisti (solo giornalisti). Abbiamo una responsabilità che prima non avevamo; verso altri esseri umani, non verso un’idea. E siamo cambiati. Ci pare tutto assurdo ed irreale. Ma è così. (La tentazione più grande sarà quella di illuderci, di "essere come prima"). Dobbiamo fare scelte molto più grandi di noi; anche non farle sarebbe una scelta. Affrontare problemi molto più grandi di noi; nessuno può farlo al nostro posto; e risolverli, altrimenti sarebbe tutto inutile.
2) Soprattutto, imparare a contare sugli altri. Contare "istintivamente" su Pertini come sullo Spedalieri. Da soli, non ce la faremo mai. Capire di volta in volta perché e come essi possono – o "debbono"- aiutarci. Essere molto "superbi", capire fino in fondo che abbiamo il diritto (e il dovere: perché solo così potremo funzionare) di chiedere; e contemporaneamente non montarsi la testa, capire che è toccata a noi per caso (non migliori degli altri, né peggiori). Abbiamo moltissimo da imparare per essere all’altezza di quello che dobbiamo fare, e dobbiamo imparare ad analizzare spietatamente i nostri punti deboli, l’uno con l’altro e ognuno di noi da solo. Ed anche essere freddi, oggettivi in qualunque circostanza (e ci possono essere ancora circostanze molto dure) il nostro gruppo deve sempre "ragionare". E poi decidere speditamente, senza rinviare le decisioni.
Ci saranno cose molto difficili, per ciascuno di noi: per esempio, accettare che un altro debba rischiare – per ora – più di te. Ma occorrerà accettare anche questo, se ce ne sarà bisogno: perché non sarà facile arrivare fino in fondo (ma ci arriveremo).
3) Non dobbiamo molto mischiarci con la "vecchia" politica, e contemporaneamente dobbiamo saperla sfruttare per quanto si può. Ma dev’essere chiaro a tutti, e soprattutto a noi, che quello che vogliamo è una cosa diversa e molto più profonda; e chiamarla politica è inadeguato. Dobbiamo essere, molto semplicemente e profondamente, l’immagine della "Sicilia onesta". E poi, "molti fatti e poche parole". Questo, possono capirlo tutti.
4) Rivista più linea editoriale più settimanale: tre cose non separabili, da articolare. La rivista deve continuare sulla stessa linea di prima: questo significa, fra l’altro, tornare già ora su argomenti "duri". Tenere alto il livello di qualità (due "firme" esterne al mese, molti collaboratori, ecc.); puntare molto sulla rete degli abbonati, scatanesizzarci; aprire tutto un versante nuovo di ecologia, vita moderna, ecc.; essere l’organo della cultura militante siciliana; ma anche mantenere un tono non intellettualistico, "popolare". Stile concreto, senza grandi parole; al limite "piemontese".
5) Siciliani Editori può diventare anche più "importante" della rivista; l’Einaudi del Sud. Cominciare dai titoli già previsti (già a loro volta articolati in sezioni…); ma affiancare al più presto una collana "politecnica" a buon livello, una collana di stampa d’arte ed una, infine di pamphlets molto scarni ed a bassissimo prezzo (uno strumento tecnico che fa capolino qua e là nella storia del giornalismo; e mai casualmente…).
6) Il settimanale – il foglio dei Siciliani – dev’essere, probabilmente, "povero"; comunque, militante (il "partito" della Sicilia onesta: contro la mafia, i missili, l’incultura; ma anche "per" un modo diverso di vivere, riscoprire se stessi individualmente e collettivamente, ragionare…). Uno stile "giovane" (non giovanilistico!), coinvolgente; un giornale di massa, non solo per lettori "evoluti e coscienti"; battere la stampa dei mafiosi, non semplicemente ritagliarsi uno spazio!
Ed è possibile. Possiamo, e quindi dobbiamo, mettere in piedi entro l’autunno una rete articolatissima di collaboratori, corrispondenti, anche redattori locali; e partire in autunno con una sottoscrizione popolare da mantenere come caratteristica politica del giornale. E spiegare sempre tutto ai lettori: dire quali sono i problemi, come affrontarli, contare – e dirlo – su di loro. Forse nessun altro, come noi, può farlo.
7) Intanto, cominciare subito (metà febbraio) con i fogli volanti (giustizia, banche; ma anche sport, satira) monografici, i tabloid. dei quali, il primo – ma non paternalistico, né celebrativo: sarà difficilissimo trovare il tono! – per gli studenti. E dire proprio qui cosa vogliamo fare, e fare esempi concreti e chiedere (intanto, agli studenti) una serie di interventi specifici.
Se ogni scuola siciliana fosse una sezione del partito-che-non-è-un-partito, e contemporaneamente un ufficio di corrispondenza dei Siciliani; se ogni scuola ricevesse le sue copie, e le diffondesse, e curasse la sottoscrizione, e contattasse il corrispondente da noi designato per aiutarlo nella scelta delle notizie; e se poi cominciasse magari a lavorare (senza fretta, coi tempi necessari) su un argomento specifico della propria zona – se tutto questo avvenisse, sarebbe indubbiamente poco "professionale", ma sarebbe bellissimo. E perché non provarci?
8) E poi, non restare ma più isolati. L’associazione degli amici dei Siciliani (convegni, organizzazione, finanziamento d’emergenza) ma anche tante piccole e grandi iniziative "spontanee", "risorgimentali", negli ambienti più diversi, nelle forme più disparate; tutti insieme, probabilmente, non siamo in grado di immaginarne la decima parte, ma grazie al cielo non abbiamo bisogno d’immaginarne solo noi. Essere al centro di mille idee, di mille iniziative che, magari slegate fra di loro e "occasionali", concorrano però a formare una trama molto netta e molto forte. E anche questo è possibile.
9) Contare sulle nostre forze non esclude (anzi richiede) contare anche su molte altre. Sapere che non siamo all’altezza non esclude (anzi rafforza) la possibilità di riuscire. E noi siamo determinati e compatti, e molta gente s’è mossa; molta di più ha cominciato a muoversi, e il nemico è diviso. Se restiamo uniti – ma basta uno a dividere – e pensiamo in termini di dieci anni, niente è impossibile; bisogna solo trovare – di volta in volta – come utilizzare tutte le forze potenziali, e ragionando ci si può certamente riuscire. Ci sarà da stare molto attenti e da fare "politica" anche; ma dovremo sempre ricordare, in ultima analisi, che gli amici sono solo ed esclusivamente quelli di quella notte. Ed anche i nemici. E non dimenticarlo mai.
"MILITARMENTE OCCUPATA"
febbraio 1984
Care compagne e compagni, per noi è molto importante che in una giornata come questa, al di là di tutte le divisioni che ci possono essere e che noi speriamo vengano superate al più presto, la Sicilia onesta sappia ritrovarsi insieme, unita e compatta, per lottare contro la mafia. La mafia non è fatta solo da quelli che sparano, dai killers mafiosi, ma anche e soprattutto dai boss mafiosi, dai politici mafiosi e dagli imprenditori mafiosi. Anche qui a Catania, anche se certa stampa, qui, non ha il coraggio di parlarne.
Il nostro direttore questo coraggio ce l’ha avuto. Per questo l’hanno ucciso. Ma il nostro giornale, I Siciliani, vive e continuerà a vivere e continuerà a lottare, senza fermarsi, contro tutti costoro. Noi non ci tireremo indietro!
E noi non chiederemo certo aiuto, come non lo abbiamo fatto in passato, ai vari cavalieri, ai pezzi grossi, ai potenti. Noi fideremo solo ed esclusivamente nell’aiuto e nella solidarietà concreta dei siciliani onesti, e dei lavoratori in primo luogo. E questo aiuto e questa solidarietà verremo fiduciosamente a chiedervi di qui a qualche settimana.
Al Nord alcuni giornali, quelli stessi che gridano al lupo appena vedono operai, quelli stessi che non esitano a mettersi d’accordo coi Ciancio e coi Rendo, dicono, in sostanza, che noi siciliani siamo tutti mafiosi. Certo, qualcuno di più, qualcuno di meno; ma secondo loro, alla fine, è tutta la Sicilia che è mafiosa.
Questo non è vero, questa è una menzogna. La Sicilia non è mafiosa. La Sicilia è una terra militarmente occupata dalla mafia; come una volta c’erano i tedeschi, ora ci sono i mafiosi. Ma la grandissima maggioranza dei siciliani è nemica della mafia, è nemica dei politici mafiosi, e nemica degli imprenditori mafiosi e di tutti i loro collaborazionisti e servitori.
Anche qui a Catania, la Sicilia antimafiosa si va organizzando. In questi ultimi mesi ci sono state molte iniziative spontanee di studenti, di operai, di intellettuali, di donne. Tanta gente ha preso coscienza della situazione; e alcuni hanno già cominciato a muoversi; ma ognuno nel suo settore, ognuno per conto suo, separatamente.
Noi, redazione dei Siciliani, pensiamo che è il momento di cominciare a muoverci tutti insieme, di organizzarci. Una buona idea sarebbe quella di formare un movimento popolare che abbia come punto di riferimento il nostro giornale, e che potremmo chiamare, per esempio, Associazione Amici dei Siciliani. Un’organizzazione aperta, senza etichette e bandiere; un’organizzazione di cui possano far parte veramente tutti coloro, da qualunque parte provengano, che vogliono fare qualche cosa, nelle fabbriche, nelle scuole, nei quartieri; e, in primo luogo, i lavoratori e i loro rappresentanti. Un’organizzazione viva, forte e combattiva, che possa cominciare ad essere, oggi a Catania quello che in altri tempi e in altri luoghi, ma sempre contro una barbarie come questa, erano i Comitati di liberazione. Non contro i tedeschi, questa volta, ma contro l’occupante mafioso, contro i boss mafiosi, contro i politici mafiosi, contro gli imprenditori mafiosi, contro tutti coloro che stanno ammazzando Catania e la Sicilia. Oggi come allora, resistenza: per cacciare la mafia, per liberare la città.
ALCUNE RISPOSTE DA TROVARE INSIEME
I Siciliani, settembre 1984
Sono passati sette mesi. Sette mesi senza alibi, per i siciliani onesti e per i mafiosi. Per i mafiosi, perché adesso non è più questione di "Sicilia diffamata" e di "campagna per difendere Catania" ma semplicemente di dire se si è con la mafia o contro. Per noi antimafiosi, perché adesso non abbiamo più l’alibi della solitudine e del popolo che non ci comprende. Se una cosa s’è vista, in questi mesi, è che la nuova generazione dei siciliani è nella sua grande maggioranza nettamente antimafiosa; e che ce n’è una parte, ancora minoritaria ma già abbastanza numerosa, pronta a tradurre subito in azione concreta questa prima elementare intuizione.
"Car Siciliani: sono una ragazza di diciassette anni e vi scrivo per dirvi che anch’io…". "Adesso però vorrei dire un fatto che è successo al mio paese e che secondo me è pure un fatto mafioso…". "Nella nostra scuola si sono vendute settantacinque copie comunque non eravamo un granché organizzati ma la prossima volta…". Ecco: cosa dobbiamo rispondere a lettere come queste e a interventi come questi, a questi messaggi? Perché ce ne sono stati tanti, molti di più di quanto avremmo potuto credere – questo, gli assassini non l’avevano messo nel conto.
Noi non possiamo rimandare questi ragazzi con risposte di generica solidarietà. Noi – noi di questo giornale, intendiamo; ma anche tutti coloro che in una qualunque maniera si sono schierati su questo fronte – abbiamo un dovere preciso nei confronti di tutti loro. Ci scrivono fiduciosamente, avendo finalmente trovato una bandiera; e fiduciosamente lavorano, ogni volta che gliene si dà l’occasione, a quel poco che osiamo loro affidare. E questa sarebbe la generazione senza ideali, di quelli che non credono più a niente, dei ragazzi del riflusso…
Abbiamo attraversato questi mesi sostanzialmente da soli. Non nei confronti – tutt’altro! – dei ragazzi delle scuole, dei magistrati onesti, della gente "comune", ma rispetto a buona parte delle forze politiche, del mondo giornalistico, delle categorie istituzionali, di tutti coloro insomma che avrebbero potuto materialmente aiutarci, qui ed ora, a continuare il nostro lavoro. Quasi con le nostre sole forze, abbiamo dovuto affrontare difficoltà e ostacoli che sembravano, ragionevolmente, insuperabili; e ce l’abbiamo fatta. Al feroce messaggio della mafia, abbiamo risposto con venti articoli nuovi contro di essa. Tutto quello che hanno potuto ottenere da noi, è stato di fermarci per quattro ore, dalle 22,30 del cinque gennaio alle due e mezza del sei. Un attimo dopo, abbiamo ricominciato. In sette mesi abbiamo prodotto sei nuovi numeri della rivista mensile e tre del tabloid sperimentale; neanche una pagina, crediamo, ne è andata sprecata.
Ma tutto questo non basta. Ci sono cose che non siamo riusciti a fare, ed altre che non abbiamo nemmeno provato a fare: bisogna ragionare anche su questo, avere il coraggio di criticarci.
Non siamo riusciti, nella maggior parte dei casi, a contattare adeguatamente le centinaia di luoghi in cui il nostro giornale non era mai stato ma aveva già, per sola forza d’immagine, i suoi amici e i suoi lettori; non siamo riusciti a far partire prima dell’estate tutto il piano editoriale che avevamo previsto; non siamo riusciti a dare a tutti i nostri amici nel mondo politico e nel sindacato un’immagine del nostro lavoro che li aiutasse a superare la miopia con cui, non per sua colpa, la democrazia "settentrionale" tradizionalmente percepisce le lotte del Sud. Queste cose non siamo riusciti a farle – non era cosa facile, d’altronde – finora, e cercheremo dunque di riuscirci nei mesi che verranno.
Per altre cose, il discorso è più complesso. Per esempio: abbiamo prodotto e diffuso un foglio speciale per le scuole, e non l’abbiamo fatto da soli ma con l’aiuto di decine di ragazzi che col giornale, in teoria, non c’entrano per niente. Questo è ancora "soltanto" un fatto giornalistico, o è già, nel suo piccolo, qualcosa di più? E se un caso come questo indicasse (e ce ne sono altri più minuti) che esiste una richiesta crescente, fra i giovani siciliani, non solo di informazione ma anche, in modo del tutto nuovo, di organizzazione?
Ma: cosa significa parlare di organizzazione nel 1984? E soprattutto: chi deve parlarne, che deve fare le proposte concrete per dare un senso a questa parola? Noi, i ragazzi che hanno lavorato con noi, i nostri "lettori", tutti quanti insieme? E ancora: organizzarsi per fare cosa? Solo per diffondere un giornale, o per qualcosa di più? E "come" organizzarsi? Ha ancora un senso pensare a un centro che spieghi le cose e una periferia che le esegua, o è già possibile lavorare insieme in maniera più collettiva? E, in fondo a tutte queste domande: è davvero possibile sapere già ora cosa vogliamo costruire e dove arriveremo, o è meglio partire con pochi e concreti obbiettivi per scoprire insieme, strada facendo, tutti gli altri?
Tutto ciò non ha niente a che vedere, evidentemente, con la "politica" dei candidati e dei partiti; forse, con quella più profonda e civile – ed anche più solida e reale – che, nei momenti di crisi, emerge direttamente dal crescere delle esperienze individuali e collettive. Noi attraversiamo, riteniamo, uno di questi momenti e non possiamo venir meno a nessuno dei nostri compiti rispetto ad esso, nemmeno a quelli talmente nuovi da richiederci uno sforzo di fantasia già solo per percepirli. Solo in questo quadro, fra l’altro, è possibile dare un senso reale alla nostra stessa funzione "tecnica" e professionale, che rischia diversamente di diventare una umanissima ma isolata testimonianza e non uno strumento di effettivo cambiamento della realtà esistente.
Proposte concrete? Non ancora: piuttosto, due campi di ricerca su cui bisognerà ragionare, tutti insieme, nei prossimi mesi. Primo: come può essere un giornale popolare siciliano, chi può mettersi insieme per farlo, che iniziative concrete possono aggregarsi attorno ad esso? Secondo: come utilizzare fino in fondo, in questa prospettiva, un luogo d’incontro come l’Associazione dei Siciliani di cui s’è parlato nei mesi scorsi; come far sì che a raccogliersi in essa non siano solo gl’intellettuali già impegnati ma un’intera generazione di siciliani onesti?
Su questi due punti sarebbe utile aprire subito — e questo vuol esserne semplicemente un inizio – un dibattito ampio e concreto, non solo fra noi "addetti ai lavori" ma con tutti i nostri amici e lettori. Di questi tempi, la cosa più importante per chi vuole davvero cambiare le cose, è sapere imparare: le cose che non sappiamo ancora sono davvero tante, e non è detto che debbano sempre essere le "persone importanti" a spiegarcele.
A CAVALLO DELLA TIGRE
I Siciliani, settembre 1984
E’ difficile, per coloro che non sono siciliani, rendersi conto dell’aspetto più propriamente "politico" della mafia. Non parliamo qui, s’intende, dei legami sempre più stretti che la mafia ha via via potuto stringere con il mondo politico ufficiale, ma della presenza quotidiana, continua, infine – per l’appunto – "politica" con cui essa ha pesato in ogni aspetto della vita associativa siciliana: fino a diventarvi in larga misura egemone, imponendovi con la violenza un proprio modello di società e dei propri modelli di comportamento individuali e collettivi. La mafia ha dato luogo, negli ultimi quarant’anni e per la maggior parte dell’Isola, ad una vera e propria occupazione militare del territorio: con i suoi editti e i suoi bandi, le sue esecuzioni sommarie, la sua dose quotidiana di prepotenze spicciole; con i suoi corpi militari, ma anche il suo personale politico, i suoi amministratori, i suoi kapò. Immaginate una repubblica di Salò che duri per quarant’anni ed avrete un’idea di che cos’è la mafia, in linguaggio "milanese".
In queste condizioni storiche, si è verificato in Sicilia un fenomeno non dissimile da quella che in altri tempi e luoghi d’Europa è stata la resistenza "politica" e clandestina contro i regimi nazifascisti. La nostra Resistenza è durata quarant’anni; ed ha avuto centinaia di morti. Ogni singolo diritto civile è stato conquistato – quando si è riuscito a conquistarlo – a prezzo di sangue. Ogni nostra sconfitta è stata pagata con la decimazione dei resistenti e la deportazione delle masse. Un quarto della popolazione attiva della nostra isola vive e lavora all’estero: le grandi ondate migratorie seguono la sconfitta della lotta sui feudi, quella della riforma agraria, quella delle lotte per l’acqua. Eppure, la Sicilia non si è mai arresa: quarant’anni fa le bandiere rosse dei braccianti, oggi le assemblee degli studenti, in nessun altro paese d’Europa tanta ostinazione e tanta disperata fierezza hanno tenuto campo così a lungo.
E i pochi uomini nostri – generalmente, e non a caso, percepiti altrove più come capipopolo che come veri dirigenti politici – che hanno saputo esprimere la coscienza popolare vengono ricordati in Sicilia, assai più che nella loro qualificazione ideologica, come capi di questa lotta; i Miraglia, i Li Causi, i La Torre sono innanzitutto, nella memoria popolare, i nemici della mafia; la stessa sinistra politica e sindacale, nei suoi momenti alti nelle zone più aspre della Sicilia, è vista anzitutto come organizzazione di lotta contro il potere mafioso, e solo secondariamente in rapporto alle questioni "politiche" tradizionali. Interclassismo generico, qualunquismo? Basta guardare la piazza di un qualunque paesino dell’interno siciliano – la chiesa e il circolo dei civili su un lato della piazza; il punto di ritrovo dei braccianti e la lega contadina sull’altro – per comprendere come proprio la questione mafiosa sia la più profondamente politica che oggi possa darsi nel Paese, quella che con maggiore verticalità e nettezza separa le classi, i comportamenti collettivi, i diversi modi di vivere e le diverse visioni del mondo, la società insomma.
UN VOLANTINO
primavera 1984
Anche se non ti promettiamo ricchi premi e cotillons vale ugualmente la pena che tu legga questo volantino e per dei motivi, ne converrai, più che seri: tanto per cominciare è gratis e non è un pretesto per venderti un’enciclopedia; poi perché è stato fatto per te, e da ragazzi uguali a te, più o meno belli, più o meno intelligenti, più o meno incavolati, insomma gente come te.
Vogliamo proporti una nuova idea da realizzare insieme: Siciliani/Giovani, un mezzo di espressione libero e moderno a disposizione di chiunque voglia dire qualcosa, non il primo della classe, né quelli che salgono sempre in cattedra. Infatti non ci interessa il letterato, l’artista, il politicante, ma tutti quelli che vogliono scrivere, raccontare, disegnare, fotografare anche solo partecipare a qualcosa, esserci, sentirsi vivi e protagonisti, non solo complici della propria vita. E’ una possibilità di opporci a un’esistenza grigia che scorre per inerzia, alla solitudine, alla rassegnazione inutile (ci dicono di non rompere le scatole e starci zitti, e noi ci stiamo? No).
Non dormirci su ancora, vieni se hai qualcosa da dire, da raccontare.
Fabio
Via Reclusorio del Lume (vicino piazza S. Domenico), Facoltà di scienze politiche, Aula "A" a piano terra.
IL CORAGGIO DI LOTTARE
SicilianiGiovani, 1984
Caro Salvatore (o Antonio o Vincenzo o Roberto, o come diavolo ti chiami), come vedi, io non so nemmeno il tuo nome (forse ci saremo visti qualche volta, in un treno di pendolari o in una discoteca, ma naturalmente senza farci caso) e non so nemmeno che tipo sei, se tipo "ragazzino perbene" oppure tipo punk (a me personalmente piacerebbe di più così, ma questo è solo una cosa mia personale). Non so neppure che cosa stai facendo in questo momento, forse hai trovato il giornale per caso e siccome ora c’è una lezione noiosa te lo leggi sottobanco tanto per passare il tempo; o forse sei sull’autobus o forse da qualche parte con i tuoi amici (neanche tu sai granché di me: bene, sono un giornalista dei Siciliani, ho qualche anno più di te ma non molti, sono triste perché mi hanno ammazzato un amico, ho anche la paranoia che lo facciano pure a me e ne ho paura perché non sono particolarmente coraggioso. Non sono affatto un grande giornalista anzi sono alle prese con problemi molto più grandi di me). L’importante comunque è che tu capisca che io in questo momento non sto parlando al Ragazzo Impegnato, non sto facendo il discorso "simbolico" per dire che in realtà faccio appello a tutti quelli che ecc. ecc. No, io sto parlando proprio a te personalmente, perché ho bisogno di aiuto e non mi fido delle persone importanti. Ho bisogno invece della gente "comune", quella come te (e come me). Parliamoci chiaro: io non credo affatto che tu sia particolarmente interessato a tutte queste cose. L’altra volta, anzi, quando c’è stata l’assemblea Contro-La-Mafia (ci sarà stata anche nella tua scuola) tu per un po’ sei stato ad ascoltare tutto quello che dicevano i professori e i tuoi compagni più "politici" poi, semplicemente, ti sei annoiato e te ne sei andato. Siccome era una bella giornata, spero che tu te ne sia anche andato in villa con la tua ragazza. Tutto questo mi va benissimo. Io non credo molto alle parole, e credo che ognuno debba fare ciò che sente e non quello che dicono gli altri.
Però. vedi, c’è un trucco. Gli altri – cioè le persone importanti, i professori, i "politici" – partono da un punto di vista, e cioè che loro sanno tutto mentre tu non sai un cazzo. E che quindi debbono essere loro a dirti cosa fare. Tanto, tu sei "qualunquista", uno che se ne frega delle Cose Serie, che pensa solo a farsi la canna e ad andare in discoteca (i giornalisti come me, invece, sono "i ragazzi di Fava", bravi ragazzi certo, ma un po’ troppo incazzati e un po’ coglioni…). Invece non è così. Tu sai un sacco di cose, solo che non le dici nel loro linguaggio, o non lo dici affatto. Però le sai. Per esempio sai che la tua vita non è affatto una gran bella vita, che ti annoi: questo non è affatto qualunquismo, è la tua vita. Non c’è bisogno di parole difficili per dirlo. E sai pure che non ti va di continuare così e che intanto devi continuare lo stesso perché non c’è altro da fare, Sai che, nonostante tutte le belle parole, nessuno ti può aiutare a far qualcosa perché in realtà a nessuno gliene frega veramente molto di te: Sai anche altre cose, per esempio che fra un paio d’anni resterai disoccupato come il novanta per cento dei tuoi amici, che fra i tuoi amici ce n’è sicuramente qualcuno che si buca, che tu ancora sei fra i più fortunati perché sei – probabilmente – uno studente e non uno scippatore o un marchettaro (e se lo sei, il discorso vale anche per te). Sai un sacco di cose serie, insomma, ma tu stesso non ti accorgi nemmeno di saperle (non solo gli altri ti considerano un "qualunquista": sono riusciti a convincere anche te che lo sei), e perciò non contano niente, non pesano. E perciò quelli che sanno parlare continuano a comandare loro, indisturbati: tanto, tu non conti…
Questo è il trucco. Se tu ti rendessi conto di quanto sia importante – e, ma in una maniera del tutto nuova, anche "politico" – anche andare in villa con la ragazza, cercare di fare quello che ti piace, vivere la tua vita come vorresti tu, tutto quanto cambierebbe. C’è stato un onorevole che, poche ore dopo che hanno ammazzato quel mio amico, è venuto fuori con aria arrogante – "la mafia non c’è, ha detto in sostanza, fatevi gli affari vostri!" – a minacciarci. Bene, quell’onorevole in realtà è un debole, è un isolato, perché non ha nessunissima idea della vita reale, della gente vera: al massimo, può fare qualche danno ora, per il potere che ha. Noi invece – tu ed io – siamo molto forti e gli possiamo ridere in faccia perché la vita (la vita di ogni giorno, quella normale, la nostra) la conosciamo, ci siamo dentro, sappiamo che cos’è; ci mancano solo le parole, ma le troveremo (e non saranno mai grandi parole, grandi ideali, faccende da politici: ma parole comuni, normali, quelle della vita di ogni giorno).
Allora, adesso ti faccio la mia proposta. Lasciamo perdere se hai la cravatta o l’orecchino (io, ripeto, preferirei l’orecchino: ma è questione di gusti, ognuno ha i suoi). Queste sono cose secondarie. La cosa importante è che tu vuoi vivere la tua vita, e che ti sei scocciato di quella che ti danno. Come me. Allora dammi una mano. Parole non me ne servono, mi servono poche cose da fare. Poche, ma da farle sul serio, perché noi due – tu, ed io – siamo gente seria, non politicanti. Andare in villa con la ragazza è una cosa seria, e anche fare questo giornale è una cosa seria. Solo i bei discorsi non sono una cosa seria.
GLI INTOCCABILI E GLI SCIPPATORI
SicilianiGiovani, 1984
Ci sono due notizie che ci hanno colpito in queste ultime settimane, e crediamo che siano due notizie ugualmente importanti. Una, è che a Palermo Falcone e gli altri giudici antimafiosi hanno sequestrato numerose proprietà dei boss mafiosi, per un valore di quasi mezzo miliardo. Siccome non c’è ancora una legge che regoli l’uso dei beni sequestrati ai mafiosi, esse sono rimaste affidate al custode giudiziario come se fossero due motorini rubati. Eppure tutte queste proprietà (e tutte quelle ancora da sequestrare) potrebbero servire a dare lavoro a un sacco di gente. Perché non i fa una legge in questo senso? Io penso che la gente – ma soprattutto i giovani disoccupati, che sarebbero i più interessati – dovrebbe organizzarsi e fare casino per ottenere una legge così: tra l’altro, questo sarebbe anche un modo (e molto efficace) di combattere la mafia.
La seconda notizia è che a Catania, ai primi di maggio, hanno condannato a tre anni e mezzo di carcere – senza condizionale – un giovane scippatore. Una pena molto dura: proporzionalmente, gli imprenditori mafiosi dovrebbero stare in galera per almeno cent’anni… mentre invece per loro spesso si trovano le attenuanti e si fanno le campagne di stampa per giustificarli. A Catania ricordiamo benissimo come, ai tempi del mafioso-colonnello Licata, da un lato si lasciavano in pace i vari Santapaola, Graci e Rendo e dall’altro si scatenavano senza pietà i "falchi" contro i piccoli balordi di quartiere, per lo più giovanissimi e quasi sempre affamati.
I mafiosi sono quelli che ammazzano, quelli che trafficano eroina e soprattutto quelli che si fanno i miliardi, e la carriera politica, con la mafia e gli intrallazzi. La lotta alla mafia, chi ha il coraggio di farla, la faccia contro di loro: senza pietà. Ma per i ragazzi di quartiere non servono le condanne feroci. Servono aiuto, scuola, comprensione, e soprattutto lavoro: per esempio, nelle aziende sequestrate agli "insospettabili".
I CENTRI GIOVANILI IN SICILIA
SicilianGiovani, 1985
A Palermo dopo Dalla Chiesa, a Catania dopo Giuseppe Fava, a Trapani dopo l’attacco a Carlo Palermo, migliaia di giovani siciliani ci siamo ritrovati nelle strade per manifestare contro la mafia. Non eravamo lì a manifestare semplice solidarietà ad un magistrato isolato o a dei giornalisti isolati: eravamo lì da protagonisti, coscienti del fatto che ognuno di noi è costretto a scontrarsi quotidianamente con la mafia, cominciando dai problemi della vita nel proprio quartiere o nella propria scuola.
Ma c’è di più: ci siamo ritrovati nelle strade nelle piazze e nelle piazze con tanta, tantissima voglia di stare insieme. E a partire da questa esigenza di stare insieme abbiamo cominciato a parlare di centri giovanili: dei posti tutti nostri per farci tutto quello che vogliamo. Fin qui nulla di nuovo dal numero scorso.
La novità che è venuta fuori da questi ultimi mesi è che stiamo scoprendo, con grande gioia, che l’obiettivo del centro giovanile è sentito non soltanto a Catania, a Palermo e a Trapani, ma in molte altre città e paesi della Sicilia. Ogni nuova redazione locale di "Siciliani/giovani" che nasce (e ce n’è già parecchie) parte subito sparata con iniziative sugli spazi giovanili. Ecco allora che questo nuovo movimento che nasceva "contro la mafia", si avvia a diventare, anzi lo è già, un movimento "contro la mafia e per i movimenti giovanili".
Proponiamo di organizzare in tutta la Sicilia delle bellissime feste per chiudere in allegria l’anno scolastico e per lanciare ufficialmente la campagna "Centri giovanili in tutta l’isola", dandoci appuntamento a settembre. Sarà allora che, ovunque possibile, dal più piccolo paesino alla più grande città, cominceremo a far nostri tutti i luoghi pubblici inutilizzati (edifici, terreni comunali in abbandono, ecc.) che si possano utilizzare per farsi i "nostri" centri. Dappertutto.
E per cominciare, nell’immediato: sommergiamo i comuni siciliani sotto una valanga di cartoline con su scritto: "Voglio un centro giovanile perché…". Altre idee verranno dopo, man mano che andremo avanti.
Antonio
Chi è interessato all’iniziativa per i centri giovanili a Catania si metta in contatto con noi telefonando, venendo in redazione o partecipando alle assemblee di Siciliani/giovani (ogni venerdì alle 17 presso la comunità Ss. Pietro e Paolo). Telefonateci anche se non siete di Catania e volete affrontare insieme il problema nel vostro paese.
PROMEMORIA INTERNO
settembre 1984
1) Nella situazione attuale noi possiamo:
– concentrarci sul mensile ed occasionalmente sui libri, migliorarne, anche con apporti professionali esterni, la qualità e la diffusione e programmare alcuni anni di "progresso senza avventure";
– o aprire un fronte completamente nuovo (settimanale ed Associazione) che potrà potarci all’avanguardia di un reale movimento antimafioso ma potrà anche mandarci in rovina nel giro di venti mesi.
Le due scelte non sono compatibili: la prima può essere sostenuta dal nostro gruppo così com’è ora e richiede "soltanto" un progressivo aumento del nostro grado di professionalità; la seconda ha bisogno, oltre a questo, anche l’assunzione di una serie di compiti in buona parte completamente nuovi e implica in particolare la capacità di individuare, di contattare e di coordinare una serie di forze che in gran parte si trovano ancora a uno stato poco più che potenziale.
L’ipotesi che queste forze siano in realtà l’elemento emergente, e in prospettiva egemone, della situazione attuale è quella su cui si basano tutti i progetti contenuti in questo promemoria.
2) Il progetto di settimanale e quello dell’Associazione sono in realtà due aspetti di un unico problema, infatti:
– da solo il settimanale non soltanto non riuscirebbe a trovare la forza di venire alla luce e di andare avanti, ma non potrebbe nemmeno (nel caso che si riuscisse nonostante tutto a crearlo) avere il respiro ideale e i contatti sociali necessari per farne qualcosa di più di un buon giornale; esso ha quindi bisogno di un punto di riferimento "politico" e di una struttura "organizzativa" che in questo momento non esistono da nessuna parte;
– l’Associazione, dal canto suo, da sola difficilmente riuscirebbe ad essere qualcosa di più di un circolo di intellettuali scontenti: il progetto di settimanale da un lato può darle lo strumento operativo per svolgere un’azione "politica" non velleitaria, dall’altro può essere il punto di riferimento concreto che permetta di aggregare forze attorno ad un progetto (e a dei sotto-progetti particolari) specifico e non su un’utopia; sono d’altronde ampiamente superate le vecchie formule organizzative basate sui modelli di pura propaganda e "di partito", mentre vi è una richiesta crescente e non casuale di momenti organizzativi basati su iniziative concrete e autogestite.
3) in questo quadro, è chiaro che i nostri due progetti fondamentali debbono fin dall’inizio procedere di pari passo ed intrecciarsi a vicenda, rappresentando l’uno il momento maggiormente tecnico-prrofessionale, l’altro il momento maggiormente politico-organizzativo di un disegno che ha le stesse radici e gli stessi obiettivi. Tuttavia, dev’essere almeno altrettanto chiaro:
– che il nostro concetto di professionalità è molto diverso da quello tradizionale, ed implica non solo alcune scelte "militanti" in chi lo pratica, ma anche una disponibilità a confrontarsi con tutto ciò che sta al di fuori di esso e a ritenere essenziale, ai fini di un pieno sviluppo delle tecniche professionali, il contributo di soggetti "spontanei" del tutto estranei ad esse;
– che il nostro concetto di politica non ha nulla a che vedere con quello tradizionale, e si basa (assai più che su rapporti "diplomatici" con forze più o meno istituzionali) sull’attenzione verso soggetti sociali reali, individuandone gli effettivi e non ideologici) terreni di scontro e mettendo al centro di ogni analisi e di ogni iniziativa i comportamenti quotidiani degli esseri umani: che non sono mai casuali e individuano sempre, di per sé, una "politica";
– che il nostro concetto di organizzazione non consiste nel tentativo di creare un’ennesima struttura burocratica fine a se stessa, e in definitiva di potere, ma semplicemente nel cercare di offrire alla gente comune alcuni strumenti concreti, elastici ma efficienti, che possano aiutarla a non disperdere la propria voglia di cambiare.
Tutto questo, in Sicilia, diventa particolarmente evidente in presenza di una forma di potere – il sistema mafioso – che consente ben poche mediazioni. Ma forse non è impossibile pensare che il movimento antimafioso in Sicilia rappresenti oggi, e ancor più possa rappresentare in futuro, una forma particolarmente avanzata di una tendenza a riappropriarsi della vita pubblica che da alcuni anni ricomincia a farsi strada in settori consistenti – e spesso ufficialmente "qualunquisti" – del Paese.
In questo senso, se è vero che non siamo (come troppo spesso abbiamo dimenticato) autosufficienti, è anche vero che non siamo assolutamente isolati, ed è ragionevole prevedere che ancor meno lo saremo in futuro.
5 GENNAIO
I Siciliani, dicembre 1984
Questo giornale si stampa in una città, Catania, che ha due magistrati in carcere e altri due sotto esame per scandali d’ogni tipo. In una città in cui quasi tutti gli amministratori degli ultimi cinque anni sono stati incriminati per un intrallazzo o per l’altro. In una città dove un pomeriggio di pioggia basta a produrre gli effetti di un bombardamento, e non si osa tuttavia parlare del dissesto urbano. In una città dove i criminali mafiosi vivono o liberi o in "libertà provvisoria". In una città dove il principale uomo politico, Drago, non si vergogna di affermare che "la mafia non esiste". In una città in cui la legge La Torre sui sequestri ai mafiosi è stata fattivamente applicata una sola volta, rispetto alle duecentoventuno di Palermo. Nella città di Santapaola, Ferrera e Ferlito; nella città in cui tuttora operano e fanno affari i quattro cavalieri – Graci, Rendo, Costanzo e Finocchiaro – su cui Dalla Chiesa spese le sue ultime parole.
In questa situazione, occorre essere qualcosa di più che un giornale. Avere qualcosa da dire, e dirlo liberamente; informare senza paura, dire le cose come stanno; fare i nomi, le cifre, i documenti – tutto questo è importante, ma non basta. Non basta denunciare le ingiustizie, bisogna porvi fine. Non basta dire che il nemico è feroce, bisogna sapere che è debole. E’ debole, in confronto alla forza d’una intera popolazione: e il problema è dunque di risvegliare questa forza.
Così, i primi due anni di vita del nostro giornale terminano – e iniziano insieme i successivi – non solo qui dentro la redazione, ma nelle assemblee e nelle piazze. Non solo per protestare contro gli amici della mafia ma anche per cominciare a costituire insieme la Sicilia del dopo-mafia. Una Sicilia libera dai mafiosi, ma anche una Sicilia sorridente; una vita quotidiana senza minacce e senza paura, ma anche una vita più felice, capace di liberare la creatività e la fantasia di tutti e di renderci veramente – dentro e fuori – più umani. Non solo la sconfitta della mafia, ma qualcosa di più.
Non non sappiamo ancora per quali tappe arriveremo – non da soli – a vedere tutto questo. Ma siamo certi che ci arriveremo. E sarà curioso, alla fine, veder con che diversi e vari contributi si sarà costruito tutto questo. Senza stupircene del resto: quando i tempi cominciano a cambiare – e questo sono tempi di grande cambiamento, in Sicilia – le cose più straordinarie appaiono già normali mentre la vecchia "normale" prepotenza appare all’improvviso intollerabilmente strana.
Si tratta adesso di dare alla lotta contro la mafia una dimensione realmente regionale e non solo cittadina: non è possibile che mentre a Palermo si comincia a colpire il terzo livello a Catania non si facciano nemmeno le indagini bancarie. Si tratta di dare una dimensione regionale anche e soprattutto al movimento di massa antimafioso, finora privo di un collegamento stabile e organizzato fra le ormai numerose realtà esistenti nelle varie città della Sicilia. Si tratta anche di cominciare ad individuare degli obiettivi – a cominciare dalla gestione popolare dei beni sequestrati con la legge La Torre – che consentano di aprire una fase più avanzata, non più semplicemente difensiva, della lotta contro il potere mafioso e di mobilitare su di essi tutte le forze della Sicilia civile.
Si tratta infine – e forse soprattutto – di cominciare ad acquisire l’abitudine mentale alla proposta, all’organizzazione e al progetto, di non fermarsi alla semplice protesta del momento. Bisogna abituarsi a pensare che c’è da mettere insieme, in ogni città e paese dell’isola, ogni energia più giovane e viva: combattendo la mafia, fare la Sicilia di domani. Questa guerra sarà ancora molto lunga, ma un giorno finirà: e allora bisognerà ricostruire, nelle coscienze e nelle cose.
Questa lotta, ma più ancora questa ricostruzione civile, per noi hanno un nome, ed è quello di Giuseppe Fava. Non è il nome di un simbolo, ma di un essere umano. Un uomo che ha avuto il coraggio di lottare contro l’ingiustizia e quello, ancor più difficile, di vivere la propria vita giorno per giorno, rispettando l’umanità in sé stesso e negli altri, amandola profondamente nella sua libertà e nella sua completezza. Possano i siciliani ritrovarsi attorno a questo nome, raccoglierne il coraggio e l’allegria, essere degni di esso.
UN UOMO E LA SUA LOTTA
I Siciliani, gennaio 1985
Per noi de "I Siciliani", questo è un numero particolare. Esso esce nel momento in cui finalmente si è cominciato a colpire – non per iniziativa della magistratura locale – il sistema di potere mafioso catanese. Esce a due anni dal "numero uno" del gennaio ’83, che aprì il cammino di cui gli avvenimenti di questi giorni sono una tappa. Esce un anno esatto dopo il 5 gennaio 1984
La mafia sapeva bene, quando uscì questo giornale, dove esso avrebbe portato. Sapeva che se qualcuno avesse cominciato la battaglia sarebbe stato difficile porvi fine. E difatti così è stato. Oggi a Catania i mafiosi cominciano ad andare in galera, la gente ad esprimersi liberamente, e i potenti a tremare.. E non è che un inizio.
Ognuno può facilmente comprendere, adesso, perché la mafia avesse paura di Giuseppe Fava. Il sistema era minato, bastavano poche verità per farlo franare. Ognuno può comprendere, adesso, quanto diversa sarebbe stata la storia della nostra città se Giuseppe Fava avesse trovato, in luogo dell’isolamento e del silenzio, una solidarietà. Un asolidarietà che non c’è stata perché non poteva esserci: e ognuno può comprendere, dopo i verbali torinesi, perché. Ma non importa, Giuseppe Fava ha vinto lo stesso. Da solo.
Solo?
Solo, rispetto ai "colleghi" giornalisti e agli uomini del Palazzo. Non certo rispetto alla gente. Come risuonava chiaro il suo nome, l’altra settimana in via Etnea! I giovani catanesi non s’erano dimenticati di Giuseppe Fava; non avevano paura di gridare a tutti le imprese dei cavalieri e dei loro uomini. C’era un sole gentile, in quella mattinata di dicembre; illuminava allo stesso modo, in piazza del palazzo di giustizia, il corteo dei ragazzi e le severe mura. La gioventù che spera e il privilegio che teme, gli sguardi limpidi e i volti cupi, la libertà di domani e il feroce passato: il nome di Giuseppe Fava divideva irreparabilmente i due mondi.
E quei ragazzi sfilavano allegri, ma egualmente risoluti; con loro, passava certamente l’avvenire. L’avvenire di Giuseppe Fava, dell’uomo che i potenti credevano "solo".
Non basta essere, nella situazione che viviamo, semplicemente un giornale. Bisogna che cento diverse iniziative, liberamente sostenute e liberamente gestite da tutti, convergano su un unico obiettivo: che è quello di liberarci dalla mafia, da tutta la mafia, e di cominciare a costruire una Sicilia più umana.
Il progetto – ma ormai è solida realtà – dell’Associazione "I Siciliani" nasce da questo bisogno: formare dappertutto gruppi di cittadini che, senza distinzioni di parte, contribuiscano a questo obbiettivo con le proprie idee e la propria attività: per lottare contro la mafia, ma anche per costruire il dopo-mafia; per testimoniare un principio, ma anche per affrontare problemi concreti di ogni piccola o grande comunità. Combattendo la mafia, fare la Sicilia di domani. Non solo sequestrare le aziende dei mafiosi, ma darle in gestione ai lavoratori. Non solo stroncare i trafficanti di droga, ma dare ai ragazzi dove passare allegramente il loro tempo libero. E così via.
L’Associazione verrà ufficialmente formalizzata, per mezzo di una serie di assemblee, nelle prossime settimane. Ma in realtà nasce già di fatto – nelle scuole, nei quartieri, nelle università, nelle strade – da tutti coloro che hanno risposto all’appello del cinque gennaio. Appello di solidarietà e di memoria, ma anche già di lotta.
Meglio di ogni lungo discorso, questa circostanza indica con quale spirito nasca l’Associazione "I Siciliani" e quale cammino si prefigga. E’ il cammino iniziato da Giuseppe Fava: ad esso noi chiamiamo tutti i siciliani di buona volontà, in ogni città e paese della Sicilia. Non solo un appello ideale, ma una precisa proposta organizzativa.
Abbiamo dato puntualmente conto ai lettori, durante l’anno che è terminato, dei nostri problemi e delle nostre azioni. Quanto al giornale, i problemi sono i soliti, e non c’è motivo di nasconderli. Ai circa seicento milioni di vecchi debiti, che la legge strappata questa estate basta malamente (o meglio: basterà quando effettivamente verrà eseguita) a coprire, si aggiungono dunque ogni mese milioni di debiti nuovi: Ma, dirà qualcuno, le copie vendute del giornale? Aumentano ogni mese, più che mai. Ma paradossalmente, più se ne vendono, e più cresce il passivo.
Il paradosso, però, è solo apparente: tutti i giornali, infatti, vengono venduti a un prezzo largamente inferiore alle spese di produzione; la differenza viene coperta dalla pubblicità che rappresenta, generalmente, almeno il 55-60 per cento del fatturato complessivo. Noi, non per nostra scelta, praticamente non ne abbiamo e sino ad oggi le uniche entrate del giornale sono venute dalla sua vendita; come ultima carta, siamo a contatto con un’agenzia pubblicitaria, la Sipra, che potrebbe consentirci di superare questo boicottaggio (perché di boicottaggio, purtroppo, si è trattato). Se ce la faremo, avremo risolto il problema; se no, cercheremo di andare avanti come e finché potremo (e già questo numero è a pagine ridotte, e già sarà assai difficile aver carta per febbraio. Certo notizie simili non si usa darle fra parentesi. Ma sono egualmente gravi, per noi e per chi attribuisce qualche importanza all’esistenza di questo giornale).
Del resto, per quanto starà in noi, continueremo a lavorare con il consueto impegno. Molte nuove inchieste giornalistiche sono già in cantiere, e non solo di mafia. Molto più che per il passato, intendiamo impegnarci anche sugli altri aspetti della vita siciliana: la vita nei quartieri e i problemi delle città, la tutela ambientale e l’impegno per la pace, il rifiorire culturale e i nuovi movimenti. Di tutto quell’immenso cantiere che è oggi la Sicilia sommersa – i cortei dei sedicenni e i preti di quartiere, le lotte degli operai e le assemblee delle donne, i paesi contro i missili e i magistrati impegnati – vogliamo essere, ancor più di prima, la puntuale e fedele cronaca, aperta a tutti e ricca dell’apporto di ogni libera voce.
Questo giornale non sarà mai un giornale di Palazzo: non ci riguarda la cronaca dei corridoi del potere; ma quella, ben altrimenti feconda e viva, della nostra vita quotidiana. Nostra, di milioni e milioni di siciliani, che vivono in Sicilia o sono sparsi per il mondo, uomini e donne "comuni", come si suol dire, con le loro quotidiane umanissime vicende che non interessano i giornalisti "ufficiali" ma che il nostro direttore ci ha insegnato a rispettare e a descrivere prima di ogni altra cosa. Di esse noi siamo i cronisti, non dei pettegolezzi dei potenti. Ed è una lunga strada, dai bambini di Palma di Montechiaro a quelli dell’Albergheria e di Monte Po: ma è sempre la strada del nostro direttore, esattamente come quella della denuncia implacabile del potere mafioso di cui questi bambini – allora come oggi – sono le vittime che nessuno difende.
E’ stato un anno lunghissimo, di amara solitudine e di pena. Ma anche un anno di speranza. Siamo stati soli, quanto non credevamo possibile potessero esserlo degli esseri umani; ma siamo stati anche uniti, in una maniera che non si può immaginare, con tanti e tanti altri siciliani come noi. Grazie, Sabina, Fabio, Antonio, Giusi, Massimo, Pinella, grazie a tutti i ragazzi di Catania: siete stati anche voi, nel momento in cui altri facevano terra bruciata attorno a noi, a darci la speranza e la forza di andare avanti., voi per primi.
Grazie ai nostri corrispondenti, ai fotografi, ai disegnatori, a tutti coloro che hanno collaborato a questo giornale. Nessuno di loro ha ricevuto una lira per il proprio lavoro; ed era un lavoro che stava alla pari, almeno, con quello per qualunque grande giornale. Senza di loro, questo giornale non si sarebbe potuto fare.
Grazie ai colleghi famosi, pochi di numero ma non di cuore, che non hanno avuto timore di compromettersi coi Siciliani. Dei tanti loro articoli, quelli pubblicati da noi non hanno portato loro nessun guadagno materiale; eppure essi si sono sentiti ugualmente gratificati. Grazie agli uomini di giustizia, dall’insigne magistrato al brigadiere, che hanno avuto fiducia in noi; non c’è stata notizia, per quanto in loro potere, che non ci abbiano dato, sapendo benissimo perché ed a chi essi la davano. E’ grazie anche a loro, e alle segnalazioni di decine e decine di onesti – e non anonimi cittadini – che abbiamo potuto lavorare come abbiamo lavorato; nessuna notizia è stata pubblicata se non attentamente vagliata; di molte cose ci hanno accusato, ma mai di imprecisione.
Grazie agli amici coraggiosi, che si sono esposti con noi; alcuni da pochi mesi, altri ormai da più anni, con ragionata passione e intelligente entusiasmo lavorano all’opera comune; e sono indispensabili. Formazioni culturali diverse, diverse fedi politiche o nessuna; diversissime esperienze personali; e fra tutti un’idea, combattere la mafia fino in fondo.
Una scarica di mitra può essere il loro premio domani; o la piccola angheria quotidiana, o anche perdere il pane; non aiuta la carriera, dirsi dei Siciliani. Eppure sono qui, ogni giorno più saldi e più decisi, con la ragione e col cuore. Il progetto dell’Associazione è opera loro, e loro la gestione di questo nuovo fronte di lotta. Il giornale è la voce, loro l’organizzazione: l’una e l’altra al servizio non d’un qualunque ristretto obiettivo di parte ma di tutti i siciliani liberi ed onesti. Perché stavolta non si tratta di cambiare in superficie, si tratta di fare una Sicilia ben differente.
Ringraziamo infine i lettori, i nostri amici lettori, che son qualcosa di molto diverso dai lettori di un giornale comune. Chi legge "I Siciliani" non lo fa per ingannare il tempo, la fa per sentirsi ed essere partecipe di qualcosa che vive e può cambiare la sua vita. Pochissimi giornali hanno avuto, nel tempo, una tale fiducia e una tale responsabilità. Noi facciamo il possibile per mostrarcene degni; se non sempre ci riusciamo, non è per difetto di volontà o eccesso di presunzione. Ci siamo trovati a reggere una bandiera molto più grande di noi; ma nessun altro poteva raccoglierla, fuorché noi.
Così, se non ci ha trovati sempre all’altezza del compito, il lettore dia pure la colpa alla nostra inadeguatezza; ma se legge in noi qualcosa di non indegno, dia tutto il merito a chi ci ha insegnato questo mestiere.
Perché di Giuseppe Fava, per quanto di buono esso contiene, è questo nostro lavoro; perché tuttora suo è questo nostro giornale; e più alta di prima, sconfiggendo sicari e mandanti, parla da queste pagine la sua voce.
Certo, ci sarebbero da aggiungere molte cose, qui, su quel che è successo in queste settimane, sui fatti, sulle parole, e sui silenzi. Silenzio sui Cavalieri: citati da Dalla Chiesa quando Santapaola cenava ancora alla Perla Ionica con Graci o con Costanzo (in non miglior compagnia essendo i rimanenti, Rendo e Finocchiaro), questi nomi non sono stati fatti, salvo che da pochi giornali, anche ora che Santapaola latita con altri trecento: perché fare quei nomi voleva dire andare oltre. Silenzio su chi li ha combattuti: perché fare quel nome voleva dire riconoscere che il male avrebbe potuto essere stroncato in tempo. E dunque, rimozione: e questo sarebbe il momento di denunciare questa rimozione, e di combatterla con buoni argomenti.
Ma tutto sommato, non ne vale la pena. Tutto sommato, non vale la pena di spendere grandi parole quando la situazione si è fatta ormai così chiara, che non resta altro che scegliere.
Ed è una scelta semplice: o la Sicilia dei Cavalieri, o la Sicilia di Giuseppe Fava. Tutto il resto son parole.
Oggi, cinque gennaio, saremo in piazza, i siciliani onesti, per ricordare un uomo. Un uomo, e la sua lotta: cos’altro si può dire? Tutti sappiamo di che si tratta. Ritroviamoci dunque tutti insieme; questa sera, e nelle migliaia di giorni che seguiranno. Perché ci saranno ancora migliaia di giorni, migliaia di mattinate a Palazzolo, migliaia di dolci sere a Siracusa, migliaia e migliaia di giorni sulla faccia della terra; e migliaia di speranze, passioni, entusiasmi, delusioni, amicizie, progetti, ed ancora entusiasmi e delusioni, e rinnovate speranze ed amore; e in ciascuna di esse ci sarà qualcosa di Giuseppe Fava, qualche cosa di lui e di tutti gli esseri umani come lui.
E a questo, non potranno sparare.
UN VOLANTINO
dicembre 1984
IN PIAZZA CONTRO LA MAFIA
AL FIANCO DI GIUSEPPE FAVA
Il 5 gennaio i siciliani onesti saranno in piazza a Catania per ricordare un uomo che ha avuto il coraggio della verità e per dire a tutti che la battaglia di Giuseppe Fava continuerà finché la Sicilia non sarà libera dalla mafia.
Nel momento in cui sempre più decisivo si fa lo scontro e sempre più vicina appare la possibilità di colpire non solo gli esecutori, ma le menti politiche e finanziarie – a Palermo come a Catania – della piramide mafiosa, bisogna che la Sicilia di Giuseppe Fava e di tutti gli altri combattenti antimafiosi getti in campo tutta la propria forza, che oggi può essere decisiva.
Bisogna ridare ai cittadini di Catania e di tutta la Sicilia la certezza dei propri diritti, la possibilità di partecipare alle scelte essenziali per il proprio destino, la capacità di progredire verso la soddisfazione dei bisogni fondamentali dei lavoratori, delle donne, dei giovani, di tutti coloro che oggi vogliono realizzare una convivenza sociale pacifica e rispettosa della democrazia politica. Tutte queste esigenze sono oggi profondamente mortificate da un blocco di potere politico-economico, espressione dei grandi gruppi finanziari, de settori dell’apparato statale e del sistema politico dominante, che per connivenze, compiacenze e insipienze si pone come il principale nemico delle giuste aspirazioni del popolo siciliano.
In questo spirito, facciamo appello a tutti i cittadini onesti senza distinzione di parte e a tutte le organizzazioni democratiche e antimafiose, affinché dimostrino con la loro presenza a Catania il 5 gennaio che la lotta di Giuseppe Fava è anche la loro lotta.
L’Associazione "I Siciliani"
UNA LAPIDE
5 gennaio 1985
“Qui è stato ucciso
Giuseppe Fava
La mafia ha colpito chi con coraggio
l’ha combattuta, ne ha denunciato le
connivenze col potere politico ed
economico, si è battuto contro
l’installazione dei missili in Sicilia”
Gli studenti di Catania
ANTIMAFIA, UNA NUOVA FRONTIERA
I Siciliani, 1985
La cosa, a un dipresso, funziona così: dopo essermi fatto i miei bravi miliardi con gli appalti e con l’eroina, io mafioso metto su un’azienda che impiega, poniamo, duecento persone. Tu Stato ti poni il problema di sequestrarmela in base alla legge La Torre. Io rilascio, o faccio rilasciare, un’intervista in cui minaccio di chiudere tutto e mandare tutti a casa. A questo punto tu sei costretto a fermarti e a pensarci su due volte. Difatti, oltre che sull’aiuto dei politici, dei giornalisti e dei magistrati che io pago, io posso contare, contro la Stato, anche sulla solidarietà oggettiva dei miei duecento dipendenti e delle loro duecento famiglie. Il gioco è facile: appena uno dei miei magistrati mi avverte che tira brutta aria, io ordino ai miei giornalisti di scatenare una campagna "per la Sicilia diffamata" e ai miei amici politici di "difendere l’economia siciliana". Così potrò continuare tranquillamente a sfruttare i miei duecento operai (che i miei amici non mancheranno di dissuadere energicamente, per esempio, dall’iscriversi alla Cgil), a spacciar droga ai miei duecentomila ragazzini e a mantenere la popolazione delle mie tre regioni – Campania, Calabria e Sicilia – esattamente ai tre ultimi posti dell’economia nazionale.
Diversamente andrebbero le cose se, il giorno dopo l’uscita della mia intervista, ai cancelli della mia azienda si presentassero il signor sindaco o il signor prefetto, con tanto di fascia tricolore e di decreto di requisizione, e, convocato il consiglio di fabbrica, comunicassero che dalle ore tali del giorno tale, la gestione dell’azienda risulterebbe affidata all’organo da esso designato. In questo deplorevole caso, non solo mi sarebbe impossibile usare ancora il ricatto della disoccupazione, ma sarei costretto a mettere una certa distanza fra me e i miei stessi operai, liberi finalmente di esprimere apertamente la loro personale opinione sugl’imprenditori mafiosi, e su chi li protegge.
Quando si comincerà effettivamente ad applicare la legge La Torre in Sicilia? Sappiamo che buona parte degli enti pubblici che hanno avuto a che fare con la legge hanno fatto il possibile per sabotarla; fino a questo momento, del resto, l’utilizzazione concreta della La Torre è stata abbastanza episodica, legata più alla buona volontà di magistrati locali che a un piano organico e coordinato.
Si sono avuti casi, al confine fra l’insipienza e ilsabotaggio, che fanno chiedere in quali mani sia andata a finire, a livello amministrativo, l’applicazione quotidiana della legge. Senza riandare alle circolari interpretative, in qualche caso scandalose, a suo tempo emanate dai vari ministeri e dai vari assessorati, basti pensare che forniture di macchine da scrivere, per una ventina di milioni, effettuate dalla Olivetti di Ivrea a un ente pubblico siciliano sono state bloccate in attesa che si stabilisse se la Olivetti di Ivrea è una azienda mafiosa o meno.
Peggio ancora, si può dare benissimo il caso – e in effetti non è detto che non si sia dato – di una cooperativa agricola, composta da un duecento contadini, che abbia bisogno di un mutuo regionale l’acquisto di un trattore che venga invitata a presentare – a spese della cooperativa – duecento certificati per attestare come nessuno dei duecento soci abbia mai avuto a che fare con la mafia. E mentre i duecento contadini, maledicendo la legge antimafia e chi l’ha inventata, aspettano il loro trattore, i finanzieri mafiosi continueranno tranquillamente, in assenza di un’applicazione efficiente e rapida della legge La Torre, a spostare i loro capitali da una banca all’altra: a tutt’oggi, non esiste una banca dati computerizzata, a disposizione della magistratura, in grado di seguire i movimenti dei capitali sospetti che la legge La Torre dovrebbe, in teoria, controllare.
Quando poi, grazie all’eccezionale impegno del magistrato e, diciamolo pure, a un bel po’ di fortuna (perché ci vuole anche fortuna per riuscire a concludere qualcosa con i mezzi che hanno a disposizione i magistrati siciliani) si riesce a mettere sotto sequestro un’azienda mafiosa, si verificano situazioni paradossali, come nel caso di un’azienda agricola – di rispettabili proporzioni – dei boss mafiosi Greco che, posta sotto sequestro, non si sa bene a chi affidare per la custodia giudiziaria che, in questo caso, equivale ad una vera e propria, sia pur provvisoria gestione. Non è facile trovare, infatti, un professionista del ramo che abbia il coraggio di intromettersi in un affare dei Greco; d’altra parte, a questo professionista, non si può dare altra remunerazione che le poche migliaia di lire giornaliere previste dalla legge per i custodi giudiziari.
In queste condizioni, può benissimo andare a finire, e non si vede logicamente perché non dovrebbe, che un’azienda del valore di decine di miliardi venga, in mancanza di meglio, affidata alla stessa custodia dei due o tre motorini sequestrati dal pretore, il giorno prima, per eccessiva rumorosità…
Tutto questo, mentre lo scontro fra le forze antimafiose e quelle schierate – nella politica, nelle istituzioni, nella stessa magistratura, nella stampa – a difesa degl’interessi mafiosi non solo non è ancora deciso, ma tende a radicalizzarsi: a parte l’eliminazione fisica degli operatori del diritto più esposti, una vera e propria campagna d’opinione viene periodicamente sollevata da ambienti ben determinati, con mezzi notevolissimi e precise scelte di tempo, per isolare i magistrati leali.
Nonostante tutto questo, la posizione della struttura mafiosa è intrinsecamente, rispetto ai movimenti sociali emergenti, molto meno forte di quanto non possa sembrare. Nel giro di non più di uno o due anni – la campagna contro la magistratura antimafiosa è finora infatti sostanzialmente fallita – le condizioni per una reale gestione della legge molto probabilmente ci saranno, e a quel punto il problema non sarà più solo di contrastare i sabotaggi "di principio" di questo o di quel pubblico ufficio, ma di riuscire ad utilizzare fino in fondo tutte le potenzialità della legge.
Viviamo in una regione che è leader mondiale della produzione di eroina, esattamente come gli Stati Uniti lo sono per le automobili o il Giappone per l’elettronica. Questo dato elementare, prima ancora di ogni indagine a carattere penale, ci fa dire che l’economia regionale è "mafiosa": non nel senso che tutte le sue componenti, o la maggior parte di esse, siano legate alla mafia, ma nel senso che ciascuna di esse opera in un mercato in cui i capitali più numerosi e più agili vengono, ragionevolmente, dal settore leader – per avventura, illegale… – dell’economia locale. Non tutti gli industriali piemontesi sono azionisti della Fiat, ma è indubbio che il sistema economico di quella regione sia basato sulla Fiat. Da noi, anziché la Fiat, c’è la mafia.
Il problema non è dunque solo giuridico – individuare le responsabilità personali nei singoli episodi criminosi – ma anche e soprattutto economico e, in senso lato, politico; esso consiste nel riconvertire l’economia siciliana dalle attuali strutture segnate da questa accumulazione originaria ad altre legate a forme di accumulazione e a settori produttivi legali (ovviamente, si tratta di "riconvertire" anche le sovrastrutture politiche che su un tale sistema economico si sono sviluppate… ). Un’impresa di queste dimensioni non può essere improvvisata sotto la pressione delle circostanze; dev’essere programmata nel lungo periodo, preparando per tempo gli strumenti necessari e programmando la loro efficacia non solo sui casi singoli ma sul complesso del sistema.
In questa situazione, il problema della gestione delle strutture economiche – sempre più, presumibilmente numerose e sempre più complesse – che si riuscirà, mediante la legge penale, a sottrarre al controllo della mafia sarà non soltanto importante, ma decisivo: sarà l’unica maniera per giungere non solo a una sconfitta "militare" della mafia, ma allo sradicamento dalle sue basi economiche e quindi politiche nel Paese.
Quale gestione? Non tocca a noi proporre le scelte tecniche da adottare: nelle sedi competenti sarà indubbiamente possibile individuare quelle più efficienti sul piano gestionale e più garantite sul piano istituzionale. Due punti ci sembrano tuttavia, indipendentemente da ogni questione tecnica, da sottolineare.
In primo luogo, la gestione delle imprese di grosse dimensioni sequestrate ai mafiosi dovrà avere, per sua natura, un carattere di emergenza, e non potrà quindi essere assorbita dagli attuali carrozzoni "di risanamento" più o meno assistenziali (non prendiamo nemmeno in considerazione l’idea di un intervento degli assessorati regionali). Si potrebbe pensare piuttosto, per esempio, a qualcosa come un secondo commissariato, parallelo a quello per il coordinamento della lotta antimafia; o, comunque, ad un organo straordinario e dipendente dal governo centrale.
In secondo luogo, la gestione dovrebbe essere in ogni caso coordinata, e se possibile direttamente affidata, con gli organismi rappresentativi aziendali esistenti, o da istituire, nelle aziende in questione. Ciò al duplice scopo di coinvolgere concretamente il più gran numero possibile di lavoratori nel cuore della lotta antimafiosa e di formare progressivamente, a partire dal mondo del lavoro, una nuova classe dirigente siciliana, in possesso di precise competenze tecniche, di ampi poteri decisionali e di una ideologia collettiva indissolubilmente legata alla lotta antimafiosa.
Saranno questi gli uomini che potranno dare una base di massa alla lotta contro la mafia, coloro che realmente la vinceranno; a noi – magistrati, giornalisti, funzionari fedeli, politici d’opposizione – che cerchiamo di fare il nostro dovere qui ed ora tocca semplicemente di tenere le posizioni fino a quel momento. Come altre volte nella storia, una minoranza risoluta non può rovesciare l’oppressione; ma può preparare le condizioni perché siano le masse a farlo.
Ci piacerebbe se, su questa proposta, altri siciliani volessero intervenire. Una proposta "giacobina"? Forse. Ma è che la rivoluzione francese, in Sicilia, non l’abbiamo mai fatta; e il risultato si vede. Sarebbe ora di cominciare a pensarci.
SICILIANI/GIOVANI
settembre 1984
Siciliani/giovani ha una "politica" molto semplice e chiara, e cioè: primo, schierarsi apertamente contro la mafia; secondo, affrontare liberamente tutti i problemi dei giovani: Quanto alla politica ufficiale, quella dei partiti, non siamo né favorevoli né contrari. Semplicemente, non è il nostro campo; chi vuole affrontarlo, può farlo a titolo personale (del resto ci sembra che in questo momento la lotta alla mafia e per una migliore condizione di vita dei giovani siano la cosa fondamentale, senza la quale tutto il resto è poesia.
Ma allora a che serve Siciliani/giovani?
A dare la parola alla gente, a fare parlare i ragazzi in prima persona, direttamente e senza bisogno di nessuno. E quindi a farli contare nella società. Noi non siamo qualunquisti, non diciamo che tutto è uguale e che non vale la pena di far niente. Però non siamo nemmeno ideologici, vogliamo imparare dalla realtà e dalla gente e non dai professionisti della politica.
In tutto questo cosa c’entrano "I Siciliani"?
"I Siciliani" da soli possono riuscire a denunciare la mafia, ma non a creare una mentalità antimafiosa. Non si tratta solo di distruggere la mafia, ma anche di costruire qualcos’altro. Questo qualcos’altro non lo possiamo inventare a freddo, ma deve venire dalla gente, e specialmente dai giovani, liberamente e senza prediche inutili. Si tratta di sviluppare al massimo grado la creatività di ciascuno, perché ciascuno è in grado di contribuire e d’altra parte nessuno oggi è in grado di costruire qualcosa di buono da solo. Si tratta in sostanza di capire come si può fare a vivere meglio, non nelle grandi teorie, ma nella realtà di ogni giorno.
Ma questo è un giornale o un’organizzazione?
Non lo sappiamo ancora, probabilmente può diventare l’uno e l’altra. Ma attenzione: un giornale di tipo nuovo, e cioè assolutamente libero e fatto dalla base; e un’organizzazione di tipo nuovo, senza ideologie fisse e soprattutto senza professionisti, ideologie e leaderini. Un’organizzazione tutta da inventare.
E come si può fare a mettere in piedi questa organizzazione?
Non ne abbiamo la più pallida idea. A questo dobbiamo pensarci tutti, strada facendo. Finora abbiamo i gruppi di lavoro su argomenti concreti e il collegamento fra gente di varie scuole. Questo non è venuto fuori perché qualcuno l’ha detto, ma semplicemente perché erano il modo più semplice di affrontare le cose da fare. Anche quando si tratterà di organizzarsi in maniera più ampia, bisognerà continuare a seguire questo metodo, e cioé: prima i problemi concreti: a secondo dei problemi, il tipo di organizzazione, senza troppe teorie.
Si è parlato pure di manifestazioni.
Una manifestazione seria si potrebbe fare, in tutta la Sicilia, per il cinque gennaio: purché non sia una semplice manifestazione ma un modo di ricordare a tutti "tutti" i nostri problemi, da quelli della mafia a quelli della vita quotidiana. Ma anche in questo caso, andiamoci per gradi: prima bisogna che si sia d’accordo tutti e che si discuta fra tutti per tutto il tempo che ci vuole. Non bisogna imporre mai niente "dall’alto" a nessuno.
Ma come facciamo a essere certi di non venire strumentalizzati?
Per quanto riguarda noi Siciliani, non abbiamo interessi elettorali, quindi il problema si pone solo fino a un certo punto. Quello che vogliamo fare lo diciamo apertamente e chiaramente, e non crediamo che possa far paura a nessuno che abbia un minimo di buonsenso. La parola "Siciliani" appartiene a tutti, comunque la pensino su tutto il resto, purché siano d’accordo che bisogna eliminare la mafia. "Siciliani" non è un generale che comanda, è semplicemente una bandiera. Dove portarla, dipende da tutti noi.
E gli altri?
Per gli altri, non possiamo farci niente. Ognuno ha il diritto di parlare, e noi non possiamo censurare nessuno. Sta a noi ragionarci sopra, scegliere fra le varie proposte e, in caso di contrasti, decidere in assemblea. C’è solo da ricordarci che, in ogni caso, le cose importanti non sono le grandi parole ma i fatti concreti, anche se si notano poco.
UN VOLANTINO
1985
NOI E "LORO"
C’è un sacco di gente a cui non sta affatto bene che i ragazzi siciliani stiano allegri, si divertano e cerchino di riprendersi in mano la propria vita. Proviamo a fare qualche nome:
– i mafiosi come Santapaola, Ferlito e Ferrera, che "mantengono l’ordine" (assieme ai vari colonnelli Licata) nei quartieri, ammazzando chi si ribella o si fanno i miliardi con l’eroina;
– i politicanti come Aleppo e Drago, che da un alto danno i contributi ai mafiosi e dall’altro dicono che "la mafia non esiste";
– i padroni come Rendo, Graci, Costanzo o Finocchiaro, che licenziano gli operai, vanno a braccetto con i mafiosi e poi si incazzano se qualcuno gli chiede da dove vengono tutti quei soldi;
– i giornali come "La Sicilia", che fanno casino quando trovano un ragazzo con un po’ di fumo, ma di fronte a mafiosi e cavalieri se ne stanno zitti.
La mafia non danneggia le persone importanti, ma va avanti sulla pelle di tutti noi. Allora, ricordiamo quelli che hanno avuto il coraggio di lottare contro la mafia, appoggiamo quelli che continuano a lottare ancora ma, soprattutto, organizziamoci nella nostra vita quotidianamente per non subire prepotenze da nessuno e per vivere come desideriamo noi, non come vogliono gli altri.
E per cominciare, fra un mese tutti in piazza per il centro giovanile autogestito.
Siciliani/Giovani
APPUNTI PER SICILIANI/GIOVANI
promemoria interno, 1985
Intanto, sta succedendo qualcosa. Che cosa esattamente, è ancora presto per dirlo, e probabilmente non ha nemmeno tanta importanza. Di certo c’è che dopo tanti anni è finita l’epoca del "riflusso" (farsi i cazzi propri e non pensare al resto) e che molti ragazzi, adesso, ricominciano a prender gusto a fare le cose insieme, piccole o grandi che siano.
Tutto questo, naturalmente, per i moderati vuol dire "vogliamo studiare e non fare politica", per il Pci "le masse giovanili bla bla", per gli autonomi "la rivoluzione bla bla bla", e così via. Per me vuol dire semplicemente che i giovani, o almeno una buona parte di loro, stanno ricominciando a pensare con la propria testa e a fare esperienze. Dove andrà a finire tutto questo non lo so; l’importante, è starci dentro con fiducia e senza ideologie preconcette.
"Un altro sessantotto"? No, e nemmeno "un’altra qualsiasi cosa": il bello del sessantotto, ai suoi tempi, era proprio che era una cosa nuova, non una ripetizione di altri tempi. E così, se il movimento di adesso durerà, sarà "questo" movimento, del 1985, non un revival del passato. Poi, fra vent’anni, magari gli daranno un nome.
I ragazzi di Milano o quelli dei Segnali d’Accelerazione di Napoli hanno con la "politica" un rapporto, a quel che se ne può capire, molto maturo. Non sono qualunquisti, ma neppure vanno dietro ai partiti: "moderati" o "estremisti" a secondo dei casi, non fanatici, difficili da strumentalizzare; in questo, assomigliano molto a Siciliani/giovani nell’84.
Non stanno partendo, del resto, dalla "grande politica" ma dai problemi concreti della vita quotidiana: credo che, via via che il movimento andrà avanti, i "problemi concreti" si allargheranno (studiare con meno tasse, ma poi dove fare musica, e poi dove passare il tempo, e dove fare l’amore, e dove lavorare senza raccomandazioni…), e spero che stavolta si riuscirà ad allargarli senza finire in ideologismi vari.
Ma la novità più grossa, rispetto ai vecchi temi, è che stavolta il movimento si è visto prima in Sicilia e poi a Milano. Nell’82 sono cominciati i cortei antimafia nelle scuole di Palermo. Nell’83 la lista di base allo Spedalieri. Nel gennaio 84 le assemblee per Giuseppe Fava. Nel maggio il corteo antimafia a Roma. In autunno Sicliani/giovani a Catania, e poi la manifestazione del 14 dicembre e quella del 5 gennaio. All’inizio dell’85 le manifestazioni studentesche contro la mafia a Milano, sulla scia di quelle siciliane. E solo adesso, a Milano e poi in altre città del Centro-nord, il movimento è partito su altri temi.
L’impressione è quella di una grande voglia di contare che cresce un po’ dappertutto a poco a poco, e che viene alla luce prima nei luoghi in cui i problemi sono più gravi e si vive peggio – in Sicilia – e poi negli altri. In Sicilia, cioè, siamo stati costretti ad affrontare prima dei problemi più grossi.
C’è questo filo fra ciò che sta succedendo a Milano e il nostro movimento dell’anno scorso, e noi Siciliani abbiamo quindi ancora molte cose da dire, a noi stessi e agli altri. E possiamo avere fiducia nella continuità del movimento in Sicilia, anche se ora sembra addormentato.
Dell’"addormentato", del resto, la responsabilità è soprattutto nostra. Se si ferma la Fgci si fermeranno i simpatizzanti comunisti, se si fermano gli autonomi quelli "estremisti". Ma se ci fermiamo noi, il guaio è più grosso, perché noi siamo gli unici che possono farsi sentire (non essendo un partito) da tutti gli studenti.
Noi abbiamo cominciato con molti fatti (14 dicembre e 5 gennaio) e poche parole. poi, pochi fatti e poche parole. Ora, niente fatti e poche parole.
In realtà, noi abbiamo fatto dei grossi passi avanti nei settori, come il giornale, che richiedono poche persone "specializzate". Siamo invece rimasti indietro nelle cose in cui è necessario coinvolgere molti: sei mesi fa aprivamo nuove sedi, eravamo presenti dappertutto ed intervenivamo su ogni cosa. Adesso abbiamo perso quasi completamente il contatto con i ragazzi delle scuole (quelli che ci sono, evidentemente, non trovano spazio da noi perché partecipano poco) e abbiamo perso la nostra componente "estremista", che era pure importante.
Intanto, bisogna intervenire subito nella scuola a partire dal fatto che c’è aria di movimento. A questo punto, dobbiamo intervenire non tanto sulla questione delle tasse scolastiche, quanto su un allargamento del dibattito. Come al solito, per fortuna, non abbiamo ricette miracolose da proporre: possiamo però segnalare quello che succede, dare voce, fare circolare le idee, segnalare i problemi concreti della nostra vita. E poi aspettare con pazienza.
Come primissima cosa, ci vuole un bel volantino. Non tanto per il volantino in se stesso, quanto per riabituare la gente a vederci in giro, e soprattutto per riabituare noi stessi a farci vedere in giro, che è il nostro compito principale.
Poi, possiamo metterci in contatto direttamente coi ragazzi di Milano – presso Radio Popolare – e di Napoli – Segnali d’accelerazione, Coordinamento antimafia – e vedere cos’hanno da dirci; proporre uno scambio di idee, ed eventualmente delle iniziative parallele, a una stessa scadenza. Rispetto a queste realtà "lontane", noi abbiamo più difficoltà di collegamento immediato rispetto ai partiti politici, perché ci mancano gli strumenti tecnici che essi hanno; però, una volta che il collegamento sia stato stabilito, abbiamo una credibilità molto maggiore, proprio perché noi non siamo un partito politico ma un’espressione di base. Rispetto a Milano, a Napoli e a qualunque altra situazione possiamo e dobbiamo presentarci senza timidezze, per imparare qualcosa da loro ma anche per insegnare la nostra esperienza, che non è da sottovalutare.
Più in generale, dobbiamo finalmente abituarci a parlare con tutti senza timidezze e ritrosie. Secondo me è sbagliato non intervenire – per esempio – alla festa dell’Unità per paura di "fare politica". In realtà noi, concretamente, abbiamo fatto e facciamo molta più "politica" (nel senso migliore della parola) dei partiti tradizionali: abbiamo perciò il diritto, e forse anche il dovere, di dire quello che sappiamo e che abbiamo sperimentato senza timori di "strumentalizzazioni" e senza complessi di inferiorità nei riguardi di nessuno.
Sia per la questione del movimento (volantini ecc.) che per il giornale e il resto, dobbiamo fare delle scelte organizzative semplici e precise, senza le quali non andremo molto lontano.
In primo, luogo è assurdo continuare a organizzarci come se un liceale di diciassette anni e un universitario di ventitrè fossero la stessa cosa. A partire da ora, i ragazzi delle scuole che fanno parte di Siciliani/giovani debbono cominciare ad organizzarsi da soli gli interventi sulle varie scuole e decidere autonomamente le cose da fare; magari faranno degli errori qua e là, ma almeno non saranno più a rimorchio dei "grandi"; e certamente, con la loro spontaneità, avranno anche qualcosa da insegnare a tutti gli altri. Questo vuol dire che i "ragazzini" faranno la loro riunione a parte, ogni settimana (naturalmente continueranno a partecipare anche all’assemblea generale): se lo vorranno, si faranno aiutare anche da qualcun altro, ma sotto la loro responsabilità.
In secondo luogo, abbiamo perso buona parte dei contatti che avevamo costruito in Sicilia (e che erano uno dei nostri maggiori successi). Dobbiamo prendere sistematicamente l’abitudine, quando facciamo una cosa, di fare un giro di telefonate fuori Catania per comunicarla e invitare a generalizzare le iniziative anche in altre città.
A Palermo, in particolare, c’è un gruppo di Siciliani/giovani agguerrito ed efficiente, sotto alcuni aspetti più avanti di noi; eppure, a parte il giornale, non siamo mai riusciti a farci un’iniziativa in comune. A partire dal prossimo volantino, bisogna intervenire contemporaneamente nelle due città, tenendosi in contatto quotidiano per telefono e delegando una persona a questo specifico compito.
Sui centri giovanili abbiamo fatto moltissime parole e ben pochi fatti. "Fatti" può voler dire: affittare un locale; utilizzare una piazza; fare occupazioni simboliche alla palermitana. Ciascuna di queste soluzioni ha i suoi pro e i suoi contro, ma il fatto è che noi in realtà non ne abbiamo sperimentato nessuna.
A questo punto, proporrei di organizzarci su un’ipotesi precisa:
organizzare per il 10-15 dicembre, una seconda festa di Siciliani/giovani ma stavolta in un locale utilizzabile come centro giovanile, in modo da dare un esempio concreto di come il centro potrebbe funzionare. Fare un piccolo passo, farlo!
Ammettiamo, per esempio, che decidiamo di fare la festa alle ciminiere. In questo caso:
– per prima cosa, convochiamo una riunione di tutti i gruppi interessati sul tema preciso "come passare tre giorni alle ciminiere";
– dopo fare domanda al comune; se il comune l’accetta, bene; se non l’accetta saremo sempre in tempo a cambiare obiettivo, ma almeno avremo impostato un dibattito e avremo cominciato a lavorare con altri su un obiettivo preciso e non su un’idea in generale.
Come dovrebbe essere la festa? Intanto, dovrebbe essere organizzata come la precedente, ma meglio. Finanziamento con le sponsorizzazioni; gruppi musicali meglio scelti; presentazione seria (possibile Minà); panineria; interventi nostri meglio preparati.
In secondo luogo, non dovrebbe essere solo la nostra festa, ma dovremmo organizzarla fin dal primo momento insieme con la Comunità S. Pietro e Paolo (ed eventualmente altri "non partitici").
Infine, non dovrebbe essere solo una festa. Tre giorni di musica, ma attorno alla musica cinque o sei attività da centro giovanile, scelte in base alla partecipazione della gente fra quelle che abbiamo elencate nel paginone di giugno. Spazi e angoli per attività specifiche, angoli di ritrovo, e così via. Far vedere insomma come potrebbe essere concretamente un centro giovanile a Catania. Meglio tre giorni di centro giovanile "vero" che tre mesi di mini-centro in un appartamento, in una piazza o in un pertuso.
Se avremo un minimo di abilità, e riusciremo a collegare la propaganda per la festa e il centro con quella per il movimento (tasse e dibattito su Milano, ecc.), i partecipanti all’iniziativa, fin dal momento organizzativo, potrebbero essere molti: a condizione, al solito, di non mettersi a fare ideologia.
A proposito di ideologia: io credo che un minimo di "ideologia" di Siciliani/giovani (quella che ci distingue da ogni altro gruppo organizzato) esista. Ed è la lotta alla mafia. Lotta alla mafia non vuol dire solo lotta alla delinquenza, che è la parte meno profonda di essa. Vuol dire lotta a una situazione in cui la Sicilia non parla di mafia, la Regione dà i soldi ai mafiosi, l’onorevole dice che la mafia non esiste, i cavalieri vengono protetti dalle autorità, e così via. Magari è una cosa banale, che abbiamo detto tante volte (e su cui è nato Siciliani/giovani). Ma è bene ripeterla, anche perché negli ultimi tempi, sia per I Siciliani che per Siciliani/giovani, queste cose si sono sentite un po’ meno del solito. Ora, è vero che "la lotta alla mafia non basta", che bisogna fare proteste concrete in positivo; ma senza lotta al potere mafioso tutto il resto è poesia. Se fossimo in Polonia, noi diremmo "vogliamo vivere meglio, ma prima via i russi"; se fossimo in Cile "vogliamo vivere meglio, ma via la dittatura". In Sicilia la mafia ha colpito più che in Polonia e più che in Cile. "Vogliamo vivere meglio, ma via i mafiosi e tutto il loro potere!".
Questo non dobbiamo dimenticarlo mai. Non dobbiamo far finta di essere in una situazione "normale", perché la mafia è ancora là, e uccide e comanda: e se non la combattiamo noi che siamo I Siciliani (e Siciliani/giovani dovrebbe essere la punta avanzata dei Siciliani), non si vede chi dovrebbe farlo.
Sia quando facciamo volantini che quando organizziamo una festa, perciò, noi dobbiamo sapere – e dobbiamo dire! – che stiamo facendo questo in questa situazione. Non credo che questo spaventerà la gente. Noi il 14 dicembre e il 5 gennaio siamo stati molto "estremisti" in questo senso, eppure la gente è venuta, molto più di quando ci siamo "moderati". Questo ci dovrebbe far riflettere. Non abbassiamo mai la nostra bandiera, perché ci sono molti che credono in essa, anche se non si vedono: e senza di loro resteremmo davvero soli.
Potremmo prendere in considerazione l’idea di fare una manifestazione (ma di tipo nuovo, come quella che voleva fare Antonio Scuderi in primavera) in coincidenza con la prima giornata della festa; in ogni caso, dobbiamo cominciare a prepararci alla manifestazione del cinque gennaio, per la parte che ci riguarda. L’anno scorso, il cinque gennaio noi non ci siamo limitati a "commemorare", ma abbiamo portato avanti delle proposte precise: per esempio, "via i cavalieri". Siciliani/giovani è stata la prima organizzazione ad avere il coraggio di attaccare pubblicamente i quattro cavalieri).
Quest’anno, io penso che "via i cavalieri" – che bisogna ripetere – non basta più: il cinque gennaio potrà essere anche una giornata di proposte sui nostri problemi; sarebbe bello, nel corteo, dare un volantino (o addirittura un giornale) che faccia una serie di proposte precise sui centri giovanili, sulle scuole, sulla vita quotidiana e così via. Naturalmente, non devono essere le proposte di una o dieci persone: debbono essere il frutto di un dibattito con molti giovani, che bisogna cominciare a lanciare nelle scuole di Catania.
Questo dibattito, l’intervento nelle scuole, la festa, le eventuali manifestazioni non sono tante cose separate. Sono tanti modi di esplorare la stessa realtà, e vanno tenute in contatto fra loro, e in contatto ancora più stretto col nostro giornale.
Il giornale è molto cambiato, in bene e in male, rispetto ai primi numeri. In male, vale quello che sappiamo per la parte organizzativa di Siciliani/giovani: collabora meno gente "qualunque", ed è molto minore il legame con i ragazzi delle scuole; è inutile ripetere tutto quello che s’è detto sopra, basta dire che questa situazione può essere superata abbandonando le timidezze e la paura di "fare movimento" e tornando allo spirito d’iniziativa che avevamo una volta.
Di buono, c’è che ora il giornale può contare su un nucleo redazionale abbastanza consapevole, con un minimo di serietà e su qualche idea chiara su come si fa un giornale. Possiamo cioè dire che adesso esiste una redazione di Siciliani/giovani. Questa può essere una forza, se riusciremo a "usare" la redazione senza separarla dal movimento; se invece la redazione del giornale sarà l’unico aspetto di Siciliani/giovani, avremo fatto tanto lavoro solo per formare alcuni giornalisti, il che sarebbe davvero triste. Si tratta dunque – non è una novità, ma è lo stesso fondamentale, non solo per Siciliani/giovani – di unire intelligentemente professionalità e "dilettantismo".
La redazione potrebbe essere composta – questa è soltanto una proposta, ma dobbiamo cominciare a discutere anche sui nomi – dalle seguenti persone:
Gianfranco Faillaci, Salvo Ferrara, Edoardo Frivitera, Ester Saitta, Piero Cimaglia, Massimo Arcidiacono, Rosalba Cannavò, Dante Cristina, Renata Grillo, Fabio D’Urso, Antonella Mascali. Questo è un elenco minimo di nomi, che può senz’altro essere completato con l’aggiunta di chi intende far parte della redazione; ma ai suoi componenti si richiedono delle cose precise: la presenza in sede o fuori almeno tre giorni alla settimana, in giorni e orari precisi, a turno; la partecipazione al lavoro redazionale collettivo, in stretto contatto con i responsabili di turno e comunque in stato di reperibilità; la disponibilità a svolgere gli incarichi redazionali che via via saranno assegnati (servizi, inchieste, giri di cronaca, ecc.). Ad essi, va aggiunto almeno Nuccio Fazio, come fotografo.
La redazione deve organizzarsi in maniera autonoma, nella seguente maniera:
– due responsabili, a turno, per la durata di un mese, che coordino (sempre sotto l’approvazione dell’assemblea) il numero in corso e ne rispondano;
– un redattore che coordini le lettere e le storie di vita (la quarta pagina);
– un redattore che si occupi di sollecitare e ricevere i pezzi da fuori catania, e che si tenga in contatto con la redazione palermitana;
– tre redattori che, a turno, si occupino di leggere i giornali cittadini, segnalare i fatti di cronaca più utilizzabili e andarli ad approfondire, tenere il contatto con le fonti d’informazione;
– un redattore che si occupi di seguire le notizie della scuola;
– un redattore che si occupi di seguire le notizie dall’università;
– dei redattori che lavorino su settori particolari, come musica e sport.
Come avevamo stabilito in precedenza, l’organizzazione del giornale dev’essere il più possibile democratica. Non potremo ricominciare a votare i singoli pezzi, ma su richiesta anche di uno solo dei componenti dei Siciliani/giovani l’assemblea potrà intervenire per eliminare un pezzo e suggerirne un altro; l’assemblea continuerà ad aver luogo ogni venerdì pomeriggio, e continuerà ad avere potere decisionale nei confronti del giornale e del resto. E’ importante però cominciare a lavorare sulla base di incarichi precisi, in modo che ognuno possa occuparsi bene di un settore preciso.
In generale, la ripartizione del giornale potrebbe essere così organizzata:
– prima pagina, i pezzi più importanti (con giro in ultima);
– pagina due, cronaca (relativamente a problemi giovanili);
– pagina tre, musica, sport e altri settori specifici (pagina due può "invadere" parte di pagine tre, e viceversa);
– pagina quattro, storie di vita e rubriche.
I pezzi da fuori Catania andrebbero ripartiti fra le pagine esattamente come quelli catanesi.
Il "servizio" (di due cartelle, massimo tre) dev’essere la struttura portante del giornale. Tre servizi bastano a fare l’ossatura di un numero, se sono completi e interessanti. Il tema di un servizio dev’essere il più possibile mirato: più è specifico l’argomento e più è interessante; più persone, storie, interviste ci sono dentro e più è leggibile.
E’ inutile fare qui un elenco degli argomenti su cui si può fare un servizio. La cronaca, la lotta alla mafia, i movimenti giovanili, lo sport, la musica, il corpo, la vita quotidiana possono essere altrettanti settori generali all’interno dei quali cercare spunti da approfondire. E’ importante invece imparare a sviluppare un’idea. Fino a questo momento, abbiamo curato poco il momento dell’intuizione, l’abbiamo trattato in modo approssimativo e disordinato; adesso dobbiamo cercare di analizzare sistematicamente il processo da formazione delle idee.
All’inizio c’è l’idea!, e può averla chiunque, in tante forme diverse. "La Plaja è un posto poco sicuro", "come si fa a diventare giornalisti?", "chi è il padrone della centrale del latte?", ecc.
Da questa prima intuizione, bisogna passare alla fase successiva, che non è ancora il pezzo, ma il "promemoria" (8-10 righe) sul contenuto del pezzo. Infine, il pezzo vero e proprio.
Un buon metodo di lavoro, quando qualcuno ha un’idea, anche strampalata, è di appuntarla immediatamente su un pezzo di carta, così come viene, e poi di arricchirla di qualche particolare, senza approfondirla troppo, in modo da avere un primo promemoria. Poi vedere cosa c’è da fare (interviste, notizie, ecc.) per mettere in pratica il promemoria, e solo alla fine cominciare a scrivere il pezzo.
Quanto al pezzo, la prima stesura dev’essere il più possibile spontanea, libera; nella rilettura bisognerà invece limare, tagliare, e rimontare tutto in modo da avere un inizio vivace e non lasciare che l’attenzione del lettore si addormenti.
Dopo i servizi vengono i materiali da fuori redazione: corrispondenti, notizie dalle scuole, collaboratori saltuari. Questo materiale (per lo più brevi pezzi) dovrà essere riveduto con molta attenzione, possibilmente dalla stessa persona, in modo da comporre tanti frammenti omogenei fra loro.
In particolare, le storie di vita dovrebbero rappresentare (molto più che sull’ultimo numero) un carattere tipico del nostro giornale. La storia di vita può essere scritta da chiunque; se si riesce a pubblicarla mantenendone il carattere di spontaneità, dà un tono vivace al giornale, corregge l’eventuale eccesso di "serietà" dei servizi e soprattutto evita che il giornale sia fatto solo dai soliti redattori. Specialmente per i ragazzi più giovani, è un inizio fondamentale; difficilmente avremmo potuto sviluppare una redazione se non avessimo cominciato con questo tipo di scrittura, alla portata di tutti e tale quindi da creare fiducia in chi scrive e da costituire un primo tipo d’esperienza.
Infine, le rubriche. Possono essere spazi "tecnici" (mercatino, salute, ecc.) o contenitori più ampi (spazio donna, se riusciremo a farlo), ma in ogni caso rappresentano un appuntamento che contribuisce a mantenere il lettore legato al giornale.
Non è il caso di dilungarsi oltre sull’organizzazione del giornale di cui avremo modi di parlare quotidianamente nella pratica. Vorrei insistere però sul fatto che questa redazione, oltre che ben organizzata, dev’essere aperta, cioè portavoce di tutti coloro che nella redazione non ci sono; e che questo giornale, oltre che un buon giornale, dev’essere un giornale in movimento, cioè espressione di ciò che succede fra la gente e degli obiettivi e delle speranze di coloro che vogliono migliorare la vita: a partire, naturalmente, dai Siciliani/giovani e dalle loro iniziative.
Un buon giornale, delle idee per un movimento, delle iniziative concrete e rivolte a tutti, un collegamento con quelli che ci assomigliano nelle altre città, una denuncia continua (e non noiosa) del potere mafioso, una buona organizzazione generale: se riusciamo a tenerci su questi binari, in quindici faremo un ottimo lavoro e nei vari momenti riusciremo a mobilitare molte più persone. Se ci baseremo soprattutto sulla fantasia e sull’inventiva, sulle idee nuove e non sui regolamenti, sull’ottimismo creativo e non sulla difensiva, riusciremo senz’altro a fare qualcosa che duri.
Il giornale – come la cooperativa che dobbiamo costituire al più presto e come tutte le altre forme organizzative – dev’essere insomma uno strumento per fare delle cose, e non una gabbia per dividerci quelli che sono fuori.
4 CHIACCHIERE SU...
promemoria interno per SicilianiGiovani, 1985
La maggioranza del corteo è meridionale? Se è così, vuol dire che è abbastanza realistico pensare che il movimento è cominciato in Sicilia (perché proprio in Sicilia? Riflettere…) e che evidentemente nei cortei dell’83-84 non c’era solo un "contro-la-mafia" ma anche un "per-qualcosa" da identificare. Ovviamente non sappiamo ancora (lo ripeterò fino alla nausea) che cosa, e del resto non tocca solo a noi scoprirlo. Però, anche a noi. (Parentesi: in ogni caso, è provato che i giovani meridionali sono disponibili a ragionare (di mafia, e poi di tasse, e poi della qualunque) se solo si rispettano i loro tempi e gli si da fiducia).
Contemporaneamente (inchiesta Amnesty Int.) pare che a Catania il 50% dei giovanissimi sia per la pena di morte. Inciviltà e immaturità "politica"? Eppure, sono gli stessi che fanno i cortei: a quanto pare, si può essere "maturi" su alcuni temi, e "immaturi" su altri. Domanda numero uno: continuerà così in eterno, e prima o poi i livelli di coscienza si unificheranno? Domanda numero due: che facciamo se diciamo che siamo contro la pena di morte e loro non ci battono le mani?
(Parentesi. Ci sono due modi di strumentalizzare un movimento. Uno: "evviva, evviva, è il sessantotto". Due: "meno male, non è il sessantotto").
La soluzione ideale è, banalmente, di ragionare con la propria testa fottendosene del sessantotto-non sessantotto. In realtà questo è il 68 (o l’89, o il 71 – in cui è nato Fabio – o una qualsiasi altra data "storica") se vuol dire che è un anno di cambiamento. Non è il 68 (o il 78 o il 128 o un qualunque altro modello fuori produzione) se vuol dire fare il remake di un film già visto, e dare potere a chiunque non sia il movimento di ora.
(Parentesi. Ragionare con la propria testa non è semplice. Però non c’è altra via. Farsi domande, non dare nulla per scontato, e soprattutto le cose "normali". "E’ normale" vuol dire "Sono pigro". Pensare come se il mondo cominciasse ora. In realtà, comincia ora).
Un buon obiettivo, in generale, sarebbe l’unità. Fra chi la pensa in un modo e chi in un altro (e chi pensa di non pensare). Fra i problemi grossi e quelli piccoli. Fra quello che siamo e quello che che possiamo essere. Fra quelli come noi e quelli no. Fra quelli con cui stiamo bene e quelli con cui litighiamo. Ogni unità in meno indebolisce tutti. Noi non siamo completi. Nessuno, da solo, lo è.
E’ stata una giornata violenta, il 16 dicembre? Violentissima, a Roma e altrove. A Roma, c’era un giudice che doveva stare lì per forza, sennò gli ammazzavano la figlia. A Napoli, una tizia è stata costretta a prostituirsi per avere un po’ di droga. A Catania, un’impiegata è stata costretta a dire cose che non pensava, per evitare il licenziamento. A Treviso, una ragazzina ha avuto problemi per il suo ragazzo, perché era meridionale: a Canicattì, un’altra, perché "faceva la bottana". A Perugia, un ragazzo è stato costretto a passare il pomeriggio da solo, in quanto omosessuale; a Bagheria, un padre di famiglia è stato costretto a comportarsi da vigliacco davanti a tutti, tacendo alcune cose che sapeva. A Catanzaro, un brillante matematico è stato costretto a fare il manovale, perché a tredici anni doveva lavorare. A… Ma tutto questo è successo anche ieri e l’altro ieri e succederà domani. Come si suol dire è "normale". E – "normalmente" – non è violenza…
In tutti questi casi, la polizia non interviene, i giornali non parlano, non si formano movimenti. E’ "ingenuo" chiedersi perché? E’ "inutile"? E in questo momento, leggendo queste cose, state perdendo tempo rispetto al vostro lavoro? E, infine: ce la fate a leggere una cosa in cui ci sono tutti questi punti interrogativi? Vi sareste sentiti più tranquilli con un po’ più di punti esclamativi? (e fra parentesi: e fra noi, c’è violenza? Ne siete proprio sicuri? Che rapporto c’è fra la violenza in noi e quella fuori?). E infine: siete già stanchi di porvi – e farvi porre – domande?
Attenzione: Forse tutto questo è politica…
APPUNTI
gennaio 1986
Cercare di capire che cosa è successo in questi due anni. Non ho le idee chiare su tutto, ma non credo che questo sia un male. Abbiamo bisogno d’individuare delle tendenze, non d’inventarci un’analisi globale che probabilmente, in questo periodo, finirebbe per essere più una palla al piede che uno strumento di lavoro. Le cose vanno troppo in fretta per poterle fotografare davvero.
Si tratta dunque d’individuare rozzamente dei primi dati, e di svilupparli in continuazione, via via che l’esperienza procede; senza pretendere di ricavarne una "linea", ma piuttosto delle direzioni di ricerca. Questa ricerca, che è uno dei compiti fondamentali di questi anni, non può essere, per sua natura, che collettiva. Ma se all’interno di essa dovessi sintetizzare un contributo personale, potrebbe essere il seguente: non aver paura delle "cose strane" – cercarne le radici – fare politica su di esse.
La lotta alla mafia, infatti, o è politica o è polizia. O riesce a liberare qualcosa che ne superi i confini, o prima o poi rifluisce in una generica richiesta di "ordine pubblico". Da Santapaola si può arrivare, nella testa della gente, tanto agli scippatori quanto ai ministri; quello che non si può fare è fermarsi a Santapaola.
Per questo, più che di "lotta alla mafia", noi abbiamo sempre parlato di "lotta al potere mafioso"; e abbiamo introdotto concetti e parole (gli "antimafiosi") che vanno ben al di là del puro significato tecnico per suggerire qualcosa di più ampio e radicale. La parola "antifascista", a suo tempo, indicava di più che la generica opposizione a un regime; solo più tardi, debitamente castrata, è entrata nell’inoffensivo vocabolario di Palazzo.
Non credo che, per quel che s’è visto in questi anni, ci sia da farsi molte illusioni sull’"impegno delle istituzioni" contro il potere mafioso. Ma anche se un impegno ci fosse, le dimensioni della posta in gioco sarebbero comunque tali da sfuggire completamente a ogni possibilità d’incasellarle nell’ordinaria amministrazione degli equilibri politici. Esse hanno bisogno, per essere affrontate (o anche solo percepite), di un vero e proprio movimento popolare. Che si presenterà – se si presenterà – in modo "strano" senza bandiere, molto prima nelle coscienze che nelle piazze; e non avrà una risolutiva "ora X" ma una lenta e inframezzata costruzione.
Questo non vuol dire, naturalmente, che sia inutile il lavoro "diplomatico" nelle istituzioni. Ma è un lavoro, per l’appunto, diplomatico, complementare. Il lavoro reale sta altrove.
A questi criteri ho cercato, finché ho potuto di attenermi in questi anni; ritenendo che le alternative "realistiche" (concentrarsi sul giornale; puntare sui rapporti con le istituzioni "buone"; "non siamo più nel sessantotto"; insomma "l’uovo oggi e non la gallina domani") fossero più rassicuranti, più semplici, ma anche più profondamente illusorie. E che convenisse dunque – usando i rapporti istituzionali per tappare alla meglio i buchi – guardare in faccia la realtà e mirare alto, considerando la nostra esperienza e il nostro modo di pensare e la lotta antimafiosa e le stesse prospettive di vita del nostro giornale indissolubilmente legate allo sviluppo del movimento sociale e culturale che, secondo me, va annunciandosi in questi anni. Certo, potrebbe essere un’utopia. Ma io credo ancora di no.
C’è una quantità di domande a cui non è stata data, fino a questo momento, una risposta. E neanch’io presumo di darla, da solo, ma voglio almeno pormi le domande.
Perché i movimenti antimafiosi, nei loro momenti più alti, sono stati così "popolari"? Perché la gente – tanta gente, in certi momenti la maggioranza – ha dato così tanta importanza alla "questione morale"? Perché il caso Pertini? Perché la gente comune si allontana (tesseramento alla mano) dal Pci ma si ritrova come non mai nella storia attorno ai funerali di Berlinguer? Che cosa viene percepito, in un caso del genere, dell’uomo politico Berlinguer? Cosa viene percepito politicamente voglio dire? Perché gli studenti cominciano a muoversi in Sicilia due anni prima che nel resto del paese? Perché le posizioni "estreme" vengono isolate nel caso della scala mobile ma seguite nel caso della lotta alla mafia o della questione morale? Perché adesso "salgono" Bobbio e Ingrao e "scendono" Natta o Lama?
Il movimento antimafioso: come mai sono riusciti a convivervi tranquillamente, nei momenti alti, un’anima di "conservazione" ed una "rivoluzionaria"? Cosa esattamente la gente teme della mafia? Perché non tutti hanno un figlio tossicodipendente, e non tutti hanno molto interesse a come vengono spesi i soldi degli appalti…
E ancora: cosa spera la gente dalla vittoria dell’antimafia? Mandare i colpevoli in galera non è mai stato un obiettivo di alcuna lotta popolare, in Italia: ma si tratta solo di questo?
E la gente che ha partecipato al movimento antimafia nelle varie grandi e piccole occasioni, perché mai ha partecipato? Per quale motivo comune, intendo? Perché gente diversissima, quanto a composizione e a radici culturali; eppure, in certi istanti, s’è incontrata. Solo emozione? O che altro?
L’autonomo e il "moderato" sono tornati a litigare nei momenti bassi, di riflusso. Ma prima stavano insieme. Come mai? E, più curioso di tutto: che strane caratteristiche possono aver avuto in comune i "militanti" di questa strana lotta – il professore di paese, il cattolico e quello che sottoscrive l’azione – per impegnarsi, per qualche mese, a far delle cose insieme? Sempre e solo "emozione", è la risposta ufficiale.
Ma io credo che ci sia qualcosa di più. Troppi di questi episodi, individuali e collettivi, sono inspiegabili se non si pensa a qualcosa di più profondo. Qualcosa che viene da molto lontano, con radici molto antiche nel sentimento comune. In particolare, in Sicilia.
Qui, per la prima volta, è stato messo in discussione il potere. Perché è come potere incontrollato, prima ancora che come "violazione delle leggi" che la gente comune qui percepisce i Cavalieri. Ed è stato messo in discussione esattamente là dove esso è più potente, dove maggiormente pesa sulla vita quotidiana della gente, e dove più radicale e liberatorio potrebbe essere il suo rovesciamento. Fuori della Sicilia questo significa che per alcuni momenti la Sicilia è stata (se potrà tornare ad esserlo in futuro) l’avanguardia o quantomeno la prima linea di una lotta che appartiene a tutti; altro che "problemi del mezzogiorno" e "questione meridionale"! In Sicilia, la percezione della questione è stata ancora più istintivamente, e commoventemente, profonda: in alcuni momenti e luoghi la parola "Siciliani" ha coinciso, senz’altre mediazioni, con la parola speranza.
Ognuno di noi ha ormai l’esperienza del primo impatto con l’assemblea di una scuola, o d’un piccolo paese; e può agevolmente constatare come questo impatto sia più carico di aspettative e di richieste, più "caldo" esattamente nei paesi, nei luoghi e nei gruppi sociali in cui più forte e radicata era la memoria di una qualche passata lotta e solidarietà civile. Ma se ognuno di noi potesse avere anche l’esperienza umana di una qualunque di quelle sconfitte e dimenticate lotte nei paesini della Sicilia, di tutte quelle speranze via via sgretolate ogni volta, di generazione in generazione, ostinatamente e faticosamente ricostruite, potrebbe avere il senso delle radici profonde della "simpatia" verso i Siciliani, della solidarietà di tanta gente comune non dico a quella che facciamo, ma certo a quel che in qualche modo rappresentiamo. E potrebbe rendersi conto fino in fondo della responsabilità di dover gestire tutto questo.
MILLE EDITORI PER I SICILIANI
novembre 1985
C’è Antonella che è dovuta andar via – scopo sopravvivenza – da Comiso, la cerchi ora e "lei adesso lavora in Lombardia". Anche Antonella deve campare, per questo se ne è dovuta andare a fare la maestra su al nord. Come Fabio che era l’unico qui che riusciva a fare un pezzo sui punk, come Francesco che faceva il sindacalista al paese, come Stefano che era uno dei ragazzi della radio al quartiere… Mica facile restare al sud.
Poi c’è il professor Lomonaco, preside di scuola media, che ha una vera scuola in pieno ghetto di Catania. C’è Gaetano Giardina, del Consiglio di fabbrica dei Cantieri, che organizza gli scioperi contro la mafia nella città dei Salvo. C’è l’ingegner Scuderi, che fa ricerca in aerodinamica all’università di Palermo. Ci sono i liceali di Catania, che come movimento studentesco hanno dato dei punti a Bologna. Ci sono cooperative e gruppi ecologici, ci sono artisti e scrittori. Ci sono questi siciliani, e molti altri come loro.
Essi, oggi come oggi, non contano. Non contano in Sicilia, e non contano fuori. Troppo seri, per fare i siciliani. E’ più semplice, per il vecchio Palazzo, avere a che fare coi Lima. Ma se avessero una voce? Se potessero discutere organizzarsi, confrontarsi, mettere insieme qualcosa? Se potessero scoprire di essere loro, in realtà, la vera classe dirigente degli anni a venire? Se, anziché carne da fabbrica senza difesa, il treno del Sole cominciasse a riversare sul Paese idee vive, progetti, una nuova ragione?
A questo vogliamo che serva, partendo da questa Sicilia, questo nostro giornale. E’ un progetto molto ambizioso, culturalmente e materialmente. Portarlo avanti da soli, non servirebbe. Per questo, dev’essere da subito un progetto collettivo: a cominciare dall’assetto proprietario del giornale.
Il "padrone" de "I Siciliani" a questo punto non può essere un editore come gli altri. Neanche più, come finora, la nostra cooperativa di tipografi e redattori. Il ruolo storico di questo giornale, giunti a questa svolta, è ben più grande di noi; non abbiamo il diritto di chiuderlo in noi soli. Editori de "I Siciliani", nel senso letterale della parola, debbono essere tutti i siciliani impegnati, tutti coloro che credono in ciò per cui lavoriamo.
Un editore collettivo composto da tanti cittadini proprietari di questo giornale e di quest’idea; un capitale messo limpidamente insieme lira su lira, con tanti diversi contributi; un’impresa cui possa partecipare chiunque se la sente, ma su cui non possa speculare nessuno. E’ una sfida contro i monopolisti editoriali, contro i "comprati e venduti": ma è anche una precisa chiamata in causa che noi in questo momento rivolgiamo ai nostri lettori. Non bastano più solidarietà e simpatia: ognuno deve e può prendersi una piccola ma concreta responsabilità. Noi facciamo la nostra parte; ma tu che leggi devi fare la tua.
La forma che i nostri legali hanno studiato per l’assetto proprietario del giornale dà a ciascuno, adesso, la possibilità di assumersi questa responsabilità secondo le proprie – piccole o grandi – disponibilità. L’operaio, l’intellettuale, lo studente può diventare azionista, a tutti gli effetti legali, con centomila lire; il consiglio di fabbrica, il circolo culturale, la scuola può assumersi cinque, dieci, venti azioni; altre possono prenderne il piccolo industriale, il commerciante, la cooperativa. Crediamo che per tutti – particolarmente per coloro che già sono impegnati sul terreno del rinnovamento civile – ci sia la necessità morale non solo di aderire all’impresa, ma di farsene apertamente e attivisticamente promotori.
Nessuna scadenza "politica" e civile, in questo fine anno siciliano, è infatti più importante di questa. Non il tentativo malcerto d’un pugno di intellettuali, ma il cantiere in cui si fonda lo strumento della nuova cultura siciliana e meridionale. Nessuno può mancare.
Questo giornale continuerà come e più ancora che in passato a far guerra alla mafia e ai poteri occulti, in tutti i modi. La politica mafiosa, l’imprenditoria mafiosa, le forme culturali mafiose – la mafia come potere – continueranno ad essere al centro del nostro lavoro. Nel momento in cui il riflusso (non della gente comune, ma di classi dirigenti e istituzioni) manda a casa i giudici onesti e copre i miliardi dei mafiosi, noi continuiamo semplicemente a fare il nostro mestiere, che è quello di informare la gente su quel che succede. In una regione in cui i grandi mezzi di informazione informano solo quando e quanto conviene, potremo sembrare troppo intransigenti e – ci dicono – "eccessivi": ma qui d’eccessivo c’è soltanto la realtà.
Ma i movimenti antimafiosi di questi anni (perché di movimenti s’è trattato, com buona pace dei politologhi) non sono stati soltanto contro la mafia, ma anche – confusamente – per qualcosa di nuovo, che ancora non si riesce esattamente a definire, ma che ha già una sua vitalità. Qualcosa che si muove nell’anima della Sicilia profonda.
C’è una nuova generazione di Siciliani, cresciuta negli anni di piombo. Non li incontri solo nei cortei contro la mafia, ma anche e soprattutto nelle mille occasioni della vita quotidiana: nelle scuole, nei luoghi di lavoro, nei laboratori di ricerca, nelle università, negli ospedali. Anni difficili li hanno formati. Hanno imparato a diffidare delle parole e a esaminare irriverentemente i fatti. Vogliono sapere cosa succede nei quartieri e nella società, perché è così indietro la ricerca scientifica e così avanti l’emarginazione, chi minaccia la tutela ambientale e come la si può migliorare, di che cosa si discute realmente nei vari ambiti, chi c’è nella cultura europea e cosa si può fare per la pace. Forse non hanno ancora molte risposte da dare, ma sanno già porsi le domande. Vogliono essere informati, non imboniti di parole. Noi lavoriamo con loro.
Noi abbiamo fede in questa generazione. Siciliana, e conseguentemente europea. "Siciliana" a Palermo e Catania, ma anche – in un certo senso – a Napoli o a Bologna o alla periferia di Milano. La parola Sicilia, in questi anni, indica ben più che una terra. Primi nella barbarie, lo siamo altrettanto nella lotta: siciliani gli imprenditori Salvo e i Greco, ma siciliani i Pio La Torre e i Chinnici. Da qui la mafia può conquistare il Paese, ma qui può nascere per tutti una nuova coscienza civile. Nel bene e nel male, mai più saremo un’isola.
Abbiamo dunque il diritto di mantenere, nel momento in cui ci espandiamo ben oltre i limiti regionali, il nostro vecchio nome di Siciliani. Sicilia come Sud, Sicilia come luogo in cui si stronca per sempre la mafia o la si lascia dilagare in tutta Italia, Sicilia come laboratorio in cui oggi o si risolvono o si affossano definitivamente tutti i grandi problemi, le passioni e le speranze non solo di noi siciliani ma dell’intera Nazione.
Cercheremo quindi di esprimere con l’esperienza di quattro anni di mensile "I Siciliani" ma con la puntualità e la completezza che ora ci consente il passaggio al settimanale, tutto l’arco dei temi che insieme formano la nostra vita di questi anni. Le cronache gli avvenimenti, la vita quotidiana nelle città e nei paesi, l’economia, la politica, il costume, gli sport, la cultura, gli spettacoli, il tempo libero, la natura: nulla sarà trascurato, ogni aspetto della realtà avrà su queste pagine la sua fedele cronaca e la sua testimonianza. E la sua umanità. Noi non scriviamo sul meridione del colonialismo culturale di chi calato qui da tre giorni già presume di insegnarci cos’è il Sud. Noi scriviamo dal Sud. Condividendone le pene e le passioni, pagandone il prezzo se occorre. La Sicilia di domani sarà come noi tutti la costruiremo già oggi, nel vivo della lotta contro il potere mafioso. Non ci basta una Sicilia senza mafia, vogliamo una Sicilia che sorrida, una Sicilia giovane, europea. Per questo non saremo neutrali.
Questi sono gli obiettivi, e siamo sicuri che lavorando tutti insieme li raggiungeremo. Noi abbiamo fiducia nei Siciliani. Vogliamo esprimerla con le parole di chi ha dato loro questo giornale, Giuseppe Fava.
"Dal fondo della sua antica, riconosciuta infelicità viene avanti, lottando ogni giorno ed ognuno lottando per suo conto. Tutti i suoi ideali, l’odio e l’amore, la pietà e la vendetta, sono ancora intatti e spesso ancora confusi e terribili, ma tutti insieme formano una grande anima. E non c’è prezzo di violenza o di dolore ch’essa non sia disposta a pagare, pur di conquistare la sua dignità.
In verità non c’è in tutta Europa un popolo così orgoglioso e infelice, come quello siciliano, che faccia tanto male a se stesso, ma non c’è nemmeno un popolo che abbia tanta devozione alla sua terra, e che abbia altrettanto coraggio di lottare per l’esistenza, tanta violenza, tanto amore per la vita".
UN VOLANTINO
1986
PERCHE’ NON VOGLIAMO VIVERE CON LA MAFIA
Siamo qui perché non crediamo in questa Sicilia di mafia e di raccomandazioni, la Sicilia dei cavalieri del lavoro e dei politici corrotti. Per noi giovani questa Sicilia significa il ricatto del posto di lavoro, oggi sempre più pesante, la mancanza di spazi dove vederci e dove comunicare e conoscere le nostre iniziative musicali, teatrali, culturali.
Opporsi diventa essenziale. Bisogna costruire qualcosa di diverso. Creare nuovi posti di lavoro con i beni sequestrati ai mafiosi in base alla legge La Torre e con i 12.000 miliardi di "residui passivi" attualmente inutilizzati nelle casse della regione siciliana; creare degli spazi e dei luoghi d’incontro liberamente gestiti dai giovani.
Giuseppe Fava è stato ucciso da chi non vuole cambiare la realtà, per dominarla col suo potere mafioso, con i soldi accumulati illegalmente, e manipolando l’informazione. Giuseppe Fava è stato ucciso, ma noi siamo qui per fare pesare la sua assenza e perché domani sia come se lui fosse ancora vivo. Perché come lui ce ne siano altri mille. E a tutti, non potranno sparare.
Siciliani/Giovani
GLI ANNI DI GIUSEPPE FAVA
1986
Catania, un anno dopo l’effetto Dalla Chiesa, è ancora una città militarmente occupata dalla mafia. Esaurita la guerra fra i Santapaola-Ferrera e i Ferlito, esecuzioni sommaria (sovente precedute da tortura) e sparizioni provvedono a ripristinare il "rispetto" fra la miserabile malavita dei ghetti. La situazione politica, dopo la buriana provocata dall’intervento di Dalla Chiesa sull’assessore Ferlito (parente del boss assassinato nel giugno dell’82 sulla circonvallazione di Palermo), torna a stabilizzarsi attorno ai vecchi assi del potere, basati essenzialmente sull’equilibrio fra i notabili storici alla Drago e i giovani "emergenti" alla Andò; pochissimi gli amministratori esenti da comunicazioni giudiziarie, ma assoluta fluidità – nonostante questo, e forse proprio per questo – del meccanismo politico-clientelare.
Quanto agli imprenditori (i quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa di Fava) a suo tempo indicati dal generale come fruitori "del consenso della mafia", mostrano – adesso – un’immagine d’ostentata sicurezza. Nessuno fa più il loro nome in pubblico, e non solamente a Catania; accordi intercorsi con alcuni gruppi editoriali assicurano loro l’amicizia non solo di una parte della stampa isolana ma anche di quella nazionale.
Il fronte dei cavalieri è ben lontano, in questa fase, dall’essere omogeneo, ma non esiste ancora, tuttavia, alcuna forza che abbia la capacità, o anche soltanto l’intenzione, di puntare su queste divisioni per approfondirne i contenuti e fare politica su di esse. Sui cavalieri, dunque, si è ridisteso il silenzio: l’ordine regna a Catania.
Eppure, qualcosa si muove. A livello istituzionale, intanto, il dopo Dalla Chiesa non è passato invano. Carabinieri e Guardia di finanza, in particolare, passano sotto nuovi comandi; in prefettura, Abatelli lascia il posto ad un "settentrionale"; gli ufficiali e i funzionari che negli anni passati sono stati di fatto emarginati nell’ordinaria amministrazione e cominciano a non sentirsi più isolato. Alcune indagini, sia pure messe in moto da Palermo o da Roma, cominciano a lasciare il segno: Santapaola continua a restar latitante, ma in autunno un’operazione combinata di carabinieri e Finanza scompagina la "famiglia" Ferrera, il nucleo storico della mafia catanese; si riesce a far mettere sotto sequestro i beni della "famiglia" Santapaola (saranno peraltro dissequestrati a dicembre).
Questi primi timidi segni di disgelo nelle istituzioni incoraggiano, o almeno non frenano come per l’addietro, ciò che – in maniera ancora confusa e occasionale – s’agita nella coscienza cittadina. Catania non è città mafiosa. L’immagine tradizionale che i catanesi hanno di se stessi è quella di una città convulsa, senza grandi ideali, probabilmente cinica – ma non violenta. Ancora nella metà degli anni settanta, la criminalità locale ha i connotati culturali della malavita, non della mafia; catanesi sono tradizionalmente i grandi truffatori e falsari, non i killer; sbarcano sigarette, non eroina.
Con l’effetto Dalla Chiesa il catanese medio scopre improvvisamente la realtà; la droga, la mafia, l’imprenditoria mafiosa. E’ una realtà difficile da accettare, che suscita nell’immediato un sentimento d’incredulità, poi di rimozione: su di esso, non a caso, cercheranno esplicitamente di far leva (campagne "per Catania diffamata", per "gli imprenditori che danno lavoro") le forze di fiancheggiamento del potere mafioso. Il fondo della cultura catanese è tutto sommato sano, non inquinato come altrove da quarant’anni di dominazione (non solo "militare") mafiosa. La gente, qui, prova ancora disagio a convivere con una simile realtà; la rimuove, ma non l’accetta; ed è ancora disponibile, se gliene si offre la possibilità, a discutere, a ragionare, a non rifiutare eventualmente la mobilitazione. Ed è proprio qui che s’innesta il lavoro, e la funzione, di Giuseppe Fava.
Intellettuale di estrazione popolare (padre maestro, nonno contadino) Fava è tutto fuorché un uomo di potere, di qualunque potere. Provocatorio, guascone, all’occorrenza sfrontato; non privo – a conoscerlo – d’una sua antica, e assai siciliana, riflessività; profondamente "romantico" ma nello stesso tempo "impegnato", come nessun altro in quel momento, a Catania.
Nell’autunno del 1983 Fava non è un isolato. E’ riuscito a concludere tutto sommato vittoriosamente l’esperienza del "Giornale del sud", il quotidiano alternativo (poi riassorbito dall’editoria costituita) del 1980-81, a uscirne, con un profondo gesto di rottura; a "usare" l’esperimento del quotidiano, e la stessa sua traumatica conclusione, per consolidare un primo nucleo di giornalisti veri e una prima consistente fascia di opinione pubblica disponibile. E questo in una situazione in cui la stampa "ufficiale" tace sistematicamente, per esempio, o altrettanto sistematicamente sottostima tutte le notizie relative all’attività dei clan mafiosi. E’ riuscito a imporre, al centro del dibattito culturale cittadino, il suo ennesimo lavoro teatrale di denuncia, l’"Ultima violenza" (forse la più plastica rappresentazione esistente della mafia metropolitana); è riuscito soprattutto a lanciare e consolidare fra mille difficoltà il suo primo strumento veramente collettivo, quello su cui ha saputo coagulare non solo una generica opinione "antimafiosa", ma il preciso impegno militante di un gruppo di giovani giornalisti, la rivista "I Siciliani".
Osteggiata in tutti i modi dai poteri costituiti (l’ente regionale preposto concede un prestito: ma in tempi tali da renderlo, oggettivamente un sabotaggio) il mensile si impone intanto, grazie alla solida professionalità di Fava, come un prodotto editorialmente valido, difficile da emarginare, non velleitario. I contenuti vanno dall’inchiesta di mafia a quella sulla vita quotidiana, dal servizio su "i cavalieri di Catania e la mafia" a quello su "le donne siciliane e l’amore", in una miscela originalissima di "popolarità" e militanza. Convergono tutti, in sostanza, verso una sorta di nuovo sicilianismo, nettamente democratico e progressista, e sicuramente europeo: per qualche verso analogo – nella diversità di tempi e situazioni – al rivoluzionario e antifascista "sardismo" di Lussu; e con un’attenzione al privato e ai movimenti profondi del sociale, con un colore caldo (ma tuttavia "illuministico") della scrittura che ricordano, ma con più popolari radici, certo "giornalismo" pasoliniano.
Nell’autunno 1983, I Siciliani sono già una forza che aggrega, e che disturba. Un dibattito "politico" ampio e articolato viene aperto, per la prima volta, fra le componenti della sinistra già schierate (e per molti versi ancora legate ad antichi limiti di diffidenza e di minoritarismo) e quelle ancora in formazione; denunce specifiche e puntuali vengono portate avanti, senza cercare lo scoop ma elaborando sistematicamente i dati esistenti, sui punti nodali del sistema di potere politico-finanziario della mafia. L’esigenza d’una iniziativa della magistratura per far luce, coi poteri conferiti dalla legge La Torre, all’interno delle banche siciliane "pubbliche" e private; le inchieste sul (malcerto) funzionamento di parte del Palazzo catanese e la difesa a oltranza, corrispettivamente, dei magistrati impegnati contro la mafia; l’indicazione, inoppugnabilmente documentata, delle agevolazioni finanziarie concesse dai politici ai mafiosi; l’appassionata rivendicazione del diritto alla pace cioè- nel momento in cui Comiso diventa obiettivo, e strumento d’olocausto – del diritto alla vita; i resoconti periodicamente aggiornati, senza iattanza e senza timore, sui Santapaola, sui Greco, sui Salvo, sui Costanzo, sui Rendo: su tutto ciò Fava riesce a rendere omogenei, nella Sicilia degli anni ottanta, una dozzina di giornalisti ed alcune decine di migliaia di lettori.
E’ ancora presto per valutare esattamente il peso che ha avuto, nell’evoluzione della società siciliana e catanese in particolare, questo punto di riferimento "improvvisamente" (ma in realtà portato dall’evoluzione degli eventi: nulla viene mai a caso, e nemmeno gli uomini) apparso sulla scena. Fra il novembre e il dicembre del 1983, comunque, i primi contatti con altri settori del movimento democratico – cooperative, sindacati – assicurano ormai alla rivista una ragionevole certezza di continuità. Esattamente nello stesso periodo gli assetti istituzionali, a Catania e fuori, attraversano il loro momento di maggiore instabilità. A metà dicembre, per esempio, un intervento pubblico e pubblicizzato dal potere esecutivo mette – di fatto – in condizioni insostenibili il magistrato che, da Trento, aveva fatto maggiori progressi nell’indagine sulle connessioni fra mafia e potere. Altri segnali, minori, concordano.
E’ indubbio che al di là delle specifiche tematiche di volta in volta agitate dalla rivista di Fava (alcune molto e immediatamente incisive: per esempio tutte quelle in qualche modo connesse con i controlli bancari), ciò che, nella situazione di instabilità che il potere mafioso attraversa in questi mesi, non si può ulteriormente tollerare è la stessa esistenza della rivista I Siciliani, il punto di riferimento che essa già rappresentava e quello che potrebbe maggiormente rappresentare in futuro. A differenza di tanti sedicenti esperti di politica e di istituzioni, la mafia è in grado – non per la prima volta – d’individuare un obiettivo storico, di percepire con lucidità l’immediata rilevanza – e, per essa, pericolosità – di una mobilitazione per intanto poco più che potenziale, ma fra non molto inarrestabile. Non è da escludere che, in tale percezione, non siano mancati suggerimenti e segnali d’allarme anche da ambienti non propriamente – non esplicitamente – mafiosi. Come sarebbe stato possibile imporre una gestione di comodo a un assessorato o a un pubblico ufficio sapendo che una tale gestione sarebbe stato sottoposta, e non episodicamente, al controllo dell’opinione? Come sarebbe stato possibile salvare la libertà del capitalismo "selvaggio" di fronte a una magistratura solerte, in possesso di strumenti appropriati, e continuamente pungolata da libere voci? Come sarebbe stato possibile continuare a controllare lo stesso braccio "militare" dell’Organizzazione, se non si fosse stati in grado di garantirgli, oltre che l’impunità, anche il silenzio-stampa? Infine: rassegnarsi ad avere a Catania una sentinella e un nemico come – all’altro capo dell’isola, e per la vecchia mafia – fu il giornale l’Ora, e per decine di anni; o attaccare il male alla radice, prevenire il nemico, stroncare il movimento antimafioso prima che possa condensarsi attorno ad una bandiera?
Unico errore di valutazione: i tempi. Alla fine dell’83, il processo era ormai troppo avviato. Uccidere un uomo sarebbe servito a qualcosa nell’80, nell’81, forse ancora nell’82. Ma dall’autunno di Dalla Chiesa la coscienza popolare era oramai in crescita: non le era più indispensabile un uomo, o un gruppo di uomini. Come certi fiumi sotterranei che risgorgano molto lontano da dove li hai veduti immergersi, e son sempre gli stessi: così quei visi di studenti siciliani, quelli dei primi timidi temerari cortei dell’ottobre ’82, li rivedremo improvvisamente a Catania il 6 gennaio 1984. Esattamente gli stessi, ma con più coraggio e più forza, e più speranza di vincere, perché un anno, in certe confluenze della storia, non va via invano. Ma questo, loro, non potevano saperlo.
Aveva conosciuto, anche quel giorno, delle persone nuove ed aveva parlato con loro, imparandone qualcosa, probabilmente, ed insegnando loro qualcosa. La giornata era stata impiegata prevalentemente con sindaci di paese e con distratti assessori; qualcuno di loro, forse, avrebbe magnanimamente acconsentito a contrattare qualche centinaio di migliaia di lire di pubblicità – di quei pochi denari viveva l’impresa che faceva tremare la mafia. Lascia il giornale, quella sera, su una vecchia automobile prestata: perché la sua era davvero oramai troppo logora. Giuseppe Fava, scrittore, di cinquantanove anni compiuti, figlio di maestri di scuola e nipote di contadini, muore per il suo paese alle ore 22,20 del 5 gennaio 1984.
IL VATE E IL POTERE
Società Civile, 1987
Lasciamo perdere la letteratura, e vediamo i fatti.
Borsellino. Sciascia mette sotto accusa la nomina del giudice Borsellino a Marsala perchè non ha abbastanza scatti di anzianità. In provincia di Trapani, negli ultimi tempi, sono emerse le piste più interessanti sui concreti rapporti fra mafia e politica: una loggia massonica di tipo piduista e una banca coi dirigenti mafiosi. Il trapanese è un crocevia importantissimo per gli equilibri mafiosi di alto livello; forse il più importante. Catanesi e palermitani vi operano con tutti i loro mezzi, tanto militari quanto finanziari. L’ultimo "professionista dell’antimafia" che ha cercato di Indagarci è stato il giudice carlo Palermo; minacciato, bombardato e infine costretto – non innocente il governo – a cambiare praticamente mestiere. Ora tocca a Borsellino. Del quale, dice Sciascia "nel momento in cui ho scritto nulla sapevo".
Orlando. Non si tratta di generiche polemiche sul nongoverno. In questo momento, in Sicilia, il gioco politico è incontestabilemente nelle mani dell’onorevole Salvo Lima. Ha vinto le elezioni, sfrutta le fortune di Andreotti, è fortissimo nel partito. Adesso, nel momento in cui il Pci siciliano è allo sbando, scavalca tutti e propone alla Dc un’apertura ai comunisti. Il nome di Lima, come Sciascia sa, ricorre qualche decina di volte nei verbali dell’antimafia; adesso è quello del nuovo candidato alla guida del "rinnovamento" cattolico. Unico ingranaggio incompatibile, in questo meccanismo, è il sindaco Orlando: isolato, sotto tiro, scomodo per tutti, è nondimeno il segno di qualche cosa; bisogna passare su di lui prima di dar corso ufficiale alla restaurazione. E Sciascia individua in Orlando, qui e ora, il politico da contrastare. E’ suo diritto, naturalmente; e anche di Lima, del resto; ognuno fa politica come può. Che "Sciascia non fa politica, d’altra parte, è un mito da sfatare. Adesso, per esempio, Sciascia fa sapere di avere il sostegno di quei sindacalisti palermitani che da tempo cercano di opporre all’incontrollabile" (e indipendente) coordinamento antimafia un loro più malleabile comitato concordato fra le forze politiche ufficiali.
Processi. I processi alla mafia andranno, probabilmente, allo sfascio; non per una qualche metafisica "mostruosità giuridica" ma perché, più semplicemente, si sarà infine riusciti a impedirne il regolare svcolgimento. A Messina, fra imputati, legali e testimoni, i morti ammazzati sono già mezza dozzina; a Palermo si è bloccato il processo per ottenere la lettura in aula di tutti gli atti: ma una volta ottenutala… gli atti sono stati letti in mezzo a un’aula deserta. Garantismo? Furberia da piccola pretura? Mah. D’altronde, sono tattiche difensive giustificabili, probabilmente, sul piano del rapporto professionale fra l’avvocato e il cliente, che paga e vuol essere ben servito; soltanto, non ci sembra il caso di proporle come modelli di civismo e democrazia.
Democrazia. Per quanto strano, qualche po’ di questa merce, in questi anni feroci, è attivato perfino in Sicilia. Gli studenti che hanno fatto i cortei (ma: "i ragazzi bisogna lasciarli a scuola" ammonisce Sciascia) hanno imparato, perlomeno, che la cosa pubblica attiene a ciascuno di noi; qualche professionista ha pur rischiato la pelle per svolgere onestamente la sua professione; qualche giornalista ha pur stampato per quattr’anni a duecentomila al mese per poter scrivere senza censure; una donna qualunque è pur andata, in feroce solitudine, al tribunale per denunciare – peraltro invano – gli assassini di suo marito; duecento cittadini comuni – insultati da Sciascia, guardati con sufficienza dalla sinistra perbene, denunciati alal mafia dal Giornale di Sicilia – hanno pur trovato il coraggio, vivendo a Palermo, di essere il Coordinamento Antimafia. Questa è la democrazia, cari amici milanesi, una democrazia per cui si può anche morire in Sicilia, come in Polonia o in Cile. Perché in Sicilia, purtroppo, oggi come oggi c’è ben poco da garantire; la Costituzione, qui, non ha mai avuto vigore se non nei discorsi ufficiali. Unico potere reale: i Rendo e i Lima. Unica reale opposizione: i movimenti antimafiosi.
Certo, è una democrazia, la nostra, che Sciascia non può comprendere. "I ragazzi a scuola!". Certo: e i preti a dir messa, e i sindaci chiusi in municipio, e i cittadini tranquilli, e le donne a casa; ciascuno al proprio posto, nella migliore delle Sicilie possibili. E i giudici? I giudici a farsi i loro processi in santa pace, lontani da ogni curiosità indiscreta: "non resta che applicare il pieno e intero segreto istruttorio. La rescissione di ogni legame, a parte le eventuali conferenze stampa fra giudici e giornalisti…": il regime, insomma, nel nome delle garanzie; e al più con qualche mafioso "all’antica", alla don Mariano Arena, raccontato in pensose pagine al pubblico italiano.
Non c’è una lapide, in Sicilia, non una piccolissima piazza che ricordi, tanto per dirne una, uno scrittore come Giuseppe Fava; anche lui siciliano come Sciascia, ma in ben diverso rapporto col potere mafioso; ucciso, e dimenticato. Per Sciascia, il potere s’è mosso, e con molto senso della tempestività: fra le molte istituzioni della Regione siciliana da ora ci sarà anche una Fondazione Sciascia, inaugurata in pompa magna dai rispettabili esponenti del buongoverno siciliano.
Sarebbe interessante studiare come mai tanta parte della letteratura italiana finisca, prima o poi, in feluca; e come mai il dannunzianesimo – il giudizio apodittico, la superficialità nel dar rapido conto di ciò su cui altri travaglia la vita, la facilità a dar dell’asino o del criptocomunista al diversamente pensante – abbia ancor tanto corso tra l’ufficialità intellettuale del Paese, e come mai soprattutto i problemi più seri da noi finiscano regolarmente in letteratura da terza pagina, in intrattenimento televisivo, in "spettacolo" culturale. Perché insomma in Italia, prima o poi, le questioni controverse finiscano sul tavolo del Vate Nazionale di turno, ex garibaldino o ex futurista o ex illuminista che sia.
Una cosa soprattutto ha destato scandalo nel comunicato del Coordinamento antimafia di Palermo (quello "ingenuo", intendiamo, quello da cui era cosi’ "facile" dissociarsi), il fatto che fosse stato redatto da due studenti e un commerciante: gente ordinaria, ohibò!, certo strumentalizzata, ma da compatire. A me va benissimo che a prendere la parola, oltre ai Grandi Intellettuali di turno, siano anche gli studenti e i bottegai; specialmente quando rischiano ogni giorno la pelle in una città tradita. Mi piacerebbe se la sinistra civile su questa e su altre questioni desse loro, umilmente, qualche po’ di attenzione.
L’ESPERIENZA DEI SICILIANI
“L’antimafia difficile” (Centro Impastato), 1987
Parlare di esperienza ha il tono d’epitaffio, cioè è stata una cosa bella, simpatica, coraggiosa, che adesso si può mettere tra due fogli d’album e si conserva. La storia dei Siciliani è una storia segnata da profonde immaturità e da grandi debolezze perché eravamo pochi, periferici, e ci siamo trovati d’improvviso in un mare che non era il nostro, con problemi specifici locali, Catania non è Palermo, da certi punti di vista è peggio, da altri punti di vista la vicenda è stata come un’esplorazione che vale per tutti, io credo, e che ha acquisito un salto di qualità in quella che io sono stufo di chiamare "lotta alla mafia", che in effetti è anche lotta per qualche cosa. E per che cosa? Ecco, la storia dei Siciliani è anche in questa domanda: qual’è l’alternativa, l’obiettivo, storico, non arbitrario, non derivante dalla fantasia o dagli studi elitari di qualcuno, ma scaturente dalla struttura della società, qual’è questo salto di qualità che, in qualche modo, può servire da orizzonte? Naturalmente noi non abbiamo mai teorizzato, il tempo delle teorizzazioni è passato, è abbiamo cercato di mettere insieme tanti frammenti, tanti pezzetti d’esperienza, tante ipotesi, verificate o no.
La prima fotografia è quella di una sera come tutte le altre, con Antonio che ha appena finito il suo pezzo e si alza per andarsene via, con Claudio che sta dicendo qualcosa a Gariddi, il nostro tipografo, quarant’anni di lavoro a Milano, è tornato perché voleva fare qualcosa in Sicilia, Lillo che, come al solito, sta litigando con l’altro tipografo, Miki sta facendo ancora un pezzo, il direttore è arrivato verso le otto, contento perché ha strappato dal sindaco di un paesino un contratto pubblicitario di 150.000 lire, che avrebbero pagato nel giro di un mese: eravamo felici, perché, facendo i conti, quel mese avremmo avuto quasi un milione e duecentomila di pubblicità: in quel momento è entrata la fotografina, che era stata col direttore a fare queste foto pubblicitarie, io ero scocciato, non ricordo per quale ragione, c’era Antonio sulla porta, "be’, mi dai un passaggio, be’, ci vediamo domani allora".
La telefonata è arrivata alle dieci e mezza e, in questi casi, credo che la fisiologia dell’uomo ha le sue salvezze. Alle undici mi trovavo a fare il mio mestiere di cronista di nera e a rilevare distanze, a ricostruire traiettorie, a parlare con i testimoni, con i poliziotti; alle undici e un quarto eravamo all’ospedale, molto calmi, c’erano delle cose da fare. Verso l’una e mezzo di notte ci siamo ritrovati, senza darci alcuna indicazione, perché la sede ci faceva paura, a casa di una nostra amica, la signora Roccuzzo, che ha preparato il tè per tutti, e abbiamo cominciato a discutere: Lillo Venezia ha detto che bisognava uscire subito, qualcun altro ha detto "in sede alla redazione domani alle nove e mezzo". L’indomani trovammo davanti alla sede un gruppo di ragazzi di un paesino in cui c’era la nostra tipografia, che erano venuti per fare la "diffusione militante" del giornale. Non sentivo da parecchi anni la parola "militante", ero venuto a Catania per fare il borghese, non il rivoluzionario e alcuni meccanismi mentali si sono messi in moto: fare il giornale, organizzare la "diffusione militante", mandare subito qualcuno nelle scuole dove i ragazzi avevano le assemblee in corso.
Un’altra fotografia potrebbe essere la nostra Cettina, che era a capo delle fotocompositrici, che piangeva e teneva in mano la strisciata delle fotocomposizioni, e così via. Uscita l’edizione straordinaria ci siamo trovati in una situazione che avevamo previsto molte volte, contro la quale nessuno di noi aveva la minima obiezione sul piano dell’analisi, è ovvio, siamo a Catania, c’è la mafia, la mafia ammazza, può capitare anche a noi, è nelle regole del gioco. Però una cosa è pensarlo, altra cosa è trovarsi improvvisamente immersi in una realtà che fa saltare ogni precedente punto di riferimento, impone per forza, a calci nel sedere, di cominciare a ragionare in modo radicalmente diverso. Alcune delle scelte fatte allora, non come scelte del momento, ma come scelte della realtà e come le uniche cose da fare in quel momento, erano scelte che, viste adesso, a cinque anni di distanza, hanno del miracoloso e sono come l’eredità che noi lasciamo al resto del movimento antimafioso. A partire da quel momento la redazione si riunì ogni giorno, per tre quarti d’ora circa, per le riunioni operative, a turno qualcuno organizzava la scaletta con i punti da trattare, si davano gli incarichi, poi si riferiva sugli incarichi del giorno prima, nel modo più naturale, senza che dovessimo obbligatoriamente schierarci per una posizione o per un partito.
Nei primi giorni ci trovavamo totalmente isolati e ci siamo resi conto che non potevamo fare marcia indietro, che eravamo ormai troppo avanti e che l’avversario era estremamente potente, quindi dovevamo avere l’obiettivo immediato di moltiplicarci il più possibile, di esplodere, di non essere più giornale, ma di diventare, in tempi velocissimi movimento di massa. Come fare? Non eravamo politicizzati come gruppo, eravamo un giornale, non volevamo cadere nell’orbita ideologica di qualcuno, per motivi difensivi, dovevamo elaborare un’"ideologia" con obiettivi strategici intermedi e non ci aiutavano molto i libri, ma i ragazzini con cui parlavamo nelle assemblee nelle scuole eccetera. Nel giro di tre-quattro mesi si organizzò un mod di pensare molto caratteristico, basato sulle riunioni operative e su piccoli gruppi, non c’erano più di due o tre persone a fare la stessa cosa, con l’individuazione di una serie di obiettivi che centravano i punti di maggiore contraddizione di una società mafiosa. Nostri interlocutori erano i ragazzi delle scuole, che non avevano il problema del posto o del lavoro, ma intendevano lottare per qualche cosa di più, una realizzazione della vita, una realizzazione di noi stessi: si trattava di una situazione emozionalmente molto alta che saltava i passaggi intermedi: il lavoro serve ad avere una sicurezza, una vita serena, mentre il ragazzino di liceo percepiva che si poteva essere immediatamente felici, che si poteva cercare immediatamente la sicurezza, che si potevano cercare subito alcune cose, non dopo il diploma o dopo il posto di lavoro, che si poteva avere molto senza bisogno di chiederlo a nessuno.
Si formò così il movimento per i Centri Giovanili Autogestiti: si trattava di ragazzi che cercavano di aggregarsi intorno ad attività inventate sul momento. Grazie al lavoro della sinistra ufficiale non riuscimmo a conseguire l’obiettivo di occupare alcuni spazi, stabilimenti industriali abbandonati, perché questi locali erano già nell’ottica di, non vorrei usare la parola "intrallazzo", di un’operazione in cui doveva entrare l’Arci, un architetto di sinistra, che non andò mai in porto, ma sufficiente a mobilitare tutti contro il nostro tipo di progetto. Un’altra situazione contro cui ci trovammo a cozzare fu questa: sì, lottiamo contro la mafia, ma qui a Catania i mafiosi sono importanti, hanno le fabbriche, hanno i posti di lavoro in mano, e se acchiappano i mafiosi, che cavolo facciamo, le fabbriche chiudono e tutti a casa, discorso non di un professore, ma di una ragazzina, Sabina, figlia di un operaio di questi: rispondemmo elaborando una proposta alternativa, quella dell’utilizzo popolare dei beni mafiosi sequestrati, che dovevano essere posti sotto controllo di un organismo apposito e utilizzati per mantenere e aumentare l’occupazione. Questi due obiettivi, centri popolari autogestiti e utilizzazione alternativa dei beni mafiosi poi, due o tre anni dopo, divennero oggetto di conferenze, incontri, dibattiti della sinistra ufficiale, la Fgci, a fase conclusa, fece un bel documento sui centri giovanili e il Pci cominciò, timidamente, a parlare di utilizzazione alternativa, ma nei sei mesi in cui questi obiettivi cominciavano ad aggregare forze, il ruolo della sinistra organizzata fu di netta e intransigente opposizione.
Nella nostra storia abbiamo fatto da collettore, da canale catalizzatore, ma non erano nostre né le idee né la spinta che queste idee riuscivano a raccogliere: il solo nome dei Siciliani riuscì a coagulare, per un anno e mezzo circa una diversa sinistra che si basava sulla contraddizione reale esistente a Catania, tra il potere mafioso e la grande massa di coloro che da questo potere erano espropriati. L’Associazione dei Siciliani, sorta parallelamente intorno al giornale, con intenti molto modesti, di aiutare materialmente la diffusione, si trasformò rapidamente in un’avanguardia politica che diventò un interlocutore ricercato dai partiti: ne facevano parte svariate persone, alcuni venivano dagli autonomi, altri erano liberali, altri comunisti in servizio permanente effettivo, altri cattolici: nel giro di pochi mesi queste componenti si erano omogeneizzate su ipotesi concrete, non tanto per la forza della nostra proposta, quanto per la debolezza delle proposte di partiti ufficiali.
Ripensando a quegli anni ho una grande rabbia e un grande rimpianto: la rabbia è quella che, con il senno del poi, mi ispira la condotta della sinistra ufficiale, quasi mai d’appoggio, qualche volta di sabotaggio, in ogni caso d’incomprensione totale; gli intellettuali che si raccolsero intorno all’ipotesi ebbero due tipi di comportamento, alcuni rimasero sino alla fine insieme a noi, quelli di sinistra, che non avevano mai fatto politica attiva eccetera, altri invece, alla prima possibilità, utilizzarono il peso nuovo acquisito individualmente, per precipitarsi in quella o questa soluzione di partito, molti in buona fede, ma con il risultato di bloccare lo sviluppo di un movimento a Catania, senza che nessuno peraltro riuscisse poi a spostare alcunché all’interno del palazzo in cui era entrato con il famoso obiettivo "cambiare dall’interno".
Sotto l’aspetto professionale I Siciliani erano già qualcosa di estremamente anomalo: il gruppo giornalistico nasce intorno al 1980, come gruppo dei cronisti del Giornale del Sud, con la precisa caratteristica della libertà d’iniziativa: non eravamo molto ortodossi come giornalisti, eravamo molto liberi nell’espressione, dopo una serie d’inchieste sulle carceri passammo per il "giornale della malavita", ed eravamo disponibilissimi a valerci delle fonti più svariate, per ultime quelle ufficiali; peraltro invece le esigenze del direttore erano ferocissime, l’orario di lavoro, teoricamente sei-sette ore, era assolutamente libero, ma per acquisire il fondamentale diritto di andare la notte in pizzeria, bisognava non andare via dal giornale prima delle due di notte.
Il giornale avversario era La Sicilia, il giornale dei cattivi, noi eravamo i buoni e non potevamo permetterci la minima svista, bisogna spesso creare la notizia, o far diventare notizia il crollo di un cornicione via Palermo 234, il direttore ci tirò fuori due pagine e mezzo bellissime perché la signora cui era caduto addosso il cornicione era la moglie di una guardia notturna, licenziata giorni prima per intrallazzi nella sua ditta, a pianoterra abitava un ragazzino arrestato pochi giorni prima per un furto, a sua volta "sciarriato" con il cognato per una storia di giornaletti pornografici rubati, insomma siamo stati su questa storia per quindici giorni scrivendo cose molto belle. Fummo licenziati tutti quando il direttore cominciò a fare campagna contro la base di Comiso ed io contro Ferlito; ai Siciliani fu più dura, perché non avevamo una struttura organizzativa alle spalle, si andava col biglietto d’andata per fare un’intervista, non si parlava d’alberghi o rimborsi, e tuttavia c’era questa forma di autodisciplina che ci spingeva a cercare e scrivere una cosa che nessun altro al mondo aveva.
Non ci sentivamo, a partire dal direttore, dei grandi giornalisti e forse non ci sentivamo neanche dei giornalisti, ci sentivamo dei portavoce, gente che facesse un lavoro, diciamo per conto di qualcun altro: a questo buon mestiere ci siamo aggrappati soprattutto dopo il 5 gennaio 1984, lasciando entrare in dialettica, a nostra insaputa, due cose differenti, da un lato un livello molto alto di efficienza tecnica, le notizie erano buone e non sono mai state smentite, dall’altro la necessità pressante di uscire dal ghetto, di essere punto di riferimento. Su questo abbiamo commesso infiniti errori, per lo più di timidezza nella campagna per la legge La Torre o nella vicenda dei Siciliani giovani, nato con un’assemblea di venti ragazzi, che alla seconda assemblea erano diventati una sessantina e successivamente riuscì a coinvolgere 320 ragazzi. Eravamo molto forti su alcuni terreni, molto meno su altri, sul piano politico avevamo molta spinta, ma poca consapevolezza, e avevamo una fiducia smisurata nei cosiddetti intellettuali della sinistra catanese, nel Pci, nei sindacati, nella Lega delle cooperative: non erano l’ideale, ma altra cosa dalla Democrazia Cristiana, vuoi mettere? E tuttavia le delusioni erano frequenti. Questa situazione è durata per quattro anni, sino a quando non ci siamo trovati davanti a una scelta: o arroccarsi nel mensile, che andava bene, oppure giocare la carta del settimanale popolare, dove tutti potessero scrivere: abbiamo fatto tardi questa scelta, quando eravamo ridotti in pochi, isolati dalle forze politiche ufficiali. Era un brutto giornale sotto molti aspetti, fatto con mezzi deboli e in fretta.
Per quanto riguarda la lotta alla mafia abbiamo portato, la realtà ci ha portato dei contenuti specifici, come nel caso dei "cavalieri di Catania": da quando I Siciliani hanno cominciato a lottare, Rendo non è stato più il grande industriale progressista, la gente non ci crede più. C’era a Catania, non solo nel Pci, questa solida convinzione: Catania è una città miserabile, africana, messicana, brasiliana, con i contadini col forcone, con Brancati, le donne vestite di nero, e quindi, giustamente, ci vuole la rivoluzione industriale, la borghesia moderna, ci vuole Rendo, non per un fatto di corruzione, ma per l’incapacità di elaborare un’analisi specifica sulla Sicilia, e così la maggior parte dei giornalisti del giornale di Rendo è iscritta al Pci. I "cavalieri" rappresentano una forma di potere mafioso, secondo me "ultima": la tipologia dei "cavalieri" catanesi, il tipo di potere, il tipo di rapporto mafia-politica si è sviluppato più tardi e più lentamente che a Palermo, in una situazione più moderna, più metropolitana: Rendo è meno classico, meno radicato, ma molto più grosso di un Cassina, per esempio, opera con tipologie differenti.
Un secondo contributo è stato quello del rapporto tra mafia e poteri occulti, per esempio la Massoneria, non privo di connessioni con il primo. Un terzo contributo, troncato dalla chiusura del giornale, è quello del rapporto "nuovo" tra mafia e politica: il rapporto tradizionale era di corruzione, nel senso che era il mafioso a corrompere il politico, il rapporto nuovo può essere inteso in senso opposto, cioè lo stato corrompe la mafia, ossia lo stato ha suoi interessi specifici, ad esempio l’intervento in un determinato scacchiere politico, tramite la fornitura di armi e si serve di strumenti adatti, tra i quali può esserci qualche gruppo mafioso, collegato con l’imprenditorialità, cosicché il rapporto tra mafia e politica, le contraddizioni che ne conseguono, si spostano a livelli più alti, per cui, mentre ieri potevamo dire che il politico mafioso è Lima e che Andreotti è mafioso in quanto protettore di Lima, oggi possiamo dire che il politico mafioso è Andreotti e che Lima è mafioso in quanto dipendente da Andreotti: diciamo che la mafia non è più un fatto parassitario dentro lo stato, ma tende ad inserirsi nel centro dello stato e, in taluni aspetti, a coincidere, quasi meccanicamente, con esso.
Come in tutte le storie, diciamo pure come va a finire: I Siciliani non escono più da un anno e mezzo, è in corso una trattativa con la Lega delle Cooperative per fare un consorzio e rilanciare il giornale: alla fine il consorzio è stato fatto, ma con i "cavalieri" e non con noi e per tutte altre storie, per cui, proprio in questi giorni è partita una lettera di denuncia di questa trattativa; nel frattempo a Catania il giornale padronale, La Sicilia, ha cambiato direttore e ha cambiato il carattere delle testatine: questo è stato sufficiente a convincere i compagni perbene che La Sicilia era cambiata; il Pci sta facendo a Catania una buona campagna elettorale, con una bella lista, e con un programma in cui c’è la mafia a pagina uno, per dire che i commercianti sono incazzati per via delle estorsioni, e poi, da pagina due a pagina 143 un elenco di belle cose da fare. E’ più o meno la nuova linea politica della Democrazia Cristiana, che non dice più a Catania che la mafia non esiste, che non bisogna fare indagini sui "cavalieri", non spara più, il capolista è un signore perbene che fa parte del consiglio superiore della magistratura, tutto ritorna normale e si propone un grande patto con dentro il Pci: La Sicilia fa le lodi dei comunisti, i quali fanno le lodi de La Sicilia, è arrivato il pluralismo e anche nella stampa, perché non c’è più il giornale di Costanzo, ma anche il settimanale di Rendo, I Siciliani sono spariti, Antonio sta facendo un articolo per Il Manifesto, e forse glielo pagano, Claudio è appena tornato dal Sud-America, dove ha cercato di raccogliere qualche cosa, Miki neanche questo, io sono qui, Elena ha abbandonato il mestiere e sta facendo le supplenze, ogni tanto ci si vede e si chiacchiera: ci siamo dati appuntamento tra un anno, le idee sono tante e belle, siamo abbastanza ottimisti, e adesso sappiamo come si fa un giornale in Sicilia, cioè coinvolgendo centinaia di persone che giornalisti non sono, sappiamo che un giornale in Sicilia non ce lo farà nessuno e che potrà spuntare se un organismo collettivo, non legato al "palazzo", si porrà quest’obiettivo in tempi lunghi, lavorando intanto per realizzarlo senza sperare in vie di mezzo; sappiamo anche che dall’aspetto tecnico si possono fare molte cose e con pochi soldi attraverso i computers.
Quando abbiamo iniziato I Siciliani ci siamo indebitati per circa 250 milioni, comportandoci da milanesi, rispetto a furbi milanesi che si sono comportati da catanesi: gli stessi materiali, con la stessa funzionalità, adesso si potrebbero trovare per 60 milioni. Infine, sul piano dell’esperienza di mestiere, per una volta voglio ricordare persone di cui nessuno parla, Miki Gambino, il miglior cronista di nera in Sicilia, il nostro fotografo, Nuccio Fazio, la fotografina Giusi Spampinato, la nostro compositrice Cettina, adesso a Milano perché non ha più trovato lavoro, Mario Sparti, il nostro tipografo, il prof. D’Urso, il primo in Italia a intuire il rapporto tra logge massoniche e mafia. Insomma un’esperienza come la nostra ha coinvolto tante persone ed ha lasciato in ognuno qualcosa: io penso che saranno loro a girare la prossima puntata.
UNA LETTERA
dicembre 1988
Caro Luca,
subito dopo il cinque me ne andrò a Roma per dare una mano al giornale di Fracassi, e quindi la mia disponibilità per il vostro giornale si farà più complicata. Ho già detto ad Alongi di disporre liberamente del progettino che gli ho lasciato; in ogni caso, il giornale cercate di farlo lo stesso perché, usato bene (cioè con aggressività e fantasia; per la strada), può essere uno strumento decisivo. Ad Alongi ho detto anche che, avendo seguito con attenzione l’andamento di tutta questa vicenda, ho avuto modo di farmene un’idea abbastanza precisa e di valutare gli schieramenti che vi si sono formati ; e di essere sinceramente riconoscente a te, a Letizia, ad Alongi e agli altri compagni che avete almeno tentato di affrontare politicamente il mio caso. Personalmente, penso che sarebbe stato meglio usarlo come terreno forte per uno scontro, e anche ora non credo opportuno lasciarlo cadere in modo indolore; ma voi che siete sul posto potete valutare meglio di me costi e vantaggi di un atteggiamento "duro". E poi, tutto sommato, è una questione laterale.
Fra pochi giorni, comunque, Antonella ed io partiremo per quest’altra avventura. Contrariamente a quel che si potrebbe credere, la banda municipale non verrà ad accompagnarci alla stazione; partiremo, come sempre, da zingari, con un bel po’ di debiti alle spalle, l’anoressia di Antonella, i padroni di casa che ci cercheranno fino all’ultimo momento, e tutto il resto. Due borse di vestiti pesanti, le fiabe di Antonella, un po’ di carte mie e la raccolta del giornale. Con tutto ciò partiamo spavaldamente, da compagni, come se la banda ci fosse esuonasse forte l’Internazionale.
L’altro giorno, che era festa, la mia Antonella ha trovato la forza di organizzare una giornata allegra, di regalarmi un tabacco, di sorridere tutto il giorno. "Al nuovo giornale!". Le avevano trovato un edema la mattina prima e non c’era niente in casa. Ma lei mi ha fatto forza e ha sorriso.Così, adesso noi – che stiamo partendo obbligati, esattamente come se ci avessero cacciato fuori dalal Sicilia con le guardie – non stiamo andando a cercar di sopravvivere in qualche modo, ma stiamo andando a continuare la lotta in qualche altra maniera, dove potremo e come potremo. E, in qualsiasi modo vada a finire, siamo almeno sicuri che saremo sempre noi.
Mi piacerebbe se tu riuscissi a spiegare tutte queste cose al collega *: a fargli capire che egli può permettersi di fare l’Autorevole Politico Antimafioso solo perché esiste – indipendentemente dalla sua volontà – della gente non dico come me che sono un militante di mestiere, ma come Antonella; che egli non conosce e non ha alcun bisogno di conoscere ma alla quale egli deve integralmente il suo attuale status sociale e politico.
Bene: salutami i compagni, stai attento a scegliere i tuoi interlocutori catanesi, non permettere che ti accomunino a una cosa buffa come Bianco, e il resto più o meno lo sai già. Buon lavoro.
(Ah: vedi che la parola "compagno" io la uso in un senso un po’ particolare).
GIUSEPPE FAVA, UN PRECURSORE
Il manifesto, gennaio 1989
Ottanta righe per il cinque gennaio, quinto anniversario dell’omicidio di Giuseppe Fava? Mica facile. Perché intanto bisognerebbe spiegare chi fu veramente Giuseppe Fava: non l’innocente poeta che ora ci vogliono consegnare, ma uno scrittore europeo, e un militante. Come scrittore, Fava è stato l’unico italiano a raccontare davvero l’operaio massa degli anni ’70, quello che dal sud dell’Europa andò alle catene di montaggio. Non usava queste parole, non veniva da esse. Ma il suo ragazzo Michele ("La passione"), dal paesino siciliano alla città-fabbrica tedesca, è esattamente questo.
Peccato che la sinistra italiana, con le altre cose, si sia persa anche questo libro. E’ che per la cultura italiana rimuovere Fava (come per paralleli motivi Pasolini) fu una necessità. La mafia, per esempio, lui la collocava, lucidamente, in questa Europa: meglio i donmariani innocui di Sciascia.
Come militante politico Fava – esterno a ogni politica ufficiale e profondamente diffidente di essa – non attaccò questa o quella maschera del teatro istituzionale, ma direttamente il potere. Che si fonda, come ha scritto qualcuno, essenzialmente sulla struttura dell’economia. Che in Sicilia (ma non più solo in Sicilia) si fonda sull’intreccio tra fabbrica della droga e impossessamento degli appalti. I quali a Catania (ma non più solo a Catania) sono dominati dai "quattro cavalieri" Rendo, Graci, Costanzo e Finocchiaro.
Fava si batté contro i cavalieri. In ogni momento di questa lotta ebbe sempre davanti coloro per cui lottava: i bambini di Palma di Montechiaro, i ragazzi di paese, i milioni di emigranti siciliani "dispersi sulla faccia della terra". Unì profondamente il vissuto quotidiano suo e di altri con una sedimentazione "politica": una politica di fondazione, senza zavorre ideologiche, tutta dei tempi nuovi. In questo, come avviene nei finesecolo, egli fu un precursore.
Come giornalista, non gli ho mai sentito pronunciare la parola "professionalità". Era all’antica, in questo: "mestiere". Una volta sola usò il termine "giornalismo borghese", per spiegare ad alcuni ragazzi ciò che il suo mestiere non era.
Poche ore dopo la morte di Giuseppe Fava, i redattori dei Siciliani si riunirono in assemblea. Era notte. La madre di uno di loro portava in giro il caffè: fuori, il potere si preparava a uccidere la stessa memoria dell’ucciso. Nessuno di loro era particolarmente dotato di genialità o di coraggio. Ma qualcosa li muoveva. Essi deliberarono che avrebbero continuato l’impresa; si divisero i compiti. Alcuni, "il settore mafia", produssero in diciassette mesi quaranta inchieste ancora oggi fondamentali. Altri furono mandati in giro per l’Italia a cercare alleati per una guerra, che si prevedeva lunga. Altri ancora ricevettero la cassa vuota e l’incarico, che assolsero con successo, di stampare comunque il giornale. Altri cominciarono a organizzare – scuole piazze quartieri – l’opposizione. Mentre con terrificante regolarità i numeri del giornale, uno dopo l’altro, analizzavano gli affari dei cavalieri, si ramificavano come "SicilianiGiovani" nelle scuole e con l’altro "braccio organizzativo", l’Associazione "I Siciliani", nelle città.
Noi non siamo vissuti abbastanza per collegarci con la primavera di Palermo. Non c’illudevamo. Sapevamo che il tempo era poco, i mezzi inesistenti, che le promesse di solidarietà non sarebbero state mantenute, che il varco si stava chiudendo. Cercammo di forzarlo sullo slancio. Non ci siamo riusciti – non, almeno, per il momento.
Fra le promesse non mantenute ci fu quella della Lega delle Cooperative, che doveva consorziarsi con noi per rilanciare il giornale. La relativa "trattativa" durò due anni e mezzo e, per quel che ne so, forse dura tuttora. Non è stato possibile sapere chi abbia bloccato questa trattativa, il "migliorista" Turci accenna a "livelli Siciliani" che, a loro volta, rilanciano a Roma. Di certo c’è solo che consorzi furono fatti, ma con i cavalieri: Costanzo, Cassina e Rendo. Li firmò, nella civilissima Ravenna, il consiglio d’amministrazione della Cooperativa Muratori e Cementieri, tardi scopritori dei valori del mercato (tardi: perché se li avessero già scoperti i loro padri, quattrini a palate sarebbero stati, con l’appalto degli stivali della Wermacht. Ma, a rifarsi c’è sempre tempo).
A Catania, adesso, ferve il "rinnovamento" del Palazzo. Il sindaco guida il bus, gli assessori commemorano Robespierre, tutti sono gentili e buoni, soprattutto il giornale dei cavalieri, La Sicilia. Ha un senso, dopotutto. Bisognò pure affrettarsi, appena fatta l’Italia, a mettere il bavaglio ai mazziniani; o nella Repubblica democratica, a manganellare chi odorava troppo di Resistenza. Qui, ora, nel "dopomafia", silenzio agli antimafiosi.
COLOPHON
Questo libro
e’ stato composto
in carattere Times New Roman
nel dicembre 2006,
da qualche parte d’Italia,
per i suoi amici
mardiponente
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