Non “ha vinto Amore”
Non “ha vinto Amore”
Degli dei il disamore, di Orfeo lo sguardo e la perdizione
Giuseppe De Filippo
DOCUMENTO PDF CON OPERE DI DE FILIPPO
Per uccidere Orfeo non basta la morte, tutto ciò che nasce e che
visse deve morire, solo non muore nel mondo la voce di Orfeo.
Da Orfeo Negro, Vinicius de Moraes.
Agli albori del Sentire accade che Orfeo, il musico per antonomasia, perse per sempre la sua amata Euridice, “morsa al tallone da un serpente” 1 velenoso nel giorno stesso delle nozze.
Follemente innamorato si disperò fino all’insania e, dopo tanto doloroso peregrinare tra i monti della Tracia, decise, senza nulla temere, di scendere negli inferi al cospetto degli dei, Ade e Persefone, “cuori incapaci di essere addolciti da preghiere umane”2, e supplicarli di far tornare in vita Euridice.
Entrare da vivi nel mondo dei morti veniva considerato un atto di arroganza contro gli dei, un’avventura per nulla umana. Nipote di Zeus e Mnemosine, Orfeo era nato dalla loro figlia Calliope, musa dell’eloquenza e della poesia epica, nonché ispiratrice di Omero, e da Eagro, re di Tracia. Il segreto del suo accesso agli Inferi non risiedeva in queste autorevoli origini, ma nella sua arte di commuovere con il canto e la musica anche le bestie più feroci; di fermare la ruota di Issione e di far piangere i monti, “facendo miti le tigri, smuovendo col canto le querce” 3.
Giuntovi, con la cetra e tanto dolore, accarezzato dalla speranza di ri-vedere e ri-avere l’amata, esordì dicendo:
“O dei, che vivete nel mondo degl’Inferi,
dove noi tutti, esseri mortali, dobbiamo finire,
se è lecito e consentite che dica il vero, senza i sotterfugi
di un parlare ambiguo, io qui non sono sceso per visitare
le tenebre del Tartaro o per stringere in catene le tre gole,
irte di serpenti, del mostro che discende da Medusa.
Causa del viaggio è mia moglie: una vipera, che aveva calpestato,
in corpo le iniettò un veleno, che la vita in fiore le ha reciso.
Avrei voluto poter sopportare, e non nego di aver tentato:
ha vinto Amore! Lassù, sulla terra, è un dio ben noto questo;
se lo sia anche qui, non so, ma almeno io lo spero:
se non è inventata la novella di quell’antico rapimento,
anche voi foste uniti da Amore…”4
La sua sventurata storia intenerì tutti gli abitatori dell’oltretomba, soprattutto Persefone la quale, avendo conosciuto in passato il tormento d’amore, concedette ad Orfeo il ritorno in vita di Euridice, ma ad una condizione.
Come le favole ci narrano, Persefone fu in tenera età violentemente rapita da Ade nel mentre con le sue compagne raccoglieva fiori. Squarciando la terra, da dove comparve improvviso su di un carro d’oro spinto da quattro cavalli neri, la sottrasse al suo destino di ninfa per condurla nello spaventoso mondo del buio e farne la sua amante. La leggiadra Persefone, nata “dalle bianche braccia”5, niente poté fare contro la bruta forza di Ade.
Muscoli possenti, sguardo strafottente e sorriso sarcastico: così appare nella scultura marmorea, il Ratto di Proserpina, di Gian Lorenzo Bernini, nel mentre compiacente della sua virilità affonda le mani-artigli su di un corpo indifeso che cerca, inutilmente, di svincolarsi dalla presa infernale.
Un’attrazione violenta, dettata dal morboso desiderio di possesso carnale, che oggi definiremmo patologica e lesiva della dignità della donna.
Ed è proprio in memoria di “quell’antico rapimento” da parte di Ade, di cui era stato complice suo fratello, il despota e trasformista Zeus, che Persefone si commuove al tristissimo racconto di Orfeo. Nonostante ciò, escogita un semplicissimo ed astuto stratagemma: il divieto per Orfeo di guardare la propria innamorata prima che varcasse la soglia degli inferi, sicura che l’imprudenza, specifica del vero innamorato, lo avrebbe portato a trasgredirlo. Una richiesta ingannevole perché escogitata proprio da chi, ancora fanciulla, era stata vittima dell’irresistibile ed irrazionale passione amorosa.
Orfeo, uomo in-genuo, privo di espedienti e contemplativo, preso dalla premura di assicurarsi, tramite lo sguardo, la presenza spettrale di Euridice, si volta a guardarla un po’ prima che lasciassero gli inferi. È così che si adempie il perfido disegno degli dei: Euridice non doveva ritornare in vita!
Quale autentico innamorato non si sarebbe voltato indietro?
Di certo non l’avrebbe fatto il possente rapinatore Ade, nè il trasformista ed invisibile suo fratello Zeus che, per accoppiarsi con le belle del reame ed ingravidarle, si tramutava di volta in volta in toro, pioggia d’oro, in cigno e in nuvola. Contrariamente a loro, Orfeo era una creatura mite, leale e rispettoso anche della vita degli animali. È da ricordare, abbastanza sinteticamente, che gli adepti della corrente filosofico-religiosa dell’Orfismo condannavano il sacrificio umano ed animale, praticavano una vita morigerata, il vegetarismo e l’ascetismo; credevano nella purificazione e nella reincarnazione dell’anima. Agli dei non offrivano sangue ma incenso.
Ispiratore di tanta spiritualità, ed egli stesso spirito autentico, come avrebbe potuto gareggiare in furbizia con gli dei, che conoscevano bene gli intrighi del dio Eros ed avevano preconoscenza delle aspettative umane?
Ade e Persefone di Eros sapevano le origini: nato da una madre che elemosinava e da un padre truffatore, portava in sé la povertà e l’espediente.
Un’ innata doppiezza, dunque, così precisata da Euripide: “…duplice è l’arco della beltà/che l’Amore (Eros) tende su di noi:/l’uno ci porta felicità,/l’altro la vita torbida fa.” 6
Mentre Platone, parlando di Eros nel Simposio, afferma : “…per parte del padre, d’altronde, è ardente insidiatore del bello e del buono, valoroso e impavido e, veemente, cacciatore formidabile, sempre occupato a tessere inganni (…), quel che acquista gli sfugge subito di mano, sicché Amore non è mai né povero né ricco”. 7
Al divieto ingannevole di Ade e Persefone, va ad aggiungersi finanche l’equivocità di Eros, di cui Orfeo ne era consapevole. Allora, perché respicere e non sottomettersi al divieto?
Gli dei sapevano anche della ambivalenza dello sguardo che se generalmente disvela, indaga, rassicura ed in-forma, può diventare, per le stesse identiche ragioni, causa di morte.
Perseo, sconfisse la Gorgone Medusa perché poté sottrassi al suo sguardo pietrificante, grazie allo stratagemma dello scudo, fornitagli da Atena, e dell’elmo che lo rendeva invisibile, fornitagli da Ade; Narciso, perdutamente innamorato di sé, guardandosi nello specchio d’acqua riconobbe finalmente la sua bellissima immagine, solo apparentemente afferrabile, e, adempiendo al fato che presagiva la sua morte nel momento stesso in cui si sarebbe conosciuto, si trafisse il petto con la spada; Tiresia, l’indovino che riconobbe la colpevolezza di Edipo, era anch’egli cieco per aver posato, involontariamente, lo sguardo su Atena sorpresa nuda; Edipo si accecò, dopo aver conosciuto l’infausta verità di essere patricida, figlio e marito di Giocasta, padre e fratello dei suoi figli. Non si tolse la vita, ma la vista!
Admeto riconobbe sua moglie Alcesti, ritornata viva, solo dopo che Ercole le tolse il velo.
Semèle venne folgorata per aver guardato, sotto sua insistenza, l’amante Zeus in tutta la sua luminosità.
Lo sguardo è retaggio ancestrale, seduce e dis-vela ed equivale al denudamento: ragione per cui ancora oggi presso alcune culture lo si occulta, riconoscendo in esso il germe dell’adulterio8.
Quindi, oltre a rappresentare un divieto imprescindibile, come nel caso di Orfeo, il guardare equivale a scoprire la verità, a vederla nuda. Euridice, sebbene ombra, non doveva essere guardata. Così era stato imposto dagli dei, ma Orfeo “… per amore, temendo che non gli venisse a mancare/ ed avido di vederla, volse indietro gli occhi…” 9. Euridice, consapevole del suo destino, prima di svanire nel nulla sussurra: “Di nuovo il Fato crudele/mi chiama indietro, ed il sonno sommerge i miei occhi./Addio; ormai m’ingoia una profonda notte/e tendo a te le mie mani invano, ahimè, non più tua.”10
Rientrato dagli inferi sulla terra, “per sette giorni rimase/seduto tristemente sulla riva senza mangiare:/suo cibo era l’angoscia, il dolore, il pianto”.11 Sconfitto nel sentire più profondo e ferito nel suo entusiasmo, Orfeo, terrà fede al suo Amore, fin quando non verrà smembrato dalle baccanti, infastidite dalla sua totale devozione verso la morta e rimorta Euridice.
Se è lecito riconoscere nel Mito in generale, e in quello specifico di Orfeo ed Euridice, dei valori metastorici, senza per questo cadere in un eventuale panmoralismo, allora Orfeo rappresenta nell’immaginario umano l’esaltazione dell’ Ideale; l’immagine ineguagliabile del poeta-artista, cantore dell’amore. E, suo malgrado, cantore dolente e vittima della originaria doppiezza di Eros. Euridice, la bellissima e felice ninfa, secondo Esichio di Alessandria “bocciolo di rosa”, diventa, invece, la vittima inconsapevole di un capriccio divino.
Secondo quanto scritto nel Simposio, Euridice resta un “fantasma” perché Orfeo “era apparso di animo fiacco, secondo la sua natura di citaredo, e incapace dell’ardimento di morir per amore come Alcesti, e, piuttosto, preoccupato d’escogitare il modo di penetrare vivo nell’Ade…”. 12
La contrapposizione di Orfeo ad Alcesti è basata proprio sul concetto di sacrificio, la cui pratica era, come già detto, inammissibile da Orfeo e dai suoi seguaci. Alcesti, al contrario, decise deliberatamente di offrirsi come vittima sacrificale per rendere immortale suo marito Admeto. Per tale gesto verrà premiata con il ritorno in vita, mentre Orfeo: “lo rimandarono dall’Ade senza che avesse nullo concluso, dopo avergli mostrato un fantasma della moglie, per cui vi si era recato, ma senza avergli concessa lei in persona…”.13
Orfeo, non solo non si sacrifica per Euridice ma, una volta ella morta, discende negli inferi e la richiede finanche in vita e, cosa ancor più grave, non rispetta il patto con gli dei.
Orfeo, suonatore di cetra, citaredo appunto, (quindi, secondo Platone, limitato al campo del sensibile, il livello più basso della conoscenza) non avrebbe accettato di sottomettersi al divieto proprio in ragione del suo essere un musico libero e mansueto, e mansueti diventavano le bestie feroci ascoltando le sue monodie.
Se Orfeo avesse trovato la forza di moderare la sua trepidazione d’amore, Euridice non sarebbe morta per due volte consecutive.
Se Orfeo avesse ritardato di respicere, il perfido obiettivo degli dei non si sarebbe adempiuto ed avrebbe veramente vinto Amore!
Orfeo, se veramente desiderava il ritorno alla luce di Euridice, avrebbe dovuto avere cieca fiducia nella promessa di Ade e di Persefone.
Non c’è soluzione al conflitto, né alla contraddizione insita nel divieto di guardare la donna che si ama. Sembra che Eros e gli dei debbano contenerle entrambe, ostilità e incoerenza, senza soluzione alcuna e a danno esclusivo dei trafitti d’Amore. Sembra, pure, che gli dei si facciano beffa del libero sentire umano e che proprio tale libero arbitrio scateni la loro collera e/o invidia.
Purtroppo, il comando divino non si può violare, pena la morte. Orfeo viola il divieto ché andava ad infrangere la totalità del suo esistere, la pienezza del suo essere un musico e, soprattutto, il suo entusiasmo poetico.
Ribellandosi all’arroganza dei despoti infernali antepose l’Uomo, quello nuovo che stava nascendo dalla disubbidienza prometeica e dall’Orfismo, alle divinità e il suo libero arbitrio alle coercizioni dispotiche del regime olimpico, a costo di perdere la sua vita e quella di Euridice.
In questo è stato simile a Prometeo, la cui sorte infausta per essersi ribellato è da tutti conosciuta.
Un conflitto tra dei e uomini, aggravato dalla complicità di Eros complottista e dalla sua compiaciuta indifferenza a qualsiasi armonia e completezza, alle quali aspirava l’amore animico di Orfeo ed aspira, da sempre, l’amore terreno. Non fu proprio la dea Armonia a simboleggiare l’amore coniugale, perenne ed assoluto?
Benché ritenuto “animo fiacco, secondo la sua natura di citaredo, e incapace dell’ardimento di morir per amore”, in realtà Orfeo è morto solo e solo per amore, e per ben tre volte: la prima, come amante-uomo, nel momento del suo respicere; la seconda, in quanto uomo, quando al teriomorfismo degli dei e all’omofagia delle baccanti, che lo squarteranno, andava contrapponendo la sua teriofilia e omofilia. È morto per sua stessa scelta e nelle modalità che si addicono ad un poeta: cantando e perseguendo il suo amore, reale ed ideale assieme. Euridice morta, apparterrà al sentimento e al linguaggio del poeta: potrà essere solo cantata.
Non si potrebbe continuare ad amare e a cantare, nella più totale abnegazione, una donna morta se non rappresentasse qualcosa che va al di là della pura fisicità, della pura e semplice presenza reale; non si potrebbe, se alla scomparsa della donna reale non sopravvivesse, in eguale misura, tale da confondervisi, quella ideale.
Sebbene nella perdizione, il canto orfico rappresenta il momento poetico culmine dell’Idealità; il momento lirico dell’arte o, meglio, dell’immaginazione creativa.
Tale rimase Orfeo, Idealista ante litteram, fino a quando Idealità e Sentimento sorressero alle insidie di altri e ben diversi dei che li degradarono a squallida merce di consumo, sebbene essi non fossero degli dei barbuti e bestiali ma, come Zeus, alquanto trasformisti e dispotici. Di conseguenza, Orfeo morirà per la terza volta!
Definitivamente.
Nel mondo e nei cuori degli uomini rimasero a lungo le ceneri dell’Ideale.
Vi restarono fin quando Orfeo non decise di richiamarle a sé, a causa dell’imperante impoeticità dei tempi e del manifestato disamore degli dei contro gli uomini e delle creature contro se stesse.
Per il momento, non ha vinto Amore ma l’indifferenza e la tracotanza.
Orfeo ha quantomeno tentato, agli albori del Sentire, di tessere liberamente il suo disegno d’Amore, senza riuscirvi!
Ritenterà?
Noi, tramonti, cosa ne faremo del suo Sentire?
NOTE
1 Ovidio, Metamorfosi, X, 1-77.
2 Virgilio, Georgiche, libro IV, vv. 469-470. Traduzione di Luca Canali, Milano, RCS, 1983, 2012, p.219.
3 Ibidem, libro IV, v. 510, p. 221.
4 Ovidio, op. cit.
5 Esiodo, Teogonia, v.914. Traduzione di Graziano Arrighetti, Milano, RCS,1984-2012, p.59.
6 Euripide, Ifigenia in Aulide, vv. 542-545. Traduzione di Filippo Maria Pontani, Mondadori, Milano 2007.
7 Platone, Simposio, 203-d-e. Traduzione di Guido Calogero, 1996, Gius. Laterza e Figli, p.75.
8 Abdullah al-Mamum al-Suhrawardy, a cura di, Maometto. Le parole del Profeta. Prefazione di Maharma Gandhi.
Traduzione di Omar Camiletti. Newton Compton editori, Roma 1977, p.47.
9 Ovidio, Metamorfosi, X, 1- 85. Traduzione di Guido Paduano, Biblioteca della Pléiade, Einaudi, 2000.
10 Virgilio, Georgiche, libro IV, vv. 452-455. Traduzione di Carlo Saggio, Rizzoli.
11 Ovidio, Metamorfosi, op. cit.
12 Platone, Simposio, 179 – d. Traduzione di Guido Calogero, Gius. Laterza e Figli, 1996, p.19.
13 Ibidem, p.19.
Il tormento d’Amore e l’Insania, lo spaventoso mondo del Buio e la Forza bruta (le mani-artigli) rispetto al corpo indifeso, che cerca inutilmente di svincolarsi dalla presa Infernale (la Morte); sono questi i Tratti descrittivi e marmorei del tristissimo destino dell’Uomo compreso dalla Storia.
Ed è solo l’imprudenza specifica del vero innamorato, che può in qualche modo consentirgli di sottrarsi – in certa misura – a questo naturale, perfido e ineluttabile destino.
Vedi in questo lo sforzo continuo della SCIENZA..
Lo scienziato, ingenuo e contemplativo (innamorato), cerca (molto spesso invano) l’espediente per sottrarsi al perfido Disegno. Quale autentico innamorato non si volta indietro. Il suo sguardo è perennemente proteso in avanti.
Giuseppe Stranieri