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Gli avvocati e il “Decreto Bersani”
Vincenzo Rosanò
Mi si domanda di fermare una riflessione sulle cosiddette liberalizzazioni decise dal governo in carica.
Mi sono subito interrogato se non ero la persona più sbagliata per svolgere il compito assegnato, io che faccio l’avvocato di malavoglia.
Per prima cosa, desidero confessare la mia insofferenza verso il sentimento corporativo che sempre è in cima al cuore e alla mente del medio individuo italiano e, per quanto riguarda il presente discorso, del medio avvocato italiano.
E’ un sentimento chiuso, di ordine inferiore. E’ una piaga tutta italiana, questa disposizione a difendere ciecamente privilegi e basse prerogative, a discorrere con ardore di stipendi e tariffe, indennità e prebende.
Nel disordine del nostro tempo attuale, troppe cose accadono ogni giorno a un avvocato per cui varrebbe la pena, chi ha natura di persona leale e giusta, di appendere la toga a un chiodo arrugginito.
Io che vorrei un poco almeno essere leale e giusto, l’età per cambiare mestiere se n’è andata.
Di sicuro evito i convegni di diritto, dove chi non abbia smarrito il senso del reale finisce per lottare con la prostrazione e la noia. Cerimoniosi e conformisti, i giuristi parlatori sono quasi sempre dei modesti replicanti. Lontani dalla essenziale vita degli uomini dalla quale il diritto dovrebbe trarre spirito costitutivo e ragione sistematica, si attorcigliano dentro impervie costruzioni teoriche e astratte, fatte ogni volta passare per raffinate sottigliezze. E soprattutto, non finiscono mai di parlare e parlare con un linguaggio imbolsito, infarcito di curiali artifici, compiaciuto di se stesso.
A complicare la vita europea di questi nostri anni recenti, sono piovuti un numero crescente di insensati adeguamenti a direttive comunitarie. Così, la disgrazia dei crediti formativi obbligatori (vuoto ritrovato delle burocrazie ministeriali), che è possibile ottenere con l’esibizione di un preciso numero di timbri di partecipazione a convegni, si è abbattuta sulla esistenza di molti come una punizione biblica.
A quanti avvocati vivono nel doloroso rammarico di questa disappartenenza riesce di voler bene a poche cose della propria giornata di lavoro, che è poi molta parte della vita di ciascun uomo.
E’ un’amarezza che non reca, per il momento, alcun segno di conforto o speranza.
Accade, talvolta, che un giudice, un cancelliere, un avvocato, rivolga la fatale domanda: “del foro di?”.
L’espressione “foro di” procura sempre in me un vivo fastidio, forse perché stretta parente dell’altra espressione, “principe del foro”, che nell’immaginario comune evoca il vecchio avvocato di grido, oratorio paludato e passato per fortuna di moda, e ora l’avvocato di affari intrighi e consulenze, tutto tecnico sbrigativo e purtroppo in piena voga (si dovrà dire, un giorno, quale sciagura sono stati nell’Italia del nostro tempo questi consulenti).
Ma mi è anche cara, la parola “foro”, perché nel quotidiano e solitario dramma della disappartenenza richiama a una tensione alta e forte. Avviene, questo richiamo, tutte le volte che sento pronunciata l’espressione “Libero foro”. Allora guardo alla sconfinata libertà di pensiero cui l’atto generoso e talora non lieve del difendere può affidarsi, anche oltre l’ordine contingente della legge. A patto, però, di una profonda coscienza morale. In questa particolare misura, lontana dalla mistificazione e dall’imbroglio, estranea a tariffe e onorari, quasi mi piace essere un avvocato.
E’ un richiamo religioso, o civile (che è in fondo la stessa cosa), dal quale non arrivano guadagni, né buone relazioni, né speciali solidarietà. Ha il valore di un principio che, come qualunque altro principio, rumorosamente proclamato o silenziosamente praticato, può valere lo spazio breve di una celebrazione o può essere il segno di tutta una vita.
Questo richiamo, al quale io voglio bene e che vedo ogni volta agitato e pubblicamente rappresentato da quanti sono i più pronti ad avvilirlo e disonorarlo, bisogna fermamente sperare che un non lontano giorno rimetta radici nel cuore e nella mente di chi vorrà avvicinarsi al mestiere di avvocato.
Perché senza uno scatto individuale di buona volontà, che sempre muove dal sentimento morale, del magistrato del cancelliere dell’ufficiale giudiziario dell’avvocato tutti insieme, e io parlo qui dell’avvocato essendo giusto in ogni esercizio critico cominciare da sé stessi, nessuna legge più buona e nessuna organizzazione più accorta potranno migliorare lo stato miserevole nel quale la giustizia italiana oggi si trova.
Si dirà che questo mio è un discorso sognante, che la vita di ogni giorno è una questione pratica nella quale i discorsi sognanti non servono a niente. Si dirà che la rata del mutuo, la bolletta del gas, l’assicurazione dell’automobile, i libri di scuola per i propri figli non si comprano inseguendo sogni e alti ideali, ma difendendo tariffe e onorari.
Io penso che quando nelle relazioni tra uomini si depositano parole sincere, quando tra avvocato e cliente si dispiegano essenziali e veritiere parole, tariffe e onorari non servono a niente.
Tariffe e onorari esistono non per assicurare il giusto compenso a un lavoro svolto con serietà e dedizione. Tariffe e onorari esistono per pagarsi costose automobili, barche ormeggiate, comodi viaggi di piacere, cene al ristorante, esistono per compravendere fertili incarichi, andare in giro acconciati come manichini e rifarsi il naso.
Nel tramonto complicato di questa nostra epoca, nella polvere e nello smarrimento presenti davanti ai nostri occhi, mi sembra triste il grido degli avvocati che si leva per protestare unicamente contro l’abolizione delle tariffe minime. Mi sembra triste questo lamento degli avvocati che si dichiarano calpestati nella loro dignità per effetto delle tariffe forensi manomesse dal governo nazionale in carica.
Questa della dignità degli avvocati calpestata dall’abolizione delle tariffe minime è una vuota espressione di parole. Una delle tante vuote espressioni di parole che riempiono il mondo.
Ci sono uomini che passano le loro giornate a pronunciare discorsi altisonanti e vuoti. Trascorrono la loro vita saltando da una tribuna all’altra a declamare frasi. Ora per celebrare la dignità di certuni, ora per affermare l’orgoglio di altri. Senza fermarsi mai, incoronano eroi, agitano vessilli, indicono minuti di raccoglimento, si stringono a minoranze perseguitate, decretano farisaiche premure, sciorinano retorici pensieri.
Spendono la loro vita a stordire il mondo con parole altisonanti e vuote. Mossi, in questa smania, da ragioni varie. C’è chi parla perché ha la lingua in bocca. Altri, le loro calcolate parole piantano nelle orecchie della gente per raggiungere precisi scopi.
E’ così che queste vuote parole hanno finito per riempire le case e le strade del mondo. Hanno generato in una moltitudine di persone false certezze, aspettative puerili, messo la natura a soqquadro.
Sarà ricordata un giorno, questa nostra, come l’epoca in cui si sono spese troppe inutili parole, scritti troppi inutili libri, stampati troppi inutili giornali. Sarà ricordata come l’epoca della confusione e del rumore.
In mezzo a questa confusione e a questo rumore, dove è difficile separare il vero dal falso, il giusto dall’ingiusto, la semplice bellezza dalla volgarità, c’è ora la voce degli avvocati che si leva per protestare contro l’abolizione delle tariffe minime.
Io che faccio l’avvocato, questa protesta non la capisco. Di cose che riguardano il mestiere di avvocato e contro le quali ci sarebbe da protestare e alzare barricate, saprei enumerarne mille. Ma per nessuna ragione al mondo io metterei, tra queste mille cose, tariffe e onorari.
Alzerei barricate contro gli intrallazzi di certi avvocati, l’orgoglio sprezzante di certi giudici, il cinico formalismo di certe sentenze, la mancanza di gentilezza di certi cancellieri, la incrollabile sfiducia di molti clienti. Darei un occhio per avere leggi ponderate e limpide, congegni processuali retti e non asservibili. Ma non muoverei un dito per difendere tariffe e onorari.
Il giorno in cui gli avvocati smetteranno di difendere tariffe e onorari, forse molti giudici scenderanno dalla loro cattedra, spegneranno le luci del loro celebrato palcoscenico, e neanche un poco li sfiorerà il pensiero di sentirsi orgogliosi e sprezzanti. Quel giorno le sentenze arriveranno forse più giuste, i cancellieri diventeranno forse più gentili, i clienti mostreranno sguardi forse più fiduciosi e sereni.
Forse sarà possibile che il volto degli avvocati appaia, quel giorno a molti, più rispettabile e umano.
Vincenzo Rosanò