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Il significato e il valore di un Festival
Sebastiano Rolli
Lo scopo di una manifestazione monografica di carattere musicale dovrebbe essere quello di porsi come momento di riflessione e approfondimento dell’opera in oggetto affinché ne venga sempre più aiutata la comprensione. Un Festival che vuole celebrare un autore e non se stesso, deve fare in modo di ottimizzare i propri mezzi economici affinché vengano indirizzati alla realizzazione di una serie di iniziative (non importa quanto grandi o mediatiche) atte allo scavo continuo della prassi interpretativa applicata allo stile e al linguaggio dell’autore. Se il compositore in oggetto ha avuto la fortuna in vita di vedere rappresentate in modo continuativo (ossia in modo tale da creare una tradizione) tutte o quasi le proprie opere, ecco che compito del Festival sarà quello di proporre tali lavori attingendo a criteri esecutivi estranei a quelli consueti e praticati in tutte le sedi nelle quali vengano approcciate.
La peculiarità dei criteri dovrebbe attingere alla filologia, ossia a un principio interpretativo che prenda le mosse dall’amore per il pensiero che precede l’esecuzione (I classici nascono con la filologia, e sono condizionati alla filologia. Dove non si ha filologia, non si ha classico, propriamente…così ammonisce Edoardo Sanguineti). Questo pensiero generante dovrebbe essere in qualche modo palesato, spiegato, giustificato, sostenuto con coerenza. L’esecuzione dovrebbe essere il risultato di un percorso critico e la risposta in atto alle domande nate da uno scambio tra il terreno dello spettacolo e quello dell’accademia. Dovrebbe essere la giustificazione visiva e uditiva di scelte condotte sulla base di uno studio profondo e appassionato dell’opera, dello stile, della prassi esecutiva del compositore celebrato: una sua esegesi portata sul palcoscenico. Il momento esecutivo, quindi, come sintesi di un percorso intellettuale ed emotivo senza il quale continuerebbe a farla da padrone la casualità, l’arbitrio, l’improvvisazione lasciata al carisma sempre più discutibile del singolo interprete. In una società nella quale il melodramma non può godere della consentaneità linguistica che aveva con i nostri nonni (I classici sono sempre scritti in una lingua morta…), abbiamo bisogno di un accostamento di tipo culturale e critico: un approccio esegetico che possa riuscire ad illustrare alle nuove generazioni i significati di questa forma espressiva, i simbolismi, i riferimenti storici, la sostanza sociale di un linguaggio teatrale e artistico che ha contribuito a creare una cultura condivisa nella nostra nazione. Compito di un Festival monografico sarà quello di fornire gli strumenti al pubblico per decodificare l’opera alla quale si trova di fronte. Un manifestazione siffatta non deve avere carattere circense, non deve fornire solo intrattenimento, bensì divenire uno spazio di riflessione, di impegno culturale, di dibattito civile, di approfondimento svincolato da qualsiasi tipo di sudditanza commerciale. Il vantaggio economico che si può ricavare da tale impostazione (vantaggio enorme in quanto solo grazie alla peculiarità di una proposta interpretativa differente da quella comune a tutti gli altri teatri si giustificherebbe la scelta di uno spettatore di New York o Berlino o Vienna, Londra, Parigi di recarsi in una cittadina della provincia italiana per assistere alla produzione di un titolo arcinoto che a casa propria potrebbe godersi in modo altrimenti più appagante) sarebbe la diretta conseguenza, e non la causa, di un Festival che volesse improntare la propria programmazione a criteri filologici.
Mettersi al servizio di un autore significa, quindi, presentare la sua opera con il maggior grado di fedeltà allo spirito e alla lettera sulla quale poggia (Un classico vive, a ogni modo, in primo luogo, in traduzione. Anche il più prossimo, tra i classici, opera perché ogni suo lettore lo converte nel proprio codice, non soltanto e non tanto individuale, in arbitrario e caotico soggettivismo, ma storico e sociale, concretamente). Tradire questa consegna presentando un’opera in modo alterato da incrostazioni che spesso ed erroneamente vogliamo chiamare tradizione (Tradizione è traduzione…), significa voler celebrare solo se stessi e servirsi del nome dell’autore per raggiungere illeciti fini. Quante volte potremmo dire dopo essere usciti dal teatro, che conosciamo tutto dell’interprete che abbiamo sentito e nulla del personaggio incarnato? Servire l’autore significa mettere la propria arte a sostegno del contenuto espressivo che ha voluto trasmettere affinché lo spettatore possa uscire dalla rappresentazione avendo la sensazione di conoscere qualcosa in più dell’opera sentita e di se stesso. I grandi autori parlano all’uomo dell’uomo; i grandi Festival debbono essere il loro megafono, consentendo agli uomini di vivere uno spazio fisico e temporale all’interno del quale crescere nella conoscenza di sé e del prossimo grazie all’arte rappresentata che li interpella e conforta. Per fare questo non si deve avere paura di operazioni culturali radicali! I grandi interpreti hanno fiducia nell’arte del compositore che rappresentano, non decidono di riscriverlo, non cercano di sovrapporre il loro dubbio gusto a quanto già scritto sapientemente. Il grande Festival è quello che garantisce tale approccio rispettoso, umile e di estremo servizio. E’ quello che fa parlare l’opera così come possiamo supporre, dopo tanti anni, che l’autore l’avrebbe voluta. E’ quello che crede nel valore della cultura quale atto fondativo di una comunità!