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Sebastiano Rolli: “Meli, Verdi va difeso dalle caccole della tradizione che detestava e combatteva”
Sebastiano Rolli*
Un tentativo di chiarezza al dibattito nella trasmissione Agorà di TV Parma sul Festival Verdi 2011.
Fare divulgazione è sempre un’operazione molto difficoltosa. Provate ad immaginare i danni provocati a me, irriducibile ipocondriaco, da una cattiva divulgazione in ambito medico-scientifico! Gli stessi danni credo vengano provocati agli irriducibili melomani dalle esposizioni degli ospiti (con i debiti distinguo) della trasmissione ‘Agorà’ dell’altra sera.
Vorrei tentare, sempre nello spirito della più sincera collaborazione, di rimettere un po’ le cose a posto per dare gli strumenti a chi segue questi argomenti ma non possiede conoscenze accademiche, di districarsi all’interno di discorsi riguardanti la tradizione, la filologia, l’edizioni critiche e quant’altro.
Le imprecisioni sono nate pressappoco nel momento in cui si è legittimata l’operazione ‘Falstaff’ al Teatro Farnese; la si è lodata semplicemente perché il Farnese è bello. Il Teatro in questione è effettivamente uno dei più belli del mondo, non c’è che dire; venne inaugurato da un’opera di Claudio Monteverdi e poi solo una manciata di volte utilizzato per allestimenti operistici (una delle quali proprio una trentina d’anni or sono esattamente con ‘Falstaff’ in forma di concerto diretto da Vladimir Delman). Il fatto che venisse inaugurato da un’opera lirica non implica che la sua destinazione d’uso fosse proprio quella di ospitare opere liriche. Il melodramma, all’epoca di Monteverdi, era un’occasione di socialità, un modo per presentarsi in pompa magna ai propri invitati; un’opera lirica non veniva eseguita come si fa oggi di fronte ad un pubblico in religioso silenzio, da capo a fondo e intervallata solo da piccoli spazi temporali. Il melodramma era puro intrattenimento, veniva contrappuntato da giochi circensi, da banchetti prelibati, eseguito in differenti collocazioni (una scena in una stanza, un atto in un’altra stanza, e così via…). Come ci rammenta Massimo Mila nel volume ‘I costumi della traviata’, oppure Bukofzer nei suoi studi sulla musica secentesca, il melodramma barocco era motivo di puro svago, mezzo per magnificare la propria ricchezza e la propria amabilità sociale. Federico Zeri, nello splendido volume ‘Dietro l’immagine’, dice come l’opera d’arte di quegli anni divenisse spesso oggetto di scambio di favori, immagine e specchio del tenore di vita della propria corte. Compilare quindi l’equazione secondo la quale se il Farnese è stato inaugurato da uno spettacolo monteverdiano, oggi debba legittimamente essere ritenuto idoneo alla rappresentazione di qualsiasi altro tipo di melodramma, è un grave falso storico e stilistico. Forse sarebbe più filologico far disputare al Farnese la prossima sfida fra Parma e Juventus, dal momento che venne utilizzato molto più per tenzoni sportive che per spettacoli lirici (è una provocazione, mi raccomando! Non vorrei mai che un nostro illuminato amministratore mi prendesse alla lettera!).
Quindi si è affermato che la ‘Messa da Requiem’ sia poco adatta al Farnese, mentre ‘Falstaff’ è perfetto.
C’è del vero per quanto riguarda la prima affermazione: ‘Messa da Requiem’ non è adatta al Farnese né a qualsiasi altro teatro. E’ una Messa e, come tale, va eseguita in chiesa. Verdi stesso la fece eseguire in prima assoluta nella Chiesa di S. Marco a Milano per poi portarla Alla Scala solo in un secondo momento. Che ‘Falstaff’ sia adatto al Farnese invece esula dal vero.
Cercherò di spiegare il perché.
E’ risaputo come Verdi volesse rappresentare ‘Falstaff’ in un piccolo teatro e non Alla Scala, come poi fu costretto a fare; essendo un’opera di dialogo, temeva la dispersività degli spazi troppo vasti. Oltretutto Verdi non amava Luigi Piontelli (all’epoca sovrintendente scaligero) e voleva prendere contatti col Teatro Carcano (più piccolo e quindi più adatto alla rappresentazione del capolavoro in esame). Fu l’insistenza, non priva di interesse, dell’editore Ricordi a far capitolare il compositore.
Perché Verdi non voleva che ‘Falstaff’ venisse rappresentato in un grande teatro?
L’altra sera è stato detto che il volere di Verdi è da ascriversi ad una boutade, giacché l’orchestrazione di ‘Falstaff’ è poderosa e massiccia, quindi adatta ad un grande spazio. Qui casca l’asino! Bisogna stare attenti a sottovalutare i voleri di Verdi: esperienza insegna che si trattava di un uomo che non parlava mai a vanvera. Bisogna stare altresì attenti ad utilizzare una corretta terminologia musicale. L’organico strumentale di ‘Falstaff’ è pari a quello di (più o meno) tutte le altre opere verdiane come a quello dei ‘Maestri cantori di Norimberga’ wagneriani (con un ottavino in aggiunta ai due flauti e una terza tromba), ma la sua orchestrazione no, per bacco! L’orchestrazione è il metodo che il compositore utilizza per affidare a determinati strumenti certi passaggi. L’orchestrazione è la distribuzione agli strumenti d’orchestra delle melodie e degli accompagnamenti; è il procedimento grazie al quale in quel determinato passaggio sentiamo i flauti anziché i violini o viceversa, in sintesi: l’orchestrazione è il modo con cui l’autore si serve dell’organico strumentale. E’ l’organico strumentale che mi dice quanti strumenti l’autore vuole utilizzare, ma non è necessario che li utilizzi tutti assieme nello stesso istante! Quindi, per conoscere i pesi sonori di una partitura, non è decisivo conoscere l’organico strumentale, in quanto non indicativo dei pesi distribuiti lungo tutta l’opera, bensì conoscere la totalità della partitura in quanto i pesi sonori sono dati, oltre che dalla sovrapposizione degli strumenti, dalle indicazioni dinamiche poste dall’autore. La partitura di ‘Falstaff’ vede raramente la sovrapposizione di tutti gli strumenti in fortissimo ad accompagnamento del canto, ma ha spesso una scrittura affidata a singole sezioni. Non solo: le indicazioni dinamiche sono tali per cui abbondano i pianissimo e i più che pianissimo. Questo ci fa capire come Verdi non si esprimesse a caso nel dire che uno spazio troppo vasto avrebbe vanificato in parte la preziosità della propria scrittura.
‘Falstaff’ è un’opera cameristica, quindi, e va spiegato cosa questo significhi.
Il camerismo è una pratica di scrittura secondo la quale la partitura viene pensata per uno spazio piccolo (la camera, appunto). Le partiture cameristiche sono, di conseguenza, quelle che utilizzano pochi strumenti o poche voci: un duo, un trio, un quartetto, un quintetto, un pianoforte che accompagna la voce sola come nel repertorio liederistico, un ensemble vocale ecc… Perché allora dico che ‘Falstaff’, che è un’opera lirica a tutti gli effetti e con uno strumentale pari ai ‘Maestri Cantori di Norimberga’, è una partitura cameristica?
Ovviamente la definizione deve essere presa cum grano salis e nella sua accezione particolare: ‘Falstaff’ è una partitura nella quale poche volte le voci vengono accompagnate dalla totalità dell’orchestra; l’orchestrazione utilizza accorgimenti grazie ai quali il palcoscenico viene sostenuto da micro accenni strumentali, da sezioni isolate, da interpunzioni calibratissime di pochi strumenti. E’ ovvio che per sentire e godere di questa sottilissima scrittura si debba essere in uno spazio che non costringa l’orchestra a suonare sempre forte e di conseguenza i cantanti a cantare sempre forte. Questo Verdi lo sapeva bene, e anche Toscanini, che dopo le proprie esecuzioni di ‘Falstaff’ a Busseto nel 1913 e 1926 ebbe a dichiarare che quello era il vero ‘Falstaff’ e che senz’altro Verdi sarebbe stato più soddisfatto di quella esecuzione che di quella scaligera. Un orchestrale dell’edizione 1913, il Professor Gulio Riccardi, testimonia della felicità ed entusiasmo del Toscanini durante le prove e le recite dell’opera. Anche il Professor Osvaldo Ferrari (per dieci anni violoncellista Alla Scala con Toscanini) testimonia di come abbia visto Toscanini raggiante una sola volta dopo un’esecuzione musicale: dopo il ‘Falstaff’ a Busseto nel 1926. La signora Cina Orlandi ricorda come il Maestro pensasse che solo in uno spazio piccolo come quello del teatrino di Busseto si potesse cogliere la grandezza del ‘Falstaff’. Orio Vergani, inviato speciale del ‘Corriere’ presente alle prove dell’edizione 1926, udì il Maestro rivolgersi all’orchestra in questo modo: “Qui dovete suonare meglio che in qualunque altro posto… Darei qualsiasi cosa perché Verdi potesse sentire Falstaff qui”. Chissà se avrebbe detto la stessa cosa dovendolo dirigere al Farnese…! Sottovalutare, quindi, quello che Verdi scrive nelle lettere, anche en passant, significa ignorare totalmente il suo universo creativo. Verdi non diceva mai nulla per caso riguardo la propria opera, ed aveva idee precisissime su come questa dovesse essere eseguita. I carteggi con Ricordi, Cammarano, Somma, Luccardi, Boito… sono una fonte di indicazioni inestimabile; qui accediamo alla seconda spinosa questione artistica della discussione: tradizione, filologia, edizione critica.
Si è parlato in modo molto sommario e fumoso di edizione critica rossiniana e verdiana, tanto da confondere le idee e tirare l’acqua al proprio mulino. Vorrei cercare di mettere ordine sforzandomi di essere il più chiaro possibile.
Un’edizione critica è la pubblicazione di una partitura così come si ritiene, su basi storiche, che il compositore l’abbia concepita, ma attenzione! Questo non significa che le esecuzioni dell’opera sovrintese dall’autore fossero fedeli alla sua concezione originaria.
Innanzitutto dobbiamo dire che nell’ottocento i compositori erano soliti adattare l’orchestrazione e talvolta l’organico strumentale alle esigenze contingenti di un determinato teatro; mi spiego: quando Verdi allestì per la prima volta ‘Otello’ Alla Scala nel 1887, il solo della fila dei contrabbassi che prelude all’ultima entrata di Otello nel finale dell’opera venne eseguito da un solo contrabbasso (aggiustamento dell’orchestrazione), in quanto l’intera sezione scaligera di quell’anno non era in grado di eseguirlo in modo ‘pulito’. Da notare però il fatto che l’escamotage adottato da Verdi non è entrato nella pratica comune. Toscanini stesso, che alla prima di Otello sedeva in orchestra, nel momento in cui incise l’opera nel 1947, fece eseguire il solo dei contrabbassi a tutta la sezione come scritto in partitura, e non dalla sola prima parte come fatto da Verdi.
Nella discussione dell’altra sera si è affermato che non ci sarebbe bisogno come per Rossini di una revisione critica delle partiture verdiane in quanto Verdi, sovrintendendo alle proprie prime rappresentazioni (non sempre, a dire il vero), fissava quello che avrebbe voluto tramandare. Questo è falso. Verdi veniva a patti, come tutti del resto, con le contingenze che doveva affrontare e accettava le convenzioni teatrali del proprio tempo. A questo punto, dobbiamo tenere presente che molte correzioni che il compositore faceva durante la preparazione dell’opera venivano riportate sulle parti d’orchestra e non in partitura, come ricorda Gianandrea Gavazzeni nei suoi diari pubblicati da Einaudi con il titolo Il sipario rosso. Queste indicazioni spesso sono entrate nell’uso, come certe differenti sillabazioni delle parti vocali approvate dal compositore hanno cominciato a far parte dell’esecuzioni successive e anche correnti; ma siamo di fronte alla tradizione? Nemmeno per sogno! Siamo di fronte a qualcosa di differente e più profondo, si chiama: prassi esecutiva. La prassi esecutiva è tutto quell’insieme di convenzioni avallate dall’autore, motivazioni stilistiche, moduli espressivi ed esecutivi legati al linguaggio dell’epoca che in parte sono rimaste nell’uso odierno, e in parte si sono cancellate essendo state soppiantate dal cambiamento del gusto e dell’approccio. Questo cambiamento si chiama tradizione. Cercherò di spiegare con esempi quanto ho detto.
Nella prassi esecutiva del melodramma italiano ottocentesco, quando la partitura prevedeva la ripetizione identica di una sezione musicale (il da capo di una cabaletta; la ripetizione di una sezione tipo ‘Deserto sulla terra’ ripetuto nella ripresa ‘Ma s’ei quel cor possiede’; la ripetizione interna ad un’aria…), era d’obbligo fare una variazione. Mai in musica (sino al novecento, dove si cerca di scrivere tutto), si danno due pagine musicali esattamente identiche: la seconda doveva essere in qualche modo variata. Ecco che allora si hanno l’acuto della ‘Pira’, le puntature nell’ ‘Ah sì ben mio’ ecc… Addirittura Caruso, in una registrazione dei primi anni del novecento, abbellisce la ripetizione di ‘Bella figlia dell’amore’. Toscanini (nel suo rigore filologico) permetteva tutto questo perché parte di un linguaggio assolutamente fedele allo stile dell’opera. Si presti attenzione, però, a certi passaggi che, anche se possono sembrare identici, hanno già variazioni nell’accompagnamento orchestrale (come la seconda sezione di ‘O tu Palermo’). L’interprete vocale cercherà di aderire con un diverso colore o con un differente accento ai suggerimenti dell’orchestra che, cambiando, modificherà anche l’aspetto psicologico e drammaturgico della pagina. Quindi la variazione esiste ugualmente, viene scritta dal compositore in orchestra e raccolta dalla voce, non sottoforma di cambio delle note, bensì sottoforma di un cambio espressivo. Questa è aderenza allo stile: prassi esecutiva e non tradizione. Si potrebbe continuare all’infinito con degli esempi, ma credo possa bastare quanto detto per far capire come certe convenzioni non trovassero posto in partitura in quanto talmente connaturate al linguaggio musicale quotidiano dell’epoca da non aver bisogno di essere annotate.
La tradizione, invece, è tutt’altra cosa.
L’altra sera se ne è parlato ancora e a sproposito. La tradizione, per cominciare, è sempre malvista dai compositori in quanto sinonimo di inquinamento artistico. E’ noto come Verdi avesse in grande antipatia quegli interpreti vocali e quei direttori che si aggiustavano la partitura nelle dinamiche e nelle agogiche per raggiungere un effetto teatrale maggiore di quello concepito originariamente. Verdi criticava Angelo Mariani (grande direttore d’orchestra e per un periodo grande amico di Verdi), perché nella sinfonia della ‘Forza del destino’ eseguiva in fortissimo un ingresso di tromboni che nell’immaginario verdiano doveva rappresentare la preghiera dei monaci (infatti in partitura c’è scritto pianissimo); Filippo Sacchi, nella sua affascinante ancorché datata biografia toscaniniana, racconta di quando Toscanini andò a trovare Verdi con il baritono Antonio Pini-Corsi (primo interprete di Ford nel ‘Falstaff’). Fra i due era nata una divergenza sul tempo corretto da adottare nella frase ‘Quella crudel beltà sempre è vissuta in grande fede di castità’. Il baritono la attaccava ad un tempo molto veloce non scritto in partitura sostenendo che proprio così gliela aveva insegnata Verdi durante le prove della prima rappresentazione, Toscanini, d’altro canto, voleva rispettare la partitura verdiana. Andarono dunque dal vecchio maestro. Verdi, dopo aver ascoltato entrambi, diede ragione a Toscanini: “Io te l’ho insegnata giusta. Ma un po’ oggi un po’ domani, voi cantanti finite per cambiare tutto!”. E ricordò che quando aveva messo in scena ‘Don Carlos’ a Parigi nel 1867, tornando dopo due mesi non aveva trovato nemmeno uno dei suoi tempi. E così nasce la tradizione!! D’altro canto sempre Toscanini andò un pomeriggio a trovare Verdi a Genova per chiedere chiarimenti sull’interpretazione dei ‘Pezzi Sacri’ che avrebbe dovuto dirigere a Torino in prima assoluta. Suonando al pianoforte il Te Deum, Toscanini accennò ad un ritardando non scritto. Verdi lo fermò e gli disse: “Bravo! Così va suonato”. Toscanini gli chiese perché non lo avesse annotato in partitura, e Verdi rispose che nella musica non si può scrivere tutto, e poi, se lo avesse fatto, i cattivi musicisti lo avrebbero esagerato. Sembra di sentire quello che da li a pochi anni dirà Mahler: “Nella musica si può scrivere tutto tranne l’essenziale”.
Quindi Verdi si contraddice?
Nemmeno per idea. Verdi sa che può affidarsi alla conoscenza dello stile da parte dell’interprete. Toscanini era talmente permeato del linguaggio tardo romantico da incarnare perfettamente lo scritto musicale senza bisogno del suggerimento agogico codificato. Ovviamente, se avesse eseguito Mozart, non si sarebbe preso quel tipo di libertà. Quindi la tradizione è quella somma di sovrastrutture che si sono incrostate su un capolavoro musicale e che partono da vizi, mode, esigenze, voglie degli interpreti e del pubblico come una nota tenuta a dismisura per strappare l’applauso, un acuto messo dove non è scritto per creare un effetto drammatico, il sovrapporre la voce del tenore a quella del soprano per creare un effetto di raddoppio (finale del II atto del Trovatore ‘Sei tu dal ciel disceso’ che dovrebbe essere cantato da Leonora rivolta a Manrico, mentre si sente spesso cantare da entrambi…), lo scambio di parte in un duetto per esigenze di estensione, il gonfiare a dismisura l’orchestrazione sovrapponendo pesi sonori quando non previsti… più certi effettacci veristi che molti cantanti adottano credendo di essere maggiormente espressivi.
La prassi esecutiva e l’aderenza stilistica sono tutt’altra cosa dalla tradizione: sono la conoscenza di quel linguaggio non scritto (perché non c’era bisogno di annotarlo), connaturato alla prassi dell’epoca.
L’edizione critica, quindi, ha un senso non soltanto perché cambia qualche nota o qualche parola come ha detto il sovrintendente Meli ieri sera. Ha un valore inestimabile nel momento in cui dona vita ad un’esecuzione critica. Se un Festival deve difendere il nome di Verdi, come Meli ha affermato nella conferenza stampa di presentazione del VF 2011, lo deve difendere da quei nemici che Verdi considerava tali: la tradizione intesa in senso becero, ossia la perpetrazione di vizi, mode, alterazioni, manipolazioni e caccole che Verdi detestava e combatteva. Il Festival deve riportare l’esecuzione alla verità della prassi esecutiva; questa non è possibile se prima non si passa attraverso l’analisi e lo studio dell’edizione critica.
Come posso credere di mettere in scena un’opera come la voleva Verdi se prima non conosco quello che ha scritto effettivamente perché venisse consegnato ai posteri?
L’edizione critica diventa un punto di partenza fondamentale in quanto restituisce la volontà originaria dell’autore. Questi poi, nel sovrintendere le proprie creazioni, doveva affidarsi al pragmatismo che gli permetteva talvolta di cucire la scrittura vocale sulle possibilità dell’artista di turno.
Quindi la filologia cos’è? Rispettare la partitura del compositore o le sue volontà esecutive qualora non siano conformi allo scritto?
(Voglio ricordare a questo proposito come lo stesso Pietro Mascagni contraddica puntualmente la partitura nelle proprie direzioni – incise e riversate su cd – di ‘Cavalleria rusticana’.)
Il lavoro del filologo sarà quello di riuscire a conciliare le due esigenze: il rispetto della partitura e il rispetto della volontà del compositore, ove questa non sia il frutto di un accomodamento contingente come nel citato solo dei contrabbassi in ‘Otello’. In un’esecuzione critica dovranno confluire tutte le conoscenze che permettono di ristabilire il cammino evolutivo dell’opera sino ad arrivare a capire (per quanto questo possa essere possibile) la volontà creativa originaria dell’autore. Si dovrà integrare la partitura critica con tutte le informazioni tratte dagli epistolari, dai carteggi, dalle testimonianze, dai materiali scenici e musicali. Servendosi del materiale musicale originario e di tutte quelle informazioni di cui disponiamo riguardanti il gusto e lo stile di un’epoca, si potrà tentare un’esecuzione critica. Dire che l’edizioni critiche delle opere di Verdi siano meno fondamentali di quelle di Rossini perché Verdi sovrintendeva personalmente alla creazione delle proprie opere, in quest’ottica, diventa banale, superficiale, e assurdo. Per continuare a parlare di ‘Falstaff’, Julian Budden, nella sua monumentale opera di analisi alle partiture verdiane pubblicata in tre volumi dall’EDT, ricorda come sia durante le prove al pianoforte che dopo la prima rappresentazione scaligera Verdi approntasse ulteriori modifiche alla partitura. Lo spartito utilizzato da Verdi durante le prove è custodito e consultabile al Museo del Conservatorio di Milano donato dal M° Mascheroni (primo direttore di Falstaff). Budden descrive i molti ripensamenti di Verdi nonché come il Maestro, talvolta, venisse convinto da Ricordi e Boito a non dar seguito ad ulteriori correzioni. Solo durante la seconda produzione di Falstaff al Costanzi di Roma la partitura divenne pressoché definitiva. Per diverso tempo Ricordi pubblicò, addirittura, uno spartito sbagliato (oggi preziosissimo!). Quindi il fatto che Verdi sovrintendesse ai propri lavori (non sempre), significa da un lato che si accorgeva degli errori e li poteva correggere in corso d’opera, dall’altro che oggi lo studioso e l’interprete hanno più difficoltà a sapere cosa volesse il compositore in ultima istanza, e cosa in sede di esecuzione venisse accettato per compromesso. La dovizia di informazioni, in questo caso, rende il lavoro del filologo più difficoltoso: riuscire a sintetizzare e riunire in un’ultima e definitiva idea una serie innumerevole di dati talvolta apparentemente contraddittori è faticoso quanto fondamentale. L’esecuzione critica della quale l’edizione critica è ineludibile punto di partenza, nel caso del teatro musicale verdiano, risulta operazione affascinante e di valore inestimabile. La fatica interpretativa viene resa più sopportabile dal lavoro svolto sull’edizione critica, lavoro che ci consente di avere di fronte i varii intendimenti del compositore e poterli inserire in un contesto stilistico pertinente.
Il VF deve difendere il nome di Verdi da chi?
Da chi crede che l’approccio più giusto e fedele sia quello della tradizione: ossia dal VF stesso. Il VF, torno per l’ennesima volta a dirlo, è un luogo nel quale Verdi deve essere eseguito in modo critico e filologico: ossia rispettando quello che lui voleva fosse rispettato, l’integrità della propria opera.
La filologia non è una brutta parola: è il tentativo di affrancarsi da una certa tradizione per inserire l’esecuzione musicale nell’ambito della prassi esecutiva. E’ chiaro che l’edizione critica deve essere solo un punto di partenza per quella che chiameremo esecuzione critica e che prevede tutta una serie conoscenze. Non si tratta di un lavoro facile o comodo: si tratta di ricerca, di approfondimento, di inseguimento continuo di una verità esecutiva che oggi difficilmente si può ottenere. Il VF dovrebbe servire a questa ricerca, e non a perpetrare esecuzioni nel solco della tradizione.
Forse sarò fuori moda e senz’altro fuori dagli schemi vigenti, ma credo ancora che la fatica del ragionamento e del pensiero operante sia un valore capace di portare a qualcosa.
*Sebastiano Rolli, direttore d’orchestra e saggista. Si occupa da anni di melodramma italiano e della produzione verdiana in particolare nei suoi aspetti storici e stilistici.
Un contributo molto ben argomentato. Complimenti all’autore!
Carlo Vitali