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PARMA: IL DUCATO

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PARMA: CRONACA DI UNA CITTA’ NEI SECOLI
a cura di Luigi Boschi

Il Ducato
I Farnese
I Borbone
Napoleone
Maria Luigia
I Borbone

Il Ducato
Luigi XII succede in Francia a Carlo VIII e diventa Duca di Milano (1498). Con azione militare condotta da Gian Giacomo Trivulzio, i Francesi conquistano Parma (1499). Fra il 1500 e il 1512 Parma fu tenuta dai Francesi[1] con tirannia e violenza, continuamente lacerata dalle lotte interne. Alessandro Farnese, la cui carriera ecclesiastica fu agevolata all’inizio dalla relazione che la sorella Giulia teneva col Papa Alessandro Borgia, con decreto di Giulio II diventa Vescovo di Parma (1509). A seguito del ritiro dei Francesi dall’Italia dopo la battaglia di Ravenna, nel 1512 lo Stato Pontificio occupa Parma e Piacenza rivendicandone il possesso in quanto parte dell’esarcato di Ravenna restituito alla Chiesa da Astolfo re dei Longobardi. I francesi occuparono di nuovo i territori nel 1515 e Massimiliano Sforza, figlio di Ludovico il Moro, recupera, sotto la signoria Sforzesca, Milano e Parma. Ma nell’agosto del 1521 un esercito papale-spagnolo assediò Parma e ne prendeva possesso in nome di Papa Leone X che morì poco dopo.

Alla sua morte Francesi e Veneziani assediarono di nuovo la città. Il Guicciardini, commissario e governatore apostolico, organizzò la resistenza convincendo la popolazione a soffocare la paura e a correre in difesa della loro libertà. Fu vittoria: 21 dicembre 1521. Il Cardinale Alessandro Farnese rinuncia all’amministrazione della Chiesa di Parma in periodo non precisato; nel marzo del 1534 Papa Clemente VII nomina Alessandro II Farnese, Vescovo della città. Alessandro I Farnese diventa Papa col nome di Paolo III (ottobre 1534) e dona la porpora cardinalizia al nipote Alessandro II.

I farnese

 

Con decreto di Paolo III il 26 agosto 1545 viene creato il Ducato di Parma e Piacenza, staccandone il relativo territorio dallo Stato pontificio: il Ducato fu affidato ai Farnese. Il nome trae origine da una località “Farnese” o di “Farneto” al confine tra il Viterbese e la Toscana. Il nome deriva dagli stessi boschi di farnie, una specie delle querce.

Una famiglia di origini medioevali che ha sempre difeso cariche e predominio con la spada in pugno. La ricostruzione genealogica medioevale vede un certo Pietro intorno al 1100, padre di un certo Prudenzio che verso il 1154 fu Console di Orvieto. Per secoli avevano seguito il mestiere delle armi come condottieri e gradualmente si erano costituiti un ricco dominio nell’Italia centrale. Alessandro il fondatore della nuova dinastia, s’avviò alla carriera ecclesiastica raggiungendovi il più elevato grado. Una famiglia che nel suo apogeo diede un grande Papa, un grande Cardinale, un sommo capitano.

La dinastia che regnò nel Ducato per circa 200 anni, ha dato un’impronta propria all’identità della città, non elaborata nel solco della cultura parmense: nasce un periodo di dimensione europea per Parma.

 

 

Pier Luigi Farnese

Il primo Duca fu Pier Luigi Farnese, figlio naturale del Papa Paolo III, da lui avuto, quando era ancora laico. Mostrò subito durezza nei confronti dei feudatari: li obbliga ad abitare in città, un tribunale gestisce le contese fra signori e sudditi, istituisce milizie popolari. Favorisce invece la borghesia e si fece portavoce dei propri sudditi. Pier Luigi cercò infatti di porre un freno alla prepotenza dei feudatari, favorì la giustizia, l’agricoltura, l’edilizia e gli scambi commerciali. Riorganizzò lo stato sui modelli della costituzione milanese e particolare cura ebbe oer l’amministrazione finanziaria. Contro i feudatari mostrò durezza: occupò il feudo romagnese del ribelle conte Dal Verme; confiscò lo stato di Cortemaggiore al conte Girolamo Pallavicino; custodì, occupandoli, i feudi dei Fieschi. Cercò di fortificare le due città per la difesa contro i Gonzaga e Carlo V: iniziò la fortezza della cittadella di Piacenza. Nell’amministrazione volle vicino a sé persone estranee alla cultura parmigiana e piacentina. Si inimicò la nobiltà, in particolare quella Piacentina, che organizzò una congiura con l’aiuto dei Gonzaga e di Carlo V. Fu ucciso a Piacenza il 10 settembre 1547.[2] Alla sua tragica morte, il Papa riportò il Ducato sotto lo Stato Pontificio vista l’immediata occupazione di Piacenza da parte del Gonzaga, nemico personale dei Farnese, in nome dell’imperatore Carlo V, che ne rivendicava il possesso e che da sempre, di malanimo, aveva visto Pier Luigi, Duca. Solo in atto di morte Papa Paolo III, per opera del cardinale Alessandro Farnese, restituì il Ducato al successore di Pier Luigi, il figlio Ottavio, Carlo V disapprovando.

 

Ottavio Farnese

Ottavio, poi detto il Licurgo, iniziò fin da subito una intensa attività diplomatica unitamente ad opere di difesa militare e architettoniche. Per il Ducato poteva contare all’inizio sull’appoggio politico e economico del nuovo Papa Giulio III che aveva riconfermato il volere del suo predecessore. Il Papa gli alienò però ogni favore e gli mosse guerra, dichiarandolo ribelle, quando Ottavio aderì all’alleanza con Enrico II di Francia. Nel 1551 la città fu assediata e ridotta alla fame dai Gonzaga; Colorno occupata. La posizione finanziaria del ducato era disastrata tanto che dovette muoversi la moglie, figlia di Carlo V, Margherita d’Austria, vedova di Alessandro de’ Medici, da cui ebbe il figlio Alessandro. Ottavio ricompone l’alleanza col Papa Paolo IV e stabilì buoni rapporti con Filippo II dopo che Carlo V si era ritirato. Nel 1556 col trattato di Gand, Piacenza tornò a far parte del Ducato. Fondamentali furono i patti segreti di quel trattato che prevedevano la sudditanza politica dei Farnese alla Spagna e l’obbligo da parte di Ottavio di salvaguardare i beni (comprensivo dell’eventuale loro acquisto a valore di mercato) e la vita dei congiurati che avevano ucciso il padre. Fu stabilito inoltre che alla fine della discendenza maschile dei Farnese il Ducato di Parma sarebbe tornato alla Corona di Spagna. Nei suoi quarant’anni di governo cercò di rendere autonomo finanziarmene il ducato dallo Stato Pontificio. Fu paterno col popolo, moderato con la nobiltà, ma cercò di indebolirla. Si scontrò in particolare coi Landi e i conti piacentini Scotti. Curò il pubblico interesse introducendo nuove produzioni e tutelò la giustizia con l’istituzione di un supremo Consiglio. Furono eseguite grandi opere: acquedotto, risistemato il giardino ducale, costruita l’Annunciata dal Fornovo, il palazzo ducale. Morì nel 1586.

 

Alessandro Farnese

Alessandro Farnese fu cresciuto alla corte di Bruxelles, poi in quella di Madrid dove si dedicò alle scienze militari e divenne caro a Filippo II. Trionfò quando gli si arrese Anversa nella lotta tra Cattolici e Protestanti nei Paesi Bassi. Alla morte del padre Ottavio, venne a Parma, ma vi restò poco per gli impegni di guerra; Filippo II non voleva che abbandonasse gli impegni negli scontri in Europa. Lasciò così la reggenza a suo figlio Ranuccio, di soli 17 anni avuto da Maria del Portogallo. Alessandro fu prodigo di consigli a Ranuccio che da lontano indirizzava. Gli ordinò di prender possesso dello Stato Pelavicino con capitale Busseto. Dovette affrontare, un gravoso indebitamento e la carestia che colpì Parma tra il 1588 e il 1593. Costruì la Cittadella, una fortezza, che portò lavoro a 2.500 persone. Muore di cancrena nel 1592 a seguito di ferita in guerra.

 

Ranuccio

Con Ranuccio, il Ducato perde la sua importanza europea, ma rimane pur sempre tra le maggiori potenze italiane. Nei suoi anni esplodono tutte le contraddizioni economiche e sociali che si erano accumulate. Da giovane gestisce su indicazioni del padre, impegnato in guerra, le sorti del Ducato. Si avvale di uomini nuovi, spregiudicati, avidi di potere. Uno su tutti Bartolomeo Riva, il Tesoriere generale dello Stato, la vera eminenza grigia del potere. Assicurò ai propri parenti il monopolio del grano e della macina del Piacentino.

Corruccioso, collerico e obeso, “studiava l’arte di farsi piuttosto temere che amare; i suoi sudditi oltre al timore aggiungevano anche l’odio.” Il duca soffriva di un male inguaribile, forse l’epilessia. Sposato con la duchessa Margherita Aldobrandini, è frustrato nel suo desiderio di paternità, in quanto la moglie non riusciva a portare a termine le gravidanze. Rimane vittima di truffe volgari e la sua religione bigotta è intrisa di streghe, voti, reliquie. Continuando le inimicizie, come i suoi predecessori, con i feudatari, riservò a se il diritto di caccia su tutti i terreni: dal Baganza all’Enza, dalla via Emilia fino a Badia Cavana, boschi di Sala, Collecchio. Di lui si ricorda la cosiddetta “congiura dei feudatari”. Con una orchestrata, sembra dagli atti, montatura di congiura, senza distinzione fra intenzione e azione, complice il severissimo inquisitore Filiberto Piosasco, con una istruttoria intrisa di tortura, gli accusati furono tutti condannati a morte, rei di lesa divina e umana maestà, e i loro beni confiscati. Mozzate le teste, furono infisse ai chiodi del patibolo, posto in piazza Grande (tra l’attuale via Repubblica e Piazza Garibaldi). Furono condannati a morte: Barbara Sanseverino, suo marito Orazio Simonetta, il figlio Girolamo, il nipote Gian Francesco San Vitale, i conti Alfonso San Vitale, Pio Torelli, Giambattista Masi.

Ranuccio, la decapitazione, l’aveva voluta spettacolosa, a monito dei suoi nemici. Il suo gesto destò scalpore in tutte le corti italiane.

Nell’amministrazione del Ducato emanò le Costituzioni che fissarono la struttura dello Stato. L’attività economica non fu florida, anche per la grande crisi europea; la moneta di Parma perse il 20% sugli altri Stati. L’indebitamento del Ducato era elevato, ma riuscì a dimezzarlo durante il suo regno. Crea a Roma il “Monte Farnese” un istituto di credito. Si impegnò per lo sviluppo delle fattorie, già iniziate da Ottavio, in modo da avere prodotti a basso prezzo. L’edilizia registra un certa vivacità e autosufficienza. La cartiera di Mariano, le saline di Salsomaggiore, le Ferriere piacentine non riuscivano ad avere ripresa economica. La crisi della lana era estesa a tutta l’Europa e Parma soffrì questa congiuntura. Costruisce la Pilotta, la città nella città (1602), il teatro Farnese, il Collegio dei Nobili, per l’educazione dei figli dell’aristocrazia italiana e straniera. Riordina l’Università, che affida ai Gesuiti; termina la Cittadella. Dopo anni di attesa, il figlio primogenito nasce sordo muto. Sembrava destinato a succedergli il figlio illegittimo Ottavio, molto popolare e amato. Nasce, tardivo però, il figlio legittimo Odoardo. Ottavio fu relegato nella Rocchetta e vi morì. Il Duca muore nel 1622. Muratori, negli Annali di Parma, parlando del Duca Ranuccio Farnese, annotava che “pur essendo di alti spiriti e gran politico, nutriva cupi pensieri, macinava continuamente sospetti, per i quali inquietato egli, neppur lasciava la quiete altrui, studiava l’arte di farsi più tosto temere che amare, severo sempre ne’ castighi e difficile alle grazie, in modo tale da essere ben rimeritato da’ sudditi suoi, perché al timore da lui voluto aggiungevano anche l’odio. L’odio e lo scetticismo, indolenti, come ora ancor sono, così poco amanti delle lettere, così poco valorosi nelle armi, siccome il dominio di costui avvilì all’estremo una nazione, che era di gran cose capace”, secondo il parere dell’Affò, in una lettera confidenziale

 

Odoardo

Odoardo era molto giovane quando morì il padre. Assunse la reggenza lo zio cardinale Odoardo, alla sua morte passò alla vedova duchessa Aldobrandini, fino al 1628, quando suo figlio Odoardo maggiorenne divenne duca. Sposò Margherita de’ Medici, figlia quindicenne di Cosimo II, granduca di Toscana. Per l’occasione fu inaugurato il teatro Farnese il 21 dicembre in onore degli sposi, mentre il Comune fece costruire l’attuale arco di San Lazzaro. La peste bubbonica decimò la popolazione che passò da 40.000 a 20.000. Obeso, irriflessivo e impulsivo, voleva imitare le gesta dell’avo Alessandro. Sensibile ai richiami dell’abile diplomatico Richelieu, si allea alla Francia, promuove una lega contro la Spagna convincendo i principi dei ducati di Mantova, Modena e i Savoia. L’allestimento dell’esercito con 6.000 fanti lo costringe a contrarre prestiti con banche e mercanti mentre i sudditi di Parma soffrivano per le forti tassazioni imposte. Combatte gli spagnoli a Piacenza. Viene sconfitto, Piacenza occupata. Francesco I d’Este lo sconfigge a Parma. Ripara in Francia a chiedere aiuto, ma poco o nulla ottiene. Il Papa Urbano VIII interviene, induce il Farnese a cessare la guerra e a sottoscrivere la pace con la Spagna (1637). Sciolta l’alleanza con la Francia i territori ritornano liberi dagli spagnoli. Il Papa vuole che il Farnese rientri dal pesante indebitamento e gli propone di cedere Castro ai Barberini per saldare i debiti. Castro non si cede e inizia la guerra allo Stato Pontificio. Odoardo viene scomunicato. La guerra si trascinò. Interviene Mazzarino che convince il Papa a togliere la scomunica e a restituire Castro al Farnese.

Con lui la politica farnesiana si restrinse alla difesa e sopravvivenza dei feudi; l’indebitamento del casato e del Ducato esplose, l’istituto di credito “Monte Farnese” tracolla. Muore di apoplessia nel 1646.

 

Ranuccio II Farnese

Ranuccio II non era in età quando il padre muore. Prima lo zio cardinal Francesco Maria, poi la madre Margherita de’Medici, governarono il Ducato. Passarono due anni e Ranuccio II maggiorenne divenne duca. Trova un ducato disastrato economicamente. Si conservò neutrale tra Francia e Spagna accollandosi i costi degli eserciti di passaggio. A sostegno dei creditori le truppe papali strinsero d’assedio Castro che capitolò dopo lunga battaglia e venne rasa al suolo dall’esercito di Innocenzo X. L’esercito farnesiano invase Bologna (1649), da cui dovette fuggire e Gaufrido, il comandante, arrestato e giustiziato, reo di violenze contro lo Stato della Chiesa, contro il volere del Duca. Ranuccio II dovette cedere allo Stato Pontificio tutti i suoi beni e domini entro i confini di questo, con diritto di riscatto entro otto anni, previo pagamento in una sol volta di tutta la somma convenuta. Non ce la fece. Gli venne in aiuto la Pace dei Pirenei tra Francia e Spagna (1659) in cui le due potenze si impegnavano a una proroga e al pagamento in diverse rate. Quando nel 1666 suoi emissari si presentarono per versare la prima rata si videro respinti. I Farnese avevano perso il ducato di Castro. Con quelle risorse Ranuccio II comprò il principato di Bardi e Compiano da Gianandrea Doria Landi. Il Ducato fu vessato per lunghi anni dal mantenimento di truppe tedesche; fu letteralmente invaso dalle truppe imperiali condotte dal Principe Eugenio di Savoia, durante l’aspra guerra tra Vittorio Amedeo II di Savoia e la Francia. Ogni tributo ricadeva sulle terre di proprietà dei laici, mentre rimanevano esenti quelle ecclesiastiche.

La sua amministrazione per certi lati positiva non riusciva però a sviluppare una economia forte. Cercò di ovviare alla disoccupazione crescente, finanziò un nuovo filatoio in grado di impiegare oziosi e vagabondi e, attraverso la Congregazione, cercò di provvedere meglio agli alimenti del popolo. Sciolse da ogni obbligo i servi della gleba nei confronti dei signori. Prese provvedimenti a seguito della inondazione del Po nell’autunno del 1654; bonificò terreni. Favorì le industrie e il commercio, la lavorazione della seta a Piacenza. Iniziò ricerche minerarie per lo sfruttamento dell’olio di pietra, di cui erano state trovate vene nel parmigiano e nel piacentino, cercando di produrre l’olio di sasso utile per l’illuminazione e il riscaldamento. Predispose gli Archivi Pubblici con l’obbligatorietà del deposito di scritture e atti notarili, curò l’Università e il Collegio dei Nobili, dove insegnarono i migliori cervelli, fondò l’Accademia degli Scelti per la drammaturgia. Nel 1668 inaugurò il Teatro Ducale. Istituì il Visitatore generale, un magistrato, a cui poteva rivolgersi chiunque si ritenesse danneggiato, con l’incarico di rivedere e ponderare le operazioni del ministro della giustizia.

La corte nascondeva il vuoto politico, economico e l’incidenza nella politica internazionale e nazionale. Infatti nonostante le difficoltà finanziarie e l’indebitamento era numerosissima, fu una delle più sfarzose d’Europa, il cui mantenimento imponeva tasse sul sale, sul numero delle finestre, sulla carta bollata. Al lusso della corte si contrapponeva la pretesa dai sudditi di costumi morigerati e economia all’osso. Appassionatissimo di musica chiamò i più celebri cantanti, ballerini, suonatori, dando feste, spettacoli, conviti, balli, celebrazioni. Fuga dalle emergenze drammatiche e rifiuto della realtà? Si sposa ben tre volte[3] e ha dodici figli. Il primogenito Odoardo muore nel 1693 dopo aver avuto in moglie (1690) Dorotea Sofia di Neuburg (negli annali rimasero famosi i festeggiamenti per quel matrimonio) da cui ebbe una figlia: Elisabetta Farnese.. Schiacciato da una mostruosa pinguedine, muore nel 1694 quasi d’improvviso. Di lui in epoca successiva il Du Tillot disse: “principe saggio e rispettabile, vero padre del suo popolo”.

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Francesco Farnese

Francesco (1694-1727) il secondogenito succede al padre a 17 anni. Il Ducato è continuamente depredato dalle truppe tedesche, non si riesce a far fronte ai debiti; le gioie di famiglia impegnate al Monte di Bologna. La presenza dei militari non era più sopportabile e Francesco accettò di pagare una ingente somma, purché se ne andassero. Si appellò a tutte le classi sociali, comprese quelle ecclesiale. Applicò nuove tasse anche sulle parrucche e sui bonetti (ornamento da testa per le donne). Sopprime inutili cariche di corte e si sbarazza di musici, ballerini, buffoni. Sposa la cognata, la vedova del fratello Odoardo, Dorotea Sofia di Neuburg, secondo la volontà del padre, evitando così la restituzione della ricca dote e mantenendo buone relazioni con l’Austria.

La spesa per cacciare le milizie tedesche fu inutile. Nel 1700 Filippo V di Borbone fu proclamato re a Madrid e nella guerra tra Francia e Spagna contro l’Impero, le truppe tedesche tornano nel ducato. Francesco, chiede aiuto al Papa Clemente XI, che invia truppe papaline con gran giubilo popolare. Nonostante la dichiarata neutralità nello scontro, il Duca fu costretto però al mantenimento dei militari. Il Papa disapprovò e minacciò di scomunica gli invasori. L’imperatore Giuseppe I rivendicò i diritti dell’Impero sul Ducato di Milano e sugli Stati di Parma e Piacenza. Il Ducato era in pieno declino. Ma il vento sta per cambiare, per circostanze fortuite, così come cambieranno le sorti di Parma. All’arrivo a Milano delle truppe franco-ispaniche guidate dal duca Louis Joseph de Vendôme, Francesco inviò in sua ambasciata il vescovo di San Donino, conte Alessandro Roncovieri, letterato autore di un’opera su Luigi XIII. Il vescovo portò con sé il suo segretario, un prete piacentino figlio di un ortolano: Giulio Alberoni che divenne amico e confidente di Vendôme, il quale promette al Vescovo che Parma sarebbe rimasta lontana dalla guerra. Quando arrivò a Cremona Filippo V re di Spagna, Francesco accorse con la sua corte (600 e più persone) a ossequiarlo. I Duca ritornò a Piacenza compiaciuto degli onori e cortesia ricevuti. L’Alberoni tenne informato il duca sul corso della guerra e consolidò l’amicizia con Vendôme. Francesco per gratitudine gli dà il titolo di conte e lo nomina suo residente alla corte di Spagna, dove entrò nelle grazie di Anna Maria Orsini, cameriera mayor della regina Luisa Maria di Savoia, moglie di Filippo V, che morì in giovanissima età. L’Alberoni e la Orsini si adoperarono perché il sovrano chiedesse in sposa Elisabetta Farnese, nipote di Francesco, figlia di Sofia di Neuburg e del defunto Odoardo. Il 16 settembre 1714 si celebrarono a Parma per procura le nozze. Poi partì per la Spagna e il suo viaggio durò tre mesi. Ottenne il successo previsto quando il Sovrano la vide. Divenne guida al suo fianco con una esperienza e una scaltrezza impreviste. Con Alberoni divenuto Cardinale e Primo Ministro si misero a riformare lo Stato spagnolo. Il duca Francesco esultava e richiedeva un intervento degli spagnoli in Italia a Parma e in Toscana, dove gli austriaci si erano inoltrati, depredando le terre. Con la pace di Utrecht (11 aprile 1713), l’Austria aveva preso il predominio in Italia occupando il regno di Napoli e il ducato di Milano. Avrebbe voluto il Duca opporre agli Austriaci, una lega degli Stati Italiani alleati con Francia, Spagna e Inghilterra. La morte della regina Anna d’Inghilterra (1714) e quella di Luigi XIV in Francia, stroncarono il piano. Anzi Il reggente di Francia Filippo d’Orléans, Inghilterra, Olanda, Impero Austriaco, si strinsero nella Quadruplice Alleanza. L’Alberoni, a ragione, era allarmato per le conseguenze degli ambiziosi programmi che Francesco al Sovrano via Elisabetta. Cercò di frenare la missione finché gli fu possibile. Quando la posizione della guerra prese il sopravvento, consapevole dei rischi, preferì indirizzare la flotta spagnola sulla Sardegna, già dominio ispanico, nonostante le insistenze di Francesco affinché sbarcassero nel Regno di Napoli. La Sardegna fu conquistata in poco tempo (1717), la Sicilia un anno dopo (1718). Violenta fu la reazione della Quadruplice e implacabile fu contro l’Alberoni, di cui si volle l’allontanamento. Una pace equa le potenze alleate erano disposte a concluderla a patto che l’Alberoni fosse allontanato dalla Spagna. A Francesco e a Elisabetta non parve vero di riuscire a farla franca, cacciarono l’Alberoni dalla Spagna (1719), dove tentarono di assassinarlo; in Italia fu braccato dagli agenti dei Farnese, dei Francesi, degli Inglesi, ma riuscì a far perdere le sue tracce.[4] La curia vescovile istruisce un processo a suo carico con pesanti capi d’accusa. Elisabetta, nel congresso di Londra (1718), confermato poi nella pace dell’Aia (1720), seppe trarre i vantaggi, dall’allontanamento dell’Alberoni. Vennero accordati al suo primogenito Don Carlos il Granducato di Toscana e il ducato di Parma e Piacenza, in quanto era nipote del duca Francesco e discendeva da Margherita de’ Medici. Protestò il Duca, protestò il Papa, ma non vennero ascoltati. Il duca Francesco muore improvvisamente nel 1727 a Piacenza, senza eredi. Nella sua amministrazione, nonostante la politica militare e le devastazioni delle truppe straniere, si fecero economie e provvedimenti atti a migliorare le disastrate casse ducali. Non furono da meno l’attenzione agli studi e alla arti. Collezionò una delle più importanti quadrerie d’Europa. Dotò il Ducato dell’Ordine Cavalleresco di san Giorgio, con sede conventuale nella Chiesa della Steccata.

 

Antonio Farnese

Antonio, fratello di Francesco, succede al fratello. Di tutt’altro si era occupato. Il governo del Ducato non lo aveva minimamente toccato. Si interessava di cibo, feste, partite a carte, passeggiate, dame. Diciottenne partì nel 1697 per un lungo viaggio per le corti italiane e europee; ritornò a Parma dopo il carnevale di Venezia nel 1700. Le sue amicizie e relazioni non furono adeguatamente valorizzate dal fratello che preferì lasciarlo vivere fuori dalla politica del potere. Viveva a Sala Baganza e il castello era stato cinto di un magnifico parco. Aveva buon gusto e sensibilità che indirizzava a collezioni d’arte, teatro. La pinguedine era oltremisura, così come il cibo che divorava. Morì improvvisamente, causa una indigestione malcurata il 20 gennaio 1731. Pensando che sua moglie Enrichetta d’Este fosse incinta lasciò erede universale suo figlio postumo. In mancanza di figlio o figlia, erede sarebbe stato la prole maschile di Elisabetta Farnese. Già nel 1729, Elisabetta preoccupata per le relazioni con gli Asburgo che consideravano Parma loro feudo, col trattato di Siviglia rafforzò quello precedente di Londra. Inghilterra e Francia sarebbero intervenute qualora fosse venuto meno il rispetto delle successioni di Toscana e Parma. Pochi giorni dopo la morte 3500 tedeschi occuparono il Ducato. Andò in scena la commedia della finta gravidanza, sostenuta soprattutto dall’Impero che avrebbe voluto evitare di avere gli spagnoli nei territori italiani. Iniziò così una estenuante e ridicola attesa e così, in farsa finì la casata che aveva regnato nel ducato. Il 29 dicembre 1731 di fronte ai feudatari e ai sovrani ebbe luogo la consegna dei ducati nelle mani di Dorotea Sofia (vedova del duca Francesco, madre di Elisabetta), reggente e tutrice dell’infante Don Carlos.

 

E’ certo che Giulia (1475 – 1524) e Elisabetta Farnese (1692 – 1766) furono donne fondamentali nella casata che governò il Ducato di Parma e Piacenza. Attraverso la prima i Farnese si avvicinarono al potere ecclesiastico. Si dice che Alessandro non sarebbe diventato cardinale se Giulia non avesse alzato la gonna al Borgia Papa. E da lì iniziò un lungo periodo di splendore e potere. Alessandro divenne Papa Paolo III, Pier Luigi Duca di Parma, Alessandro II vescovo e cardinale. Alla seconda, i cui inizi sono resi duri dalla morte del giovane padre Odoardo, le si aprono improvvisamente, attraverso l’Alberoni, le vie dell’Impero. Sposa Filippo V re di Spagna e i suoi figli Borbone divengono duchi di Parma e Piacenza, della Toscana, re del regno di Napoli. Con Elisabetta si ebbe inoltre una vera e propria gestione politica delle successioni. Due donne da cui si snoda un potere in Europa durato circa 350 anni: dal 1509 al 1859.

 

 

Cultura e arte alla corte Farnese.

Con i Farnese l’architettura ha preso una dimensione di grandiosità per enfatizzare la potenza di questi duchi. Si ricorda la chiesa dell’Annunciata (G.B. Fornovo 1576), il collegio della Compagnia di Gesù (oggi l’Università), la Cittadella e il Collegio dei Nobili affidato ai Gesuiti e, nel 1584, il nuovo palazzo ducale della Pilotta.

Un notevole sviluppo conobbe la scuola di musica e l’esecuzione di essa con l’istituzione della Cappella Musicale con le prime orchestre di canto (1564) come base delle future compagnie strumentali parmigiane che resero Parma celebre in tutto il mondo. In questo clima è nato il teatro Farnese. Notevole sostegno ebbero l’Università e l’Almo Collegio dei Teologi.

I Farnese con il loro carattere intriso di irrequietezza politica, lo spirito dell’intrigo, l’ambizione, determinarono la cultura politica della città e posero le basi dello stato moderno, rispetto a quello feudale e medievale. Ma gli abitanti, da cittadini, divengono sudditi e la società civile esce dalla storia di Parma come una delle forze significative delle scelte amministrative e politiche della città. Qualunque opposizione alle norme ducali, a causa di una reazione violenta da parte del Duca, sembrò spegnersi in una generale accettazione dell’ordine costituito.[5] Rimane, invece, intatta quella cultura popolare dell’Oltretorrente e dei borghi che ha camminato parallela alle espressioni della cultura del potere e della classe borghese che ormai mostrava i segni di una società interculturale. Si sono venute gradualmente specificando le due anime di Parma: la borghese e la popolare.

Con l’estinzione di casa Farnese, secondo gli accordi del trattato di Gand (1556), divenne Duca di Parma Carlo di Borbone, figlio di Elisabetta Farnese. Ma presto questo duca lasciò Parma per il Regno di Napoli, con grave danno della cultura della nostra città, perché la ricca collezione artistica farnesiana seguì il Duca a Napoli, come anche arazzi preziosi dei palazzi ducali e l’intero archivio farnesiano. Fu questa la prima spoliazione sistematica del grande capitale artistico e culturale di Parma col quale i Farnese avevano arricchito la nostra città. Seguirono nel tempo la seconda spoliazione realizzata da Napoleone e la terza realizzata dalla casa regnante dei Savoia negli anni 1860.

 

La Chiesa di Parma

 

La Chiesa di Parma, nel periodo della Controriforma iniziata col Concilio di Trento (inizio 13 dicembre 1545 chiude nel 1563)[6], aveva acquisito un notevole prestigio sociale, oltre che religioso, ma, purtroppo, l’esplicitazione di queste potenzialità è stata bloccata perché esercitata senza dar segno d’indipendenza dal potere politico assoluto, anche quando erano in ballo degli autentici drammi di persone. Questo atteggiamento potrebbe essere stato favorito anche dalla presenza a Parma di Vescovi della casa Farnese o comunque, di origine nobiliare. Questo aspetto di notevole rilievo sociale, potrebbe aver dato origine, tra l’altro, a una deprivazione dell’autorevolezza del Vescovo. L’espressione dell’autorità verso la società era concentrata nel potere del Duca: non pare che al Vescovo, in sostanza, fosse riconosciuto né il diritto di parola, né il giudizio morale pubblico sui fatti della vita della città e del territorio che, in qualche misura riguardava il potere, e, tanto meno, di censurare atti assai discutibili, quando non di inaudita crudeltà, compiuti dai duchi.

La memoria aiuta a capire le radici di una marginalità e di una subordinazione e come esse siano stati tra i fattori, in forza dei quali, assieme ad altri che compariranno nei secoli seguenti, la nostra Chiesa di Parma non sia mai diventata totalmente una Chiesa di popolo, cioè una comunità ecclesiale che si facesse carico, autorevolmente, dei problemi religiosi, ma anche di quelli sociali, della propria città, come delle campagne, per stimolare con la propria autorità morale le istituzioni ad un comportamento attento alle grandi fasce di povertà sia dei borghi della città che delle campagne. Questa situazione potrebbe essere considerata come una delle cause che hanno segnato, come una pietra, l’evolversi della Chiesa parmense in modo parallelo al potere civile e forse di un certo qual timore reverenziale di fronte alle classi colte e alla borghesia della città, fino a tempi recenti. In sostanza, Vescovi e Presbiteri pare abbiano operato quasi esclusivamente su temi interni alla comunità ecclesiale, ma anche attenti ai problemi economici di una Chiesa, diventata uno dei più potenti proprietari terrieri, grazie, oltre che ai lasciti, dalla legge della mano morta che esonerava i benefici ecclesiastici dalle tasse. Non è stata rinvenuta memoria né in testi né in documenti relativi a Vescovi, a Presbiterio a religiosi (neppure nell’Oltretorrente) che in questo periodo abbiano pubblicamente denunciato i drammi della povertà cittadina e delle campagne. Di qui dunque, l’incertezza che ricadeva sulla qualità della vita della gente e sulla soluzione di problemi che, essendo realtà complesse, avrebbero richiesto un’accorta interazione di tutte le forze in gioco, comunità ecclesiale compresa. Una percezione da parte della gente di uno scostarsi della Chiesa dall’insegnamento del Vangelo, continuerà a gravare e ad essere trasmesso da una generazione all’altra e si risolverà in una rivolta seguita da anticlericalismo e da secolarismo della stessa classe operaia e contadina alla fine dell”800. Questo potrebbe essere uno dei temi su cui purificare la memoria della Chiesa di Parma, seguendo il percorso profetico espresso da Giovanni Paolo II nella prima Domenica di Quaresima del 2000. Interventi per risolvere condizioni miserrime presenti in Oltretorrente non pare siano state realizzate neppure da parte della Comunità ecclesiale di Parma. Probabilmente questa situazione è stata una delle cause del distacco della classi socialmente meno abbienti dalla Chiesa.

 

Questo tema, infatti (che è una delle radici di un atteggiamento sociale negativo della Chiesa di Parma), mai criticato e pubblicamente rigettato (sul modello della richiesta di perdono di Giovanni Paolo II), aveva operato in modo negativo anche sui comportamenti di alcuni strati del clero e, di conseguenza, un mancato avvio a soluzione delle condizioni miserrime presenti nell’Oltretorrente. Si vedrà in seguito come sia stato il Du Tillot, osservando la vita grama dei contadini e il numero crescente dei poveri, a fronte delle estese proprietà terriere dei conventi, dei canonicati, etc. che non pagavano le tasse, essendo sotto il regime della “mano morta”, a sopprimere questi conventi tra le rivolte del Vescovo e del clero. Questi atteggiamenti hanno continuato ad essere presenti nel fondo della cultura del rapporto tra clero e istituzioni. E’ rimasto drammaticamente e pensosamente famoso un caso del secolo XX, la soppressione, da parte dello Stato, del Consorzio dei vivi e dei morti della Basilica Cattedrale con i beni che furono confiscati e venduti dallo Stato e, col ricavato, fu costruito l’Ospedale Maggiore.

 

 

Verso la fine dell’età farnesiana, in piena decadenza, nei conventi maturavano nuovi fermenti culturali. Nell’abbazia benedettina di San Giovanni si formò l’Accademia degli Elevati, un centro produttivo culturale. Parma diventò centro di attenzione della cultura europea per l’opera di Benedetto Bacchini. Il frate, aiutato da padre Roberti, realizzò il Giornale de’ Letterati, una rivista periodica che recensiva i libri editi in tutta Europa di particolare novità culturale e scientifico. La rivista trattava soprattutto delle scienze: dalla storia, alla medicina, alla botanica, alle matematiche, alla fisica, alle scoperte tecnologiche.

Una iniziativa imponente che richiamò l’interesse sulla nostra città di studiosi. Si pensava agissero un gruppo di intellettuali di grande preparazione e sensibilità al nuovo, mentre erano solo in due frati. Le pubblicazioni iniziarono nel 1686 e durò fino al 1690. Dovette fuggire da Parma e rifugiarsi nel monastero di S.Benedetto in Polirone. Continuò a Modena nel 1692. Bacchini fu uno dei grandi riformatori spirituali e morali dell’epoca; una avanguardia che indicava nuovi tempi e che si sarebbe usciti dall’isolamento culturale.

 

Nonostante questo, fino alla metà del secolo XVIII l’unità della religione cristiana indirizzata prevalentemente su una prassi morale, era sostanzialmente mantenuta, quanto a comportamento pubblico. Il primo avvio all’incontro esistenziale con Cristo era assicurato dalle madri di famiglia e dalle nonne, poi arrivavano i Parroci con i dieci Comandamenti e la vita sacramentale: Dio, la Madonna e i Santi (non Cristo in uguale maniera!) era di casa nella famiglia e nella società. Non risulta ancora studiato l’apporto all’evangelizzazione, soprattutto delle zone delle corti dei miracoli (dal 1100 al 1936), dei monasteri, dei conventi, delle confraternite presenti a Parma nuova e in Parma vecchia. Nell’Oltretorrente nel ‘700 erano attivi 32 centri di culto, di cui quattro Parrocchie, oltre a Oratori, monasteri, conventi, confraternite, etc. Due figure di celebri predicatori gesuiti operavano a Parma: padre Cornelio Fabbro (tra il 1539 e il 1540) e nel ‘600 padre Paolo Segneri. Il testo del padre Felice da Mareto è una sorgente eccezionalmente ricca di dati a questo proposito

 

Nei secoli XVII e XVIII i Gesuiti detenevano il monopolio della cultura a Parma. A loro veniva deputata l’educazione dei figli del duca e della nobiltà e alla Congregazione delle nobili dame orsoline l’educazione delle figlie e dei nobili di Parma.

I Gesuiti che operavano a Parma non si sono limitati a educare le future classi dirigenti, ma anche attraverso un esempio fulgido del Beato Cornelio Fabbro si sono dedicati ad inventare nuove forme di catechesi per la povera gente.[7] [8]

 

Nasce e si sviluppa in questi due secoli la città barocca.

Segnano il passaggio dal tardo manierismo al barocco nel 1560 la Chiesa di S. Quintino (architetto Fornovo) e la trasformazione di S. Alessandro (architetto Magnani) (1622) e di Santa Maria degli Angeli (architetto Testa), gli stucchi di S. Vitale del Reti (1666-1669), i merletti dell’oratorio dei Rossi e gli affreschi della Chiesa dei Servi, di Santa Cristina (Galeotti e Baratta, 1636-1714), l’oratorio di Sant’Ilario e di Santa Maria delle Grazie (Galeotti), il rifacimento della facciata di S. Giovanni iniziato nel secolo XVII con l’apposizione di statue sulla facciata, un motivo che si ritrova poi nelle facciate di S. Vitale di S. Tiburzio e di S. Bartolomeo.

Il Bibbiena (1657-1743) sviluppò la pittura di prospettiva (Certosa di via Mantova, la chiesa di S. Sepolcro e di Santa Cristina). Il Bibbiena firmò una testimonianza di grande rilevanza al rococò nella chiesa di S. Antonio.

Nella metà del secolo XVIII (1737-1754) era sorta la Chiesa dei Gesuiti, esempio di barocchetto (Torregiani).

Tra i pittori, lo Spolverini, tra il 1719-1722, aveva dipinto vasti scenari di battaglie e di grandi feste ducali.

Questo periodo è un tempo di promozione a Parma della musica e di teatri che hanno raggiunto gradi elevati, anche a livello europeo.

I Borbone

 

Il 1600-1700: il Ducato di Parma nel periodo della modernità. La rivoluzione scientifica

Parma, un ducato tra rivoluzione scientifica e illuminismo

 

Con lo sviluppo della scienza sperimentale e di nuovi indirizzi filosofici ed economici è incominciata l’era moderna. La modernità si è caratterizzata come modello universale che considerava le altre culture come “primitive”, convinta, com’era, di poter dimostrare che il vantaggio da essa acquisito attraverso una forte elaborazione culturale presentava fondamenti oggettivi assoluti e di validità universale. In quest’ottica la modernità si è posta come proprio compito l’europeizzazione del mondo. La modernità è stata caratterizzata da una fiducia generalizzata e profonda nell’identità delle persone, nella libertà e responsabilità, in un progresso illimitato della scienza e della tecnica: attraverso l’Illuminismo e altre dottrine filosofiche e politiche ha portato alla secolarizzazione dei rapporti tra la fede, l’istituzione ecclesiastica e la società civile.

Gli effetti positivi dovuti alla rivoluzione scientifica (salute, comunicazioni, abitazioni, ricchezza diffusa, etc.) e quelli negativi dovuti alla cultura dello scientismo tecnologico, si sono diffusi a tutto il territorio parmense, urbano e suburbano e hanno fortemente permeato la cultura parmense a iniziare dagli anni ’60 del secolo XX, grazie ai mezzi di comunicazione di massa. Scarso o nullo è stato l’influsso dell’Università sulla cultura della città

A Parma, nonostante fosse sede di Università, non sembra che (almeno secondo lo stato attuale della ricerca storica) vi si sia sviluppato, se non in misura non significativa anche nella stessa Chiesa cattolica, un interesse verso le grandi ricerche riguardanti la nuova interpretazione della natura, con particolare riferimento al metodo sperimentale che aveva attraversato il ‘600 e il ‘700 italiano ed europeo.

 

Carlo di Borbone

L’infante di Spagna Don Carlos nell’ottobre del 1732 prende possesso di Parma e Piacenza e governa direttamente, togliendo la reggenza a Sofia di Neuburg. Aveva 17 anni. La guerra di successione al trono di Polonia vedevano i Franco-Sardi contro Austria e Russia. Di questo conflitto la Spagna cercò di trarne vantaggio. Elisabetta fece sbarcare a Livorno l’esercito spagnolo a capo del quale mise proprio il neo duca di Parma; missione: conquista del regno di Napoli, dove il 10 maggio 1734 gli spagnoli entrarono vincitori. La partenza per Napoli di Don Carlos non fu indolore per Parma che si trovò spogliata di tutti i beni culturali, dirottati nel Regno, con la scusa che il patrimonio artistico doveva essere protetto da rapine. Se ne andarono da Parma tutto il mobilio dei vari palazzi ducali, quadri, statue, gioie, la Biblioteca farnese composta di 13.000 volumi e oltre 1000 manoscritti, l’intero archivio farnesiano. Il trasloco fu uno scempio.

 

Con la partenza per Napoli di Carlo di Borbone, il Ducato passato agli austriaci. Divenne di nuovo teatro di battaglie e scontri. I Gallo-Sardi conquistata la Lombardia si schierarono alle porte di Parma contro l’Impero. Famosa rimase la battaglia di San Pietro (29 giugno 1734), di cui fu testimone Carlo Goldoni che assistette insieme ai parmigiani dalle mura. La situazione economica e sociale del territorio parmense, soprattutto rispetto alle zone rurali e alle classi meno abbienti, precipitò: dovevano essere pagati balzelli ad ogni cambio di straniero. I raccolti distrutti e le epidemie di bestiame facevano coronamento ad una già precaria situazione quotidiana. La popolazione di Parma città scese ad un minimo storico di venticinquemila abitanti.[9]

 

Don Filippo di Borbone e Luisa Elisabetta (Babette)

Con la pace di Aquisgrana (1748), il Ducato di Parma e Piacenza unitamente a Guastalla, per estinzione della famiglia Gonzaga, fu affidato a Don Filippo di Borbone, secondogenito di Elisabetta Farnese. che rimaneva vedova due anni prima della pace di Acquisgrana. Con la perdita del marito Filippo V cadeva la sua influenza politica e non raccoglieva insieme ai figli le simpatie del nuovo re Ferdinando VI con cui non era mai corso buon sangue. Morirà nel 1766. Con lei si estingue la grande famiglia Farnese.

Filippo di Borbone, aveva coltivato soprattutto l’arte militare e mostrava una istruzione piuttosto trascurata. Si sposa nel 1739 con Luisa Elisabetta, di appena 12 anni, primogenita di Luigi XV re di Francia, da lui soprannominata Babette, che a soli 14 anni divenne madre di una bellissima figlia: Isabella (31 dicembre 1741). Nel febbraio del ‘42 Filippo partì da Madrid impegnato in varie imprese militari per oltre sette anni. Combatté la guerra condotta dalle due monarchie borboniche (Francia e Spagna) contro gli austro-sardi, allora alleati. Le sorti della guerra in cui era impegnato non furono positive. Gli Austro-Sardi sconfissero i Galloispanici a Piacenza, col Borbone costretto a ritirarsi vicino a Genova.

Luisa Elisabetta era volitiva, spontanea, accorta, nonostante la sua giovane età; badava più alla sostanza che alla apparenza. Alla corte di Madrid si era addestrata nei segreti maneggi politici incoraggiata dalla suocera Elisabetta. Nel ’48 era tornata a Versailles dal padre. La destinazione di Parma non era stata accolta positivamente, ma si adoperò in quel periodo per ottenere una buona pensione dalla Francia e dalla Spagna. L’incapacità politica di Filippo fece divenire Luisa Elisabetta interlocutrice delle diplomazie europee. L’impegno politico la attraeva.

Filippo prese possesso del Ducato nel 1749 (08 marzo). Quando arrivò a Parma si stabilì a Sala. Palazzo Ducale e la Reggia di Colorno erano impresentabili causa la spoliazione effettuata dal fratello Carlo, l’abbandono, l’incuria e le devastazioni successive. Arrivò poco dopo il Du Tillot rimasto a Versailles come segretario di Luisa Elisabetta, latore di una lettera di Luigi XV per il Duca e osservatore per l’Ifanta. Verso la fine dello stesso anno Filippo fu raggiunto dalla moglie con la figlia Isabella. Voluto da Babette, consigliato dal re di Francia Guillaume du Tillot fu nominato Intendente della Casa Ducale, poi Segretario di Stato e Primo Ministro. Dopo gli studi a Parigi (Collège des Quatre-Nations), si era trasferito in Spagna dove lavorava il padre. Qui Filippo V lo destinò a fianco del primogenito Don Carlos, e, successivamente, divenne segretario particolare di Don Filippo. Du Tillot era persona stimata, di fiducia, capace di una seria riorganizzazione dello Stato. La gente cominciò a respirare, potendo di nuovo godere di un Ducato indipendente. Nel 1751 a gennaio nacque Ferdinando, mentre a Dicembre Luisa Maria Teresa detta Louison. Filippo destinava il suo tempo alla musica, alle passeggiate; era appassionato di cani, cavalli e di caccia a cui destinava i terreni, poco si preoccupava dei suoi sudditi. Si può dire che il Duca lasciava alla passione e all’ambizione politica della Duchessa, all’operosità e intelligenza del Du Tillot il governo del Ducato. Il Du Tillot, si trova di fronte una città e un Ducato fortemente immobili ed economicamente dissestati. Anche le floridissime industrie della lana erano ormai estinte, le campagne trascurate, i commerci arenati. Lo sconsiderato agire farnesiano aveva stremato lo Stato e gli enti locali; la spoliazione di Don Carlo e il successivo stato di abbandono avevano immiserito il Ducato. L’intervento deciso e geniale di Luisa Elisabetta, sostenuta dal padre Luigi XV e la capacità del Du Tillot, cambiarono radicalmente la situazione, instaurando il periodo più splendido e fiorente di Parma. Luisa Elisabetta capì che bisognava far leva sullo sviluppo della cultura e creare un contesto favorevole al progresso civile, sociale, economico. Insieme cercarono di portare a Parma le forme di civiltà francesi, spendendo ingenti somme che provenivano da Parigi. Furono chiamati dalla Francia arredatori, architetti, scultori, ebanisti, giardinieri, artisti teatrali. La città fu abbellita dalle opere del Petitot e dalle sculture del Boudard. Furono proposti alla città gli indirizzi già sperimentati in Francia e potenziato il disegno iniziato da casa Farnese, cercando di fare di Parma una città di respiro europeo: è in questo periodo che fu definita l’Atene d’Italia, nonostante le spoliazioni subite. Du Tillot era deciso a fare di Parma una smagliante città di tipo rinascimentale, indirizzata intellettualmente secondo le ultime mode culturali. Per un decennio la città sembrò una Parigi in miniatura, un salotto aperto alle idee dei philosofes e il cui maggior ornamento era Condillac E.B. (1714-1780) che la Duchessa volle a Parma per nove anni come istitutore dell’infante don Ferdinando. Frutto di questo soggiorno fu il volume Cours d’Etudes pubblicato nel 1775. La grande Biblioteca creata dal Paciaudi, le proposte di riforma universitaria, la presenza di eminenti ospiti francesi, la discussione continua delle nuove idee, testimoniano la volontà di Du Tillot di fare di quella piccola città di provincia un centro cosmopolita dell’epoca dei lumi.

In questa facciata d’importazione, il Du Tillot tentò cautamente alcune riforme sollecitate dall’urgente bisogno di denaro per far fronte alle spese della corte, di un grosso esercito, dei matrimoni reali. Tra le misure prese per migliorare l’economia, ci fu il tentativo di creare nuove industrie tessili e nuovi saponifici mediante la concessione di privilegi speciali e attirando manodopera qualificata dall’estero. L’agricoltura era considerata come subordinata all’industria, si piantarono gelsi per incrementare l’industria della seta, fu rifiutata la libertà di commercio dei grani. Parma acquistò l’apparenza, ma non la realtà, di uno stato riformatore. Solo in un campo, quello delle leggi ecclesiastiche, il primo ministro diede un contributo effettivamente rinnovatore ricollegandosi alle antiche tradizioni riformatrici del Ducato e alle esperienze di alcuni abili funzionari locali. Du Tillot fu ostacolato nelle sue attività da parte dei principali gruppi intellettuali e sociali del paese che mal sopportavano il predominio francese, ma gli mancò il coraggio personale di tentare riforme più radicali.[10]

Gli uomini di lettere e gli artisti venivano a Parma. Fu incaricato Paciaudi di riorganizzare la Biblioteca Palatina. Nel 1752 fu fondata l’attuale Accademia di Belle Arti: scuola e consorzio di artisti. Un Senato accademico chiamava i maggiori artisti, bandiva concorsi. Appartennero alla Accademia il Petitot e lo scultore Gian Battista Boudard, impegnati in numerose grandi opere nella città. Fu aperto il museo delle antichità, furono ricostituite la Biblioteca e la Pinacoteca. L’Università fu arricchita di nuovi corsi e furono create nuove cattedre, tra cui quella di Storia, affidata all’abate Millot. Il Collegio dei Nobili assunse in questo periodo un particolare prestigio: tra gli allievi Pietro Verri e Cesare Beccaria. In tutto il ducato riprese una intensa attività teatrale con rappresentazioni dei grandi drammaturghi francesi. Arrivò Gian Battista Bodoni che fondava a Parma la Stamperia Reale. Per volere del Du Tillot nel 1760 iniziò le pubblicazioni il settimanale la Gazzetta di Parma[11], successivamente, nel 1772, l’edizione veniva prodotta proprio nella Stamperia Reale del Bodoni.

L’abilità e la potenza politica della Duchessa erano enormi. Frequenti furono i suoi viaggi a Versailles e pur mancando dal Ducato seppe lavorare per la sua crescita e il suo prestigio. A Parma si respirava aria francese.[12] La Francia era considerata patria del benessere, dell’eleganza, della cortesia, della nuova cultura, della libertà.

Sostenuto da Luisa Elisabetta, obiettivo del Du Tillot, fedele al principio della monarchia autoritaria, illuminata e giusta, ma assoluta, fu di avviare buone riforme economiche e sociali. Fu operata una revisione della struttura edilizia di Parma nuova, che portò alla distruzione di quella medioevale, unitamente a una ristrutturazione urbanistica secondo i canoni neoclassici dell’Illuminismo,[13] lasciando intatti i borghi malsani della città e soprattutto dell’Oltretorrente. Il culto cartesiano del Du Tillot per l’ordine e la regolarità, lo portarono a una gestione amministrativa rigorosa: distinse il bilancio dello Stato da quello della Corte, eseguì il censimento della popolazione, iniziò un nuovo catasto Fu molto severo nel sistema di tassazione: all’inizio cedette per nove anni, in cambio di un canone annuo, la Ferma generale, ossia tutte le rendite regie e comunali, a privati stranieri che riscuotevano. Al termine dei nove anni gestì direttamente, ma con crescita dei contribuenti morosi e difficoltà nella riscossione, e questo nel tempo gli causò guai.. Fra il 1756-58 gli furono affidati i dicasteri dell’economia pubblica e degli affari esteri. Si scontrò con i privilegi ecclesiastici e riteneva intollerabili le esenzioni dai carichi tributari. Pubblicò la Prammatica con cui vietava il passaggio dei beni nelle manimorte, cioè nei beni ecclesiastici; i beni di molti Ordini religiosi furono assegnati a istituti di beneficenza e d’istruzione pubblica; abolì l’Inquisizione. La crisi economico-sociale avanzava su tutta l’Europa e il Du Tillot lottò energicamente per fronteggiarla. In economia fu molto pragmatico: mostrò attenzione per lo sviluppo dell’industria e del commercio; chiamò artigiani e maestranze da altre parti d’Italia, dalla Francia. Concedeva gratuitamente locali per le nuove industrie, le finanziava. Introdusse e incoraggiò nuove colture: lino, canapa, gelso. Favorì importazioni ed esportazioni. Aprì fino a Bardi la via per la Liguria. Nel ’64 divenne marchese con donazione delle terre di Felino e San Michele. La morte prematura di vaiolo della duchessa a Versailles (1759) e quella improvvisa per medesimo male di Filippo (1765) fecero ricadere sul Du Tillot tutte le responsabilità del Ducato. Luisa Elisabetta è oggi dimenticata, pochi conoscono l’importanza della sua opera. Fu proprio lei a costruire la grandezza del Ducato, ad iniziare il percorso verso le idee innovatrici, ad aprire le porte di un piccolo Stato alle grandi idee innovatrici, a segnare il passaggio dall’Evo Moderno all’Evo Contemporaneo. Nei suoi soli dieci anni di regno, seppe dare una impronta indelebile a un territorio pervaso dalla miseria e dall’abbandono.

In forza di un vecchio decreto di Don Carlo, il primo ministro fece riconoscere maggiorenne Ferdinando, primogenito del duca Filippo. Nel 1769 Ferdinando sposa Maria Amalia figlia dell’imperatrice d’Austria Maria Teresa. Lui, il duca, timido, turbato da angosce religiose; lei intrigante, dominatrice, vendicativa, fu chiamata “irrequieta Messalina”. Sprezzante e bugiarda fece ricorso a tutti gli intrighi possibili per screditare il Primo Ministro e la memoria di Luisa Elisabetta.. La Duchessa lo offendeva e lo umiliava, faceva scenate al marito e si alleava con i nemici del Du Tillot. La destituzione del ministro Choiseul in Francia alla corte di Luigi XV metteva in crisi il primo ministro. Nonostante la sua attenzione al buon funzionamento del Ducato, cadde in disgrazia non solo per gli intrighi di Maria Amalia, ma anche per la non riuscita politica di riforme economiche, in cui credeva e che avrebbero permesso al paese di risorgere, ignorando però l’estrema decadenza in cui versava. Fu costretto agli arresti domiciliari e sostituito. Partì dalla sua dimora di Colorno il 19 novembre 1771 e fu accolto da Carlo III sia a Madrid che a Parigi dove morì nel 1774.

 

Tra le attività significative del Du Tillot vi è stata la creazione di una corrente dell’illuminismo che, però rimase racchiusa a livello di una stretta élite, formata soprattutto da studiosi francesi da lui chiamati a Parma, e non si tradusse in una scuola di pensiero illuminista, né, questo sforzo, si tramutò in una significativa e persistente tendenza culturale e riformatrice.

Una comprensione del ‘700 parmense in rapporto ad atteggiamenti ancora oggi persistenti a Parma non sembra possibile senza un adeguato approfondimento di un duplice ordine di proposte che l’Illuminismo ha formulato da un punto di vista socio-politico e religioso.

E’ stata positiva la distinzione tra politica e religione, mentre è stata negativa la rottura con quel sistema di valori che avevano ispirato per quasi due millenni i rapporti tra Cristianesimo e vita personale in relazione alla società. L’indirizzo impresso dall’Illuminismo ha costituito il primo avvio della secolarizzazione a Parma che da allora è stata presente, almeno tendenzialmente, nell’organizzazione della vita personale e sociale della borghesia e di gruppi di intellettuali.

 

La religiosità popolare prevalentemente incentrata sulla figura di Dio e sull’etica dei Dieci Comandamenti non è stata intaccata dalla cultura illuminista: essa ha continuato ad essere trasmessa nell’ambito familiare e parrocchiale, ma risultava insufficiente a fronte di una cultura che faceva della ragione il suo perno.

Di qui un non larvato disprezzo degli illuministi verso il clero e i cattolici.

Un aspetto degno di nota della politica ecclesiastica del Du Tillot è stata la soppressione a Parma (nella notte fra il 7-8 febbraio 1768) della Compagnia di Gesù. Sembra che questa grave decisione del Primo ministro abbia potuto fruire anche del parere positivo di membri del clero parmense e dello stesso padre A. Turchi, futuro Vescovo di Parma, antigiansenista e attento alle idee illuministiche e riformiste del Du Tillot.[14]

Du Tillot vedeva nei Gesuiti ostacoli alla sua politica di distacco del Ducato dall’influsso della Santa Sede e anche al suo progetto di rinnovamento della cultura e dell’affermazione di uno stato laico.

Comunque, a seguito di questa decisione, la Chiesa di Parma si è trovata privata di alcuni di quegli intellettuali attraverso i quali essa avrebbe potuto confrontarsi attivamente con le idee illuministiche.

Quando la Duchessa Maria Amalia licenziò il primo ministro francese nel 1771, gli intellettuali stranieri che assieme a lui lasciarono Parma, si portarono dietro quel poco di influsso riformistico che era stato impresso dal Du Tillot e il Ducato ricadde nel suo tradizionale provincialismo. La cultura intellettuale a Parma nel ‘700. Du Tillot, già dall’inizio della sua venuta a Parma, aveva puntato sulla cultura intellettuale e si era circondato di studiosi parmensi e stranieri. Sono nati in questo periodo l’Accademia delle Belle Arti, il Museo di Antichità, la Biblioteca e la Stamperia Reale, il giornale Gazzetta di Parma e ha avuto un forte incremento l’Università.

Per lo stretto legame con la cultura francese, connotata da uno spiccato razionalismo, Du Tillot ha impresso sulla città e sugli artisti un’apertura di ampio respiro e un notevole fervore allo studio e alla ricerca.

Ne sono esempi il filosofo Condillac, il bibliotecario Paciaudi, l’architetto E. Petitot e lo stampatore G. B. Bodoni.

Già con Filippo di Borbone la città poté essere definita “Atene d’Italia”, nonostante le devastazioni e spoliazioni subite durante le guerre di successione. Si trattava di un lascito intellettuale che animava nel piccolo centro energie sintonizzate, almeno in parte, con la cultura francese e con interessi politici incrociati di estensione europea.

 

Poco tempo dopo Don Ferdinando licenziò anche lo spagnolo DeLano, imposto da Francia e Spagna, abolì gradualmente i provvedimenti antiecclesiastici, fece tornare i Gesuiti, gli altri Ordini e fu ristabilita l’Inquisizione. Mentre Amalia si divertiva con guardie del corpo e staffieri a sala, il Duca era coinvolto nelle sue devozioni a Colorno. Il Ducato era allo sbando in balia di ridicole caricature aristocratiche.

 

In sintesi sembra evidente che sotto il regime ducale, l’accentramento di tutti i poteri nelle mani del Duca dai Farnese ai Borboni, ha impedito la nascita e l’affermarsi di una classe intellettuale autonoma (se si eccettuano alcuni studiosi, presbiteri, religiosi e laici, del resto al soldo dei duchi stessi) e di borghesi con propri progetti e capacità innovative per l’industria nascente e per l’agricoltura. In sostanza, anche per la relativa breve permanenza di Du Tillot a Parma, non erano state attivate scuole attraverso le quali dare continuità ad un’azione di riformismo intellettuale, politico, economico e produttivo avviato dal Du Tillot.

 

In questo contesto la Chiesa di Parma (ma ciò dovrà essere confermato da una specifica ricerca) pare si sia come estraniata –anche se con poche eccezioni di alto profilo- da un confronto dialettico con la cultura illuminista, camminando parallela, senza né incontri né scontri, con quelle élites intellettuali, soprattutto di origine francese, che avevano acquisito un’ampia visibilità in città.

Pare che la comunità ecclesiale di Parma, cioè, non abbia partecipato con suoi membri qualificati al grande rinnovamento della cultura della società civile borghese e intellettuale di Parma, proiettata verso l’Europa, quale era stato avviato dalle nuove correnti di pensiero del secolo XVII, né ha avviato una distinzione tra le idee illuministe accettabili e le altre che avrebbero poi introdotto e diffuso a distanza di tempo un secolarismo e un nichilismo nella società civile.[15]

La Chiesa nella quotidianità si è dedicata ad un’attività di catechesi prevalentemente rivolta alle classi popolari.

A questo indirizzo antintellettualistico del clero si può ascrivere quella nota di un osservatore del tempo che scriveva di un clero culturalmente arretrato, benché ben provvisto di proprietà terriere. Si potrebbe approfondire se i vasti possessi terrieri, assieme ad una vantata supremazia intellettuale, possano essere considerati tra i fattori che hanno inciso in modo pesante sullo sviluppo di quegli indirizzi anticlericali e laicisti (prodotti dall’Illuminismo), che hanno percorso la società di Parma.

Del Du Tillot si è detto che era un anticlericale d’obbligo, ma non un agnostico. Nel suo palazzo possedeva una cappella e aveva al suo servizio un sacerdote come cappellano.

Tentiamo un primo approfondimento sui motivi di quel forte anticlericalismo che, a più riprese, ha percorso l’Emilia-Romagna, a differenza di quanto è capitato in Lombardia e nel Veneto, anche se questo è un tema sul quale occorrerà compiere un’ulteriore ricerca storica specifica.

Per la Romagna si potrebbe pensare che la causa principale siano state le conseguenze del regime dello Stato Pontificio (ricordare, ad esempio, il cardinale Rivarola e la condanna a morte di numerosi patrioti).

Diversa può essere l’origine dell’anticlericalismo dell’Emilia che potrebbe aver avuto una differente impostazione a seconda che si trattasse di borghesi o di intellettuali, che si rifacevano alle idee dell’Illuminismo e, in qualche misura, alla Massoneria e che avevano una scarsa o nulla stima del clero, ritenuto culturalmente arretrato e, per quanto riguarda invece il popolo, si potrebbe pensare che ciò sia stato originato da un diffuso possesso terriero dalla Chiesa (parroci, canonici, cento presbiteri membri del Consorzio dei vivi e dei morti, i canonici delle collegiate foresi, ognuno dei quali evidentemente fruiva di un beneficio). Probabilmente questi terreni erano governati secondo le stesse regole del profitto che al tempo esercitavano sulle campagne i borghesi e i nobili che vivevano in città e andavano durante l’estate nella villa di campagna, anche se, forse, con una maggiore comprensione da parte dei parroci, a fronte di situazioni di miseria delle famiglie contadine da loro dipendenti.

In sostanza, pare che la Chiesa di Parma si sia isolata da un rapporto dialettico con le forze che sono venute via via disegnando, sulla traccia dell’Illuminismo, una nuova struttura della città, incidendo sulle classi colte in modo contrario all’etica cristiana. E’ mancata l’interpretazione degli aspetti positivi e negativi dell’Illuminismo e di quel percorso delle idee che via via si sono venute arricchendo di altri indirizzi filosofici (idealismo, marxismo) e politici (nazismo, fascismo etc.) fino ad animare la cultura della secolarizzazione e sfociare nel secolarismo.

Parrebbe che il mondo ecclesiastico non si sia schierato apertamente contro il Du Tillot per le conseguenze che l’Illuminismo avrebbe potuto avere sulle espressioni della fede (almeno non se ne hanno tracce nella documentazione disponibile), ma gli abbia dichiarato una guerra aperta, chiedendo anche l’intervento del Papa, quando Du Tillot, come si è sopra ricordato, davanti alla povertà del Ducato, soprattutto delle classi contadine, con la Prammatica Sanzione, ha messo mano alla soppressione di alcuni Conventi e ha incamerato una parte delle estese proprietà terriere di Canonici, di Consorziali, di Conventi, di Monasteri, di Confraternite, tutte proprietà che, tra l’altro, come si è sottolineato in precedenza, erano esenti dal pagare tasse (legge della mano morta).

Il Papa su sollecitazione di Francia e di Spagna non inficiò la legislazione del Du Tillot, ma qualcosa in questo quadro si era rotto nel rapporto tra Vescovi, Presbiteri e il Duca.

La Prammatica sanzione, emanata dal Du Tillot, ha bloccato il passaggio di qualsiasi bene alle mani morte, inclusi anche i contratti e le disposizioni già avvenute, ma non ancora concluse. Du Tillot annullò, in seguito, tutti gli atti pro mani morte ricevuti dai notai non soggetti alle leggi del Ducato; sottopose ai pubblici tributi i beni posseduti dai laici prima dell’ultimo censimento, anche se fossero passati successivamente in mano morta. Il 19 maggio 1765 fu creata la Real Giunta di Giurisdizione con il compito di affermare la supremazia del potere regio: essa interessava conventi e parrocchie, stimolò il clero alla pura predicazione evangelica, con l’astensione da qualsiasi allusione ai principi riguardanti la sovranità, il governo e le leggi, regolò i rapporti tra il clero locale e la Santa Sede, sottoponendoli al controllo sovrano con gli istituti del placet e dell’exequatur, limitò i poteri dell’Inquisizione.

In un crescendo di fervore riformatore il 16 gennaio 1768 venne vietato a tutti i sudditi, anche ecclesiastici, il ricorso a tribunali esteri, compreso quello di Roma, senza l’autorizzazione sovrana. Nello stesso anno, come si è detto, vennero espulsi i gesuiti, sull’esempio di Napoli e di Madrid, vennero soppressi i conventi che ospitavano un basso numero di religiosi, vennero espulsi i monaci stranieri e il 23 maggio 1769 un editto della Real Giunta di Giurisdizione aboliva il tribunale dell’Inquisizione.

 

E’ possibile l’ipotesi (ma certo bisognosa di ulteriore ricerca) che a Parma il diffuso anticlericalismo sia delle leggi emanate dal Ducato sia degli atteggiamenti illuministi di borghesi e di intellettuali, possa rifarsi allo scarso senso civico, del senso dello Stato e della legalità del clero parmense schierato in difesa dei propri privilegi e dei propri possessi terrieri, aspetti che la politica antiecclesiastica del Du Tillot (del resto giustificabile per l’assenza di censure da parte del Papa) era venuta intaccando. Si era diffusa la percezione di uno Stato che operava contro gli interessi della Chiesa. E’stato, forse questo, uno degli avvii della crisi tra il mondo cattolico e Istituzioni civili? Un comportamento che potrebbe trarre ulteriori motivazioni da quella legislazione contro gli ordini religiosi da parte dello Stato unitario, e, sempre dopo l’unità d’Italia, da parte di socialisti, di repubblicani e di garibaldini.

 

A parte questi rilievi, si può ritenere che, per Parma, il secolo XVIII sia stato culturalmente un periodo determinante per la sua identità di città.

 

Parma e Napoleone

 

Dopo la partenza del Du Tillot, la vita culturale-intellettuale di Parma, e così l’attività sociale ed economica, ha subito una battuta d’arresto e ha proceduto, quasi per forza d’inerzia, fino a Napoleone. Il Borbone ebbe ogni prudenza nel non offendere la nuova repubblica francese. La Gazzetta di Parma non parlò mai ai suoi lettori della Rivoluzione Francese, ignorò tale evento come se non fosse mai accaduto.

Nella primavera del 1796, Napoleone aveva invaso il Piemonte, occupato Piacenza e, nonostante le dichiarazioni di neutralità del Duca Ferdinando, aveva svuotato le casse degli Enti pubblici parmensi e, imposto al Ducato un contributo ingentissimo in denaro, in oro e argento, in cavalli e in rifornimenti di viveri, oltre alla sottrazione al tesoro culturale di Parma, di quadri d’inestimabile valore, tra cui la Madonna di S. Girolamo e la Madonna della Scodella del Correggio.

Dopo la battaglia della Trebbia in cui gli Austro-Russi sconfiggono i Francesi, Ferdinando firmò con Napoleone un gravoso trattato di pace. Oltre al pesante impegno economico il Duca non accettò la proposta di re della Toscana. Rifiutando venne privato dei suoi domini. I francesi, soppresso il Ducato di Parma e Piacenza, annisero il territorio direttamente alla Francia, assegnando al figlio di Ferdinando, Ludovico, il Gran Ducato di Toscana con il titolo di Ludovico I re di Etruria. Ferdinando non si muove da Colorno e lì rimane. Muore nel 1802 all’improvviso, sembra per avvelenamento. Maria Amalia dopo breve reggenza morì nel 1804. L’ex Ducato viene governato da un amministratore generale degli Stati di Parma che, in un primo tempo, fu il saggio Elie Moreau De Saint Mery, avvocato, uomo della rivoluzione. Criticò la nobiltà parmense, legata ai privilegi che obbligava gli abitanti all’ipocrisia e alla falsità da secoli. Parma gli appare una città oziosa, formicolante di poveri, accattoni, di viziosi che giocavano nelle osterie. Una pigrizia nata dalla povertà che si estendeva ai ceti più elevati, una società senza aspirazioni, senza desiderio. Il Moreau era però innamorato della città, della sua storia, della sua cultura; fu mediatore tra una società inerte, che non si rendeva conto dei cambiamenti culturali e un’Europa che stava mutando radicalmente. Cercò di trasformare lentamente in modo riformistico una società sclerotizzata, gravata da onerose richieste. Riprese l’opera del Du Tillot: rimise in vigore la Prammatica, abolì le discriminazioni razziali contro gli ebrei, istituì una Società Economica Agraria, sovvenzionò il Collegio dei Nobili, il Teatro di Santa Caterina. Applicò il codice napoleonico in sostituzione di tutte le leggi locali. Molti privilegi caddero così come i vincoli feudali. Sostenne nuove colture come il tabacco, la barbabietola, la canapa e il lino destinati al mercato di Lione. La decadenza della produzione agroalimentare era tale che il formaggio parmigiano veniva prodotto nel lodigiano, da qui spedito a Parma e rivenduto, senza alcun intervento produttivo, col nome di parmigiano. Questa situazione terminò, poiché i lodigiani, preferirono non ricorrere agli intermediari parmigiani e diffondere direttamente il loro prodotto; così il Ducato dopo la produzione perdeva anche il mercato. Non da meno era la crisi industriale basata su alcune filande, vetrerie, fornaci, concerie, panetterie. Per incoraggiare l’industria Moreau forniva agevolazioni statali a sostegno dell’azione imprenditoriale, senza protezionismi o monopoli come aveva fatto il Du Tillot. Di esempio fu la casa di educazione e di lavoro fondata nel 1801 a Fontanellato dal conte Stefano Sancitale: un ospizio per dare un’attività ai disoccupati ed avviare uomini e donne al lavoro. La qualità raggiunta dai tessuti di lana e cotone competeva con quella francese, inglese, olandese. Queste produzioni furono poi sollecitate con esposizioni annuali che ebbero luogo dal 1808 al 1812. La fiducia dell’amministratore sulle possibilità di riscatto almeno sul piano culturale del territorio non era condivisa da Napoleone quando visitò Parma nel 1805. Il Moreau venne destituito (1806) anche a seguito di rivolte e saccheggi popolari nei monti del piacentino in Val di Nure. Napoleone li represse sanguinosamente col generale Junot. Il potere politico è assunto dal prefetto Ugo Eugenio Nardon che suddivise il territorio ex-ducale in 13 mairies (comuni). Primo sindaco di Parma fu il conte Stefano Sancitale. Nel 1808 gli Stati di Parma, escluso Guastalla, diventano il Dipartimento del Taro e la città formò uno dei nove principati dell’Impero. Venne tolta alla Chiesa l’assistenza che fu unificata nell’Amministrazione degli Ospizi Civili sotto la direzione dello Stato. E’ in epoca napoleonica che la Chiesa di San Francesco al Prato e quella di Santa Elisabetta vengono destinate a carceri maschile e femminile. Nel 1810 la legge napoleonica soppresse i conventi e gli ordini monastici, concedendo un vitalizio a tutti i religiosi. La demanializzazione delle proprietà ecclesiastiche porta alla liberazione di enormi aree e edifici utilizzati per esigenze militari, funzioni pubbliche, servizi sociali. I beni vennero devoluti al Monte Napoleone che in parte rivendette a piccoli proprietari. La Gazzetta di Parma, sospesa dal 1796 fu sostituita nel 1811 dal Giornale del Taro. Iniziarono anche le grandi opere stradali, per l’importanza strategica militare che Napoleone dava a Parma e Piacenza, in parte non realizzate: fu iniziata la via che da La Spezia passando per Pontremoli portava a Fornovo; la via Emilia venne potenziata e aggregata alla Parigi-Napoli. Opere interrotte nel 1813 per il crollo dell’impero Napoleonico.

Al vescovo Adeodato Turchi, morto nel 1803, dopo l’annessione all’Impero francese, è successo il servita cardinale C.F. Caselli, di tendenze filo-napoleoniche, che fu Vescovo di Parma dal 1804 al 1828. Sarebbe assai utile, anche per una storia dei rapporti tra Parma e l’Illuminismo, approfondire l’opera di un’umanità culturalmente eccezionale, quale fu quella di Adeodato Turchi, con accenni, anche, al suo successore.

 

L’aspro fiscalismo francese fu subìto con riluttanza dalla popolazione di Parma. Certamente uno dei fattori innovativi introdotti da Napoleone nell’amministrazione civile è stata l’introduzione il giorno 24 ottobre 1802 dell’anagrafe civile della popolazione, prima tenuta dai parroci, sotto la supervisione del Commissario straordinario di nomina del podestà. Dal 1806 è stato istituito il Registro di stato civile e, inoltre e in seguito, con Maria Luigia, nel 1846, venne istituita una Sezione di statistica presso il Ministero dell’Interno del Ducato. Era sempre più chiaro che i differenti usi che ormai esigevano i dati statistici rendeva difficoltoso l’impiego dei registri parrocchiali come anagrafe dello stato civile.

Con Napoleone vi fu un cambiamento della classe amministrativa e burocratica legata ad un nuovo concetto di Stato, ad un senso della cosa pubblica e sensibile ai cambiamenti e alle trasformazioni che i tempi imponevano. Certamente fu un vento tempestoso e impietoso per un Ducato che viveva nella dissennatezza di una aristocrazia incapace di valorizzare il potenziale di una popolazione creativa, culturalmente attenta e reattiva. Le riforme si fecero sentire più per imposizione che per accettazione.

Oltre a questa riforma demografica e ad alcuni aspetti più marginali, non sembra sia stata tentata un’analisi esaustiva degli aspetti socio-culturali e religiosi che il turbine napoleonico ha esercitato sull’identità della società parmense.[16]

Maria Luigia d’Asburgo

 

L’ex imperatrice dei francesi, Maria Luigia d’Absburgo, moglie di Napoleone per ragion di Stato (1810), primogenita dell’imperatore Francesco I, diventa Duchessa di Parma nell’aprile del 1814 a seguito del trattato di Fontainebleau che le assegnava il Ducato con riannessa Guastalla e il diritto di successione al figlio di lei e di Napoleone. Con la fuga del Bonaparte dall’Elba le fu tolta l’amministrazione dei Ducati e il governo fu affidato al conte Filippo Magawly Cerati, eletto Ministro plenipotenziario (28 luglio 1814). Ritorna la pubblicazione della Gazzetta di Parma editata negli anni napoleonici col nome Il giornale del Taro. Il Magawly conoscitore di Parma, inizia la sua opera: apprestò il nuovo ordinamento costituzionale; divise i governi di Piacenza da quello di Parma e Guastalla; per ogni comune mise il podestà e nominò un consiglio di anziani. Podestà di Parma fu nominato Vincenzo Mistrali, già segretario di Stefano Sanvitale. Il Ministro ottenne la restituzione di opere rapinate da Napoleone fra cui il S.Girolamo del Correggio e la Tavola Alimentare; riaprì il Collegio dei Nobili; riorganizzò l’Ordine Costantiniano; diede nuovo impulso all’Università e all’Accademia delle Arti; ristabilì alcuni ordini religiosi (i Minori, i Riformati, i Cappuccini e le Cappuccine) e restituì loro i conventi; cercò di riavviare la disastrata economia. Alleggerì le tasse e ne abolì alcune in particolare sulle porte e finestre.

Nella capitale austriaca iniziava il congresso dei vincitori. L’Europa cercava un nuovo assetto politico-territoriale. Francia e Spagna, le due potenze borboniche, si opponevano che i Borboni, legittimi sovrani di Parma, venissero spodestati. Le trattative si protrassero e l’atmosfera da conviviale che era all’inizio diventò di scontro per i complessi problemi da dipanare e gli interessi da soddisfare. Nel febbraio 1815 Maria Luigia, con un atto inviato al Congresso, protestò contro la restaurazione dei Borbone in Francia, reclamando il trono per il figlio. Lo sbarco in Francia di Napoleone, fuggito dall’Elba non facilitava le cose. I prìncipi italiani d’altra parte si opponevano ad un futuro sovrano napoleonide a Parma. Fu determinata la Duchessa contro l’intera Europa pur di ottenere il suo piccolo regno promessole in Italia. Il Congresso di Vienna si concluse il 9 giugno 1815, e assegnò definitivamente gli Stati di Parma a Maria Luigia dichiarandoli reversibili alla sua morte ai Borbone di Lucca.

Maria Luigia entra in Parma il 20 aprile del 1816. Il territorio del Ducato era devastato, la miseria diffusa, le condizioni igieniche pessime. Fissò a Parma la sua residenza e l’amministrazione dello Stato. Divenne subito popolare tra gli abitanti. Apprezzò, l’opera svolta dal Magawly che pur rimanendo a Parma fino al 1824, fu sostituito dal Neipperg, l’ufficiale austriaco che con lei viaggiava, posto al suo fianco nel 1814 durante il suo soggiorno a Aix-les-Bains, divenuto suo amante, poi sposo morganatico alla morte di Napoleone (1821). Ebbero tre figli.

Il Neipperg, uomo di valore militare, colto, buon musicista, governò in nome della Duchessa in maniera discreta, in modo accorto e equilibrato. Fu attento e tollerante, qualità diventate evidenti anche nell’occasione dei primi moti patriottici (1820-21), di fronte ai quali Maria Luigia, a differenza del cugino Duca di Modena, tenne un atteggiamento pacato arrivando a versare un assegno alle famiglie dei condannati che erano reclusi nel castello di Compiano. Per questo, Francesco IV la chiamava “madama presidentessa della repubblica di Parma” Il Neipperg stesso fu sospettato di avere in simpatia i carbonari, forse pensando per Maria Luigia a un trono più importante. Il generale, incaricato nel governo, dovette affrontare una situazione finanziaria e economica preoccupanti unitamente a una alla diffusa miseria e un gran numero di mendicanti. Il malumore pubblico era palese, lo Stato era costretto a vendere a prezzo minore il grano. I grandi lavori pubblici divenivano necessari per occupare persone e attivare i traffici. I lavori d’inverno erano finalizzati a mantenere persone impegnate. Fu costruito il cimitero, fondato l’Ospizio della maternità. Nuovo impulso fu dato all’Accademia di Belle Arti, chiamando artisti e alla cui direzione fu preposto il principe degli incisori, Paolo Toschi. Furono costruiti i ponti sul Taro e sul Trebbia, all’architetto Nicola Bettoli, che rappresentò un’epoca a Parma, affidato il progetto del nuovo teatro ducale “Il Teatro Regio”. Le vie di accesso alla città e della città stessa rimanevano però miserevoli anche ded chi da l’ acqua. Tristemente significativa la descrizione che ne fa Emilio Casa (liberale, fanatico ed anticlericale) in riferimento alla prima metà dell’Ottocento.[17]

Uno degli interventi più significativi del governo di Maria Luigia e del suo Ministro, che ha immesso il Ducato nell’indirizzo della modernità, è stata la compilazione e la promulgazione del Codice Civile degli Stati di Parma, Piacenza e Guastalla ispirato, nella parte relativa allo Stato e ai diritti della persona, alla legislazione francese: una prova di civiltà, un riconoscimento della dignità umana che tuttavia non avrebbe mai potuto realizzarsi senza le corrispondenti libertà politiche democratiche negate dai governi assolutisti nel clima della Restaurazione. Il conte di Neipperg muore nel 1829. Gli succede il rude Werklein, già segretario della duchessa, inviato del Metternich. Nel febbraio del 1831 Maria Luigia dovette abbandonare per breve tempo Parma che aveva aderito ai moti rivoluzionari e si insediò a Piacenza protetta dall’esercito Austriaco. Era il ministro Werklein, troppo rigido e intollerante, non la Duchessa, malvisto dalla popolazione. Si stavano diffondendo anche nel Ducato di Parma le prime idee favorevoli ad una decisa partecipazione democratica al governo del Ducato. Nello stesso presbiterio parmense, il Clero in questo periodo si trovò diviso in filo-liberale e legittimista, favorevole, cioè, al governo di Maria Luigia. Una sempre più forte aspirazione all’indipendenza nazionale e ai governi costituzionali si aprì sul finire degli anni ‘30 nelle classi più colte del Ducato sotto l’ispirazione della società dei cosiddetti Sublimi Maestri Perfetti, degli Adelphi, dei Carbonari che avevano forti collegamenti con la Massoneria.

La Duchessa fece ritorno a Parma sei mesi dopo, rassicurata di una ritrovata tranquillità. Non infierì però sui rivoltosi. Concedette un’amnistia alla fine di settembre. Fu sostituito Werklein col barone Marschall, non gradito da Maria Luigia. A fianco della Duchessa, nel 1833, come amministratore consigliato dal Metternich, arrivò il conte Charles di Bombelles che nel 1834 divenne suo terzo marito. Durante la seconda parte del suo governo, sono stati costruiti: il palazzo delle Beccherie della Ghiaia, ad opera sempre del Bettoli, che la Duchessa donerà al Comune di Parma, i nuovi ponti sul Nure, sull’Adda, sul Tidone, il completamento della strada della Cisa, fece un secondo consistente intervento alla Pilotta, istituì l’Ospedale degli incurabili, diede vita al Collegio Maria Luigia affidato ai Barnabiti, sostenne la scuola di musica del Carmine, e, nel 1840, il primo asilo infantile.

Il Ducato dal punto di vista della sanità, nel regno di Maria Luigia, ha vissuto momenti difficili: nel 1806 vaiolo e morbillo (Mariotti, 500 morti), ancora il vaiolo negli anni 1813-1814 (Buttafuoco), tifo e la carestia negli anni 1817-1818 (Negri, 800 morti), il colera negli anni 1835-1836 (Negri, 594 morti). Nonostante le epidemie, vi fu un incremento demografico considerevole: gli abitanti passarono dai 29.841 del 1814 ai 45.519 del 1846.

L’Asburgo cambiò il volto della città con le opere pubbliche realizzate. Incentivò cultura e arti. Pur nel chiacchiericcio e intrighi amorosi, resse il suo Stato con saggezza e moderazione, fu attenta per le condizioni dei poveri e degli ammalati; un governo orientato al progresso, merito anche delle persone da cui fu circondata. Maria Luigia muore, per pleurite reumatica, a Parma il 17 dicembre 1847.

Alcune osservazioni sintetiche sulla figura di Maria Luigia. Alcuni studiosi si sono chiesti perché a Parma, così severa ed orgogliosa, sia nata e sopravvissuta a tutte le traversie un vero e proprio culto di Maria Luigia d’Austria: un culto giustificato in parte dagli atteggiamenti tenuti dalla Duchessa verso i parmigiani, non scalfito dal suo opportunismo politico e dalla sua frenesia di potere, dal suo egoismo e dal suo tradimento verso il figlio e il marito abbandonati, il primo a Vienna e il secondo nell’esilio di S. Elena.

Altri storici hanno osservato che in ogni comunità che vanti un suo passato degno di ricordo, si formano accanto alle stratificazioni storiche, anche stratificazioni mentali e retoriche.

 

Da un punto di vista ecclesiale, al vescovo Caselli è succeduto il Benedettino Remigio Crescini per un breve periodo di due anni e, a questo, il piacentino Vitale Loschi (1831-1842), persona di carattere mite. Alla morte di Loschi, la Duchessa volle come Vescovo di Parma il suo confessore, di origine ungherese, Neuschel, inviso ai filo-liberali, che si dimise da Vescovo di Parma nel 1852.[18]

I secondi Borbone e la fine dell’epoca ducale

Alla morte di Maria Luigia d’Austria, secondo gli accordi di Vienna, succedette il 31 dicembre del 1847, Carlo Ludovico di Borbone con il nome di Carlo II. Era figlio di Ludovico, re di Etruria, alla cui morte ereditò il titolo, tolto da Napoleone nel 1807, che annise l’Etruria all’Impero, e Carlo Federico messo al confino in Francia, dove rimase fino alla caduta dell’Impero. Nel 1817, secondo il Trattato di Vienna, fece il suo ingresso nel Ducato lucchese, in temporanea sostituzione di quello parmense. Uomo di cultura, ma non certo un intellettuale, restò affascinato dagli indirizzi del suo tempo. Si dedicò ai viaggi e soggiornò spesso all’estero. La responsabilità del governo del Ducato lucchese era in mano al Ministro Ascanio Mansi. A Lucca si diceva che se il Borbone era il Duca, il Mansi era il Re. Carlo Ludovico, dimostrava simpatia per l’ambiente liberale e ciò allarmò non poco il Metternich che lo fece ritornare a Vienna. Al suo ritorno a Lucca, forse in segno di indipendenza dall’Austria, concesse l’amnistia, primo esempio in Italia, e Lucca divenne centro di interesse internazionale. Negli anni successivi Lucca diventò un asilo sicuro per liberali fuggiaschi. Morto il Mansi il Borbone nominò un Consiglio di Stato. La situazione finanziaria peggiorò anche per le irregolarità del Ministro delle finanze Ostini, imposto dal Metternich. I provvedimenti per far fronte all’indebitamento suscitarono malumori e scontento nei sudditi. La situazione precipitò e il Duca convertì il Consiglio di Stato in Consiglio di reggenza. Il 4 ottobre 1847 firmò l’atto di cessione di Liucca alla Toscana.

Il suo regno iniziò con la rivelazione del Trattato di Firenze stipulato segretamente nel 1844 col Duca di Modena e Toscana. Carlo Ludovico, Maria Luigia ancora in vita, aveva ceduto Guastalla, il granaio degli Stati parmensi, al Duca di Modena, per ripianare i suoi debiti. In cambio ricevette Bazzano, Scurano e territori della Lunigiana, compresi, dalla Toscana, Pontremoli, Filattiera, Bagnone, Groppoli e Lusuolo. Terreni fertili di pianura contro terreni di montagna più estesi, ma meno redditizi. Questa revisione e mutilazione dei territori del Ducato fu voluta dal Metternich che non aveva dimenticato la volontà del Borbone di uscire dalla sfera Austriaca e mal sopportato aveva il licenziamento dell’Ostini. La cessione dei terreni non solo fu mal sopportata dai sudditi di Parma, che considerarono la cessione un tradimento, ma tutta l’economia agricola del Ducato ebbe gravi ripercussioni negative. Fu accolto infatti freddamente da tutti, anche dagli ambienti di Corte e si rese subito conto delle difficoltà che avrebbe dovuto affrontare e dall’asprezza del clima di scontro politico nel territorio. Si sforzò di dare una organizzazione più moderna all’amministrazione, ma poco rilevanza ebbero nei confronti dei tumulti del 1848. Il Duca usò maniere forti e sottoscrisse una alleanza militare con l’Austria e vietò ogni dimostrazione liberale. Era preoccupato dall’aria che tirava: a Napoli il re annunciava la costituzione, in Piemonte Carlo Alberto prometteva lo Statuto; in Francia rimosso Luigi Filippo si instaurava la Repubblica. Parma risponde ai giorni della rivoluzione di Vienna e Milano con i moti del 20 marzo ’48. Durarono fino al marzo del ’49, con l’assedio a Borgo delle Carra, (Oltretorrente) durante i quali perirono o furono incarcerate varie persone. Carlo II cambia politica: consegnò le truppe e nominò una reggenza composta da cinque liberali, che liberò dal carcere i patrioti, allontanò austriaci e gesuiti, diede onore ai caduti, promise le riforme e la costituzione, istituì la guardia civica. La reggenza era formata da: i conti Luigi Sanvitale e Girolamo Cantelli, gli avvocati Ferdinando Maestri e Pietro Gioia, il professor Pietro Pellegrini.

Il Duca favoriva i contatti con Carlo Alberto che il 24 marzo dichiarò guerra all’Austria. Il governo locale provvisorio si predisponeva per l’annessione al Piemonte. Successivamente Carlo II abdicò e si ritirò nel suo castello di Weisstropp in Sassonia. Negli anni successivi si dedicò ai viaggi, agli studi; soggiornò a Parigi, Nizza. Venne in Italia spesso dopo il 1860 nella Lucchesia. Accolse l’Unità d’Italia come un fatto positivo. Morì a Nizza nel 1883. La moglie Maria Teresa, figlia del re Vittorio Emanuele I di Savoia, preferì la casa delle Pianore in Toscana, dove rimase e morì nel 1879.

Fu indetto il plebiscito il 17 maggio 1849 a sostegno dell’unione al regno di Sardegna. Lo scrutinio risultò favorevole alla nuova gestione che venne accettata da Carlo Alberto. Il vescovo Neuschel noto filo austriaco fu costretto ad abbandonare la sede episcopale. Dopo Custoza e l’armistizio di Salasco gli Austriaci rientrano a Parma.

Il 25 agosto Ferdinando Carlo di Borbone, figlio di Carlo II che aveva abdicato (14 marzo 1849), torna dall’Inghilterra e prende possesso di Parma, col nome di Carlo III. Si era sposato nel 1845 con Luisa Maria, figlia del duca di Berry, figlio di Carlo X re di Francia, sorella di Enrico, duca di Chambord, erede al trono secondo il partito legittimista. Carlo III manifestò manie militaresche, intervenne rafforzando le milizie e trasformò Parma in una caserma. L’esercito arrivò a 6.000 uomini, senza i volontari regi; dimensioni sproporzionate per il piccolo Ducato. Questa inclinazione risale alla sua gioventù. Di indole ribelle e violenta, preferiva le armi ai libri così che il padre si adoperò per farlo ammettere nell’esercito sardo. La sua condotta scapestrata suscitò indignazione nell’austero ambiente torinese. Deluse la madre Maria Teresa di Savoia che sperava nella disciplina militare per maturare il figlio, visti i risultati negativi dei precettori. Trascendeva spesso in furibonde sfuriate e le sue prepotenze irrazionali non gli procurarono certo simpatie. Il suo agire da presuntuoso despota nella gestione del Ducato, unitamente alla scorrettezza di amministrare la cosa pubblica, gli procurò forti inimicizie. Il costume libertino, l’incitamento alla licenza, le beffe ai veterani e ai nobili, finirono col renderlo inviso e delegittimarne il ruolo. Mostrò la sua impreparazione in campo politico; il suo fare destò un progressivo malumore. I proprietari terrieri non gli perdonarono i favori accordati ai contadini. La benevolenza verso i più poveri gli procurò l’ostilità dell’aristocrazia e della classe borghese. Nelle Gazzette piemontesi si scrisse che il Duca era comunista. Fu sensibile verso l’innovazione: siglò l’accordo della grande ferrovia Milano Bologna (1851); fece fare i primi studi della ferrovia pontremolese (1853); attivò la ricerca mineraria; adottò i francobolli per le poste. Migliorò l’agricoltura e la zootecnia. Sostituì la pena capitale con quella del bastone. L’avversione e il malumore dei sudditi crebbero la disistima delle potenze. Vi fu una congiura di Palazzo a cui partecipò anche la Duchessa, timorosa per i suoi figli. Il Borbone scoprì la manovra e fu crudele nella vendetta. Per far fronte ai bisogni finanziari dello Stato, il 1° marzo emise un prestito forzoso in ragione progressiva sul reddito che colpiva tutte le classi della Ducato. Pochi gli esenti: chi aveva stipendio inferiore alle 1.000 lire annue e chi aveva rendite catastali inferiori a 200 lire annue. L’emissione del prestito non era un fatto nuovo. Nel 1849 ne era stato fatto uno similare. Le aliquote però fortemente progressive rendevano il prestito di particolare pesantezza per i ricchi proprietari terrieri e per la nobiltà.

Crebbe nella città il rancore; scritte minacciose apparvero sui muri. La sera del 26 marzo 1854, in strada S. Lucia un colpo di lima di un congiurato, il sellaio Antonio Carra, ne troncò l’esistenza, dopo un giorno di agonia. Complotto di Corte, delitto politico? Non si volle mai chiarire chi fossero i veri mandanti.

La vera storia di Parma capitale finisce con l’uccisione di Carlo III. Dietro questo gesto stava probabilmente un’organizzazione mazziniana formata da fuoriusciti parmigiani in Piemonte, ma alla quale non era forse estranea l’influenza del Cavour che conosceva la delicatezza della situazione parmense. La partecipazione come alleato della Francia di Carlo III, marito della nipote del re di Francia, Carlo X, poteva procurare seri guai al Cavour. Piemonte e Austria, infatti, anche se per motivi differenti, cercavano di eliminare i piccoli regni che si opponevano all’espansione dei loro interessi.

 

Luisa Maria, durante il regno di Carlo III, aveva compreso, le difficoltà del marito: si appartò e si dedicò ai doveri materni e alla beneficenza. La sua importante posizione economica non era paragonabile a quella del Borbone. Il quinquennio di reggenza di Luisa Maria, donna intelligente, dotata di passione per la politica, in nome del figlio Roberto di appena dieci anni, è stata caratterizzata da alcuni provvedimenti di buon livello e i suoi interventi economici portarono al risanamento dei bilanci e alla diminuzione del debito pubblico. Si liberò, quando ebbe il potere, degli uomini nefasti che avevano circondato il Duca e si avvalse di persone non invise ai liberali[19]. Favorì la nascita di una banca: la Cassa di Risparmio, di cui Parma era priva; destinò ingenti somme per opere pubbliche; sotto il suo governo fu terminata la ferrovia Parma Piacenza. Riaprì l’Università con tutte le facoltà (compresa Teologia), istituì scuole elementari e medie; nell’Oltretorrente, fece costruire un quartiere per gli operai (attuale borgo della Salute). Una terribile epidemia di colera però decimò la popolazione (8200 vittime). Cercò di dare pace e prosperità, ma il diffondersi del sentimento nazionale resero la sua posizione impossibile, anche se assunse un atteggiamento di neutralità tra Piemonte e Impero Asburgico. Fu travolta dagli avvenimenti. La vita del Ducato fu travagliata da agitazioni numerose e diffuse, i tumulti sanguinosi si tramutarono in sanguinosa repressione. Continuarono assassini e vendette. Fu nominato il Consiglio di guerra alla cui presidenza andò Diofebo Meli-Lupi. All’inizio del ’59, quando la seconda guerra d’indipendenza sembrava quasi inevitabile e molti giovani lasciarono la città per aggregarsi all’esercito piemontese, Luisa Maria, valutando questo contesto socio-politico, dopo la battaglia di Magenta lasciò definitivamente il Ducato il 9 giugno 1859, senza peraltro abdicare, ma sciogliendo i corpi militari dal giuramento di obbedienza al giovane Duca da lei rappresentato.

E’ stato in sostanza questo un periodo storico tormentato, ma la struttura bipolare borghesiapopolo, caratteristica della comunità urbana di Parma, ha tenuto.

Gli orientamenti pastorali della Chiesa di Parma in questo periodo sono stati indagati in tre pubblicazioni: C. Pelosi[20]di A. Manfredi [21] e di U. Cocconi.[22] [23]

Ne emerge la continuità di un insegnamento e di una prassi religiosa centrati prevalentemente sulla figura di Dio, sull’etica dei Dieci Comandamenti e sulla devozione alla Madonna e ai Santi. Le feste liturgiche erano sentite e frequentate. E’ una cultura religiosa nella quale non compare quella centralità di Cristo, come rivelatore di un Dio trinitario e del volto del Padre, quale Cristo ce lo ha trasmesso e che il Concilio Vaticano II ci ha splendidamente proposto.

Alle dimissioni di Neuschel, fu nominato Vescovo di Parma il Cappuccino Felice Cantimorri che, come si vedrà, sulla questione dell’Unità d’Italia si è rigidamente attenuto al non expedit.[24]

 

 


 

[1] Risiedevano circa un decimo della forze francesi in Italia.

[2] Tra i congiurati vi erano: Giovanni Anguissola, Girolamo e Camillo Pallavicino, Gianluigi Gonfalonieri, Olderigo e Agostino Landi,

[3] Margherita Violante, figlia di Vittorio Amedeo I di Savoia è la prima moglie; Isabella d’Este la seconda; Maria d’Este, madre di Francesco.

[4] Scrisse l’Alberoni, rivolgendosi al duca Francesco: “Codesta è una miserabile e infingarda nazione degna d’esser trattata come schiava e ricolmata d’obbrobri e di sciagura. Così succederà”. L’Alberoni rimase nascosto fino alla chiamata al conclave che si riunì per l’elezione del nuovo Papa. Ottenuto un salvacondotto si recò a Roma. Seppe riconquistarsi le simpatie e Innocenzo XIII lo assolse da ogni accusa. Dopo alcuni incarichi, offrì le rendite che gli provenivano dall’Antico Ospedale dei lebbrosi di San Lazzaro per la realizzazione di un Istituto di studi che potesse essere frequentato da giovani piacentini di povera famiglia, che avessero vocazione ecclesiastica.

[5] Grassi, A. 1998 – La congiura del marchesino di Sala.. Lions Club Langhirano Tre Valli. Battei, Parma.

[6] Il Concilio di Trento si è svolto dal 1545 al 1563, (con interruzioni). E’ stato il XIX Concilio ecumenico della Chiesa cattolica. Con esso si definì la reazione alle dottrine del calvinismo e luteranesimo e la riforma della Chiesa. Il Concilio si sarebbe dovuto tenere a Vicenza, ma la famiglia appartenente al ceto aristocratico che si era proposta ad allestire l’evento, si scoprì successivamente essere troppo legata all’imperatore, motivo per cui fu abbandonato il progetto.
Il primo ad appellarsi ad un concilio che dirimesse il suo contrasto col papa fu Lutero, già nel 1518: la sua richiesta, incontrò subito il sostegno di numerosi tedeschi, soprattutto di Carlo V, che in esso vedeva un formidabile strumento non solo per la riforma della Chiesa, ma anche per accrescere il potere imperiale: la richiesta si scontrò con la ferma opposizione di papa Clemente VII che, oltre a perseguire una politica filo-francese e ostile a Carlo V, da un lato vi vedeva i rischi di una ripresa delle dottrine conciliariste, dall’altro temeva di poter essere deposto (in quanto figlio illegittimo).
L’idea di un concilio riprese quota sotto il pontificato del successore di Clemente VII, papa Paolo III (15341549), che nel 1536 convocò prima a Mantova e poi a Vicenza un’assemblea di tutti i vescovi, abati e di numerosi principi dell’impero, ma senza ottenere alcun effetto (a causa del conflitto tra Francesco I e Carlo V).
Dopo il fallimento dei colloqui di Ratisbona (1541) la sua convocazione fu giudicata improrogabile: per quanto riguarda la sede, nel 1542 si stabilì che venisse celebrato a Trento poiché, pur essendo una città italiana, era entro i confini dell’Impero ed era retta da un principe-vescovo; dopo la pace di Crepy Paolo III poté finalmente emanare la bolla di convocazione, la Laetare Jerusalem (novembre 1544) e il Concilio si aprì solennemente a Trento il 13 dicembre 1545, III domenica di Avvento, nella cattedrale di San Vigilio.
Il concilio contò inizialmente pochissimi prelati, quasi tutti italiani, e fu quasi sempre controllato dai delegati pontifici. Furono presenti anche alcuni prelati legati al cosiddetto evangelismo, come il Cardinale Reginald Pole. Venne trattata una parte dogmatica, sugli argomenti controversi del tempo, che portò a delle definizioni contrapposte a quelle luterane, come nel decreto sulla giustificazione. Non fu pertanto possibile risolvere il problema dell’accordo con la religione riformata che nel frattempo era stata tollerata nell’impero con l’Interim di Augusta. Venne riconosciuta come ufficiale la versione della Bibbia detta Vulgata, evitando l’uso del volgare per le Sacre Scritture nel culto. Tra le deliberazioni più importanti dal punto di vista disciplinare ci fu l’obbligo di residenza dei vescovi nelle loro diocesi. Avveniva infatti che i benefici ecclesiastici e i vescovati venissero assegnati generalmente ai nobili, senza che corrispondesse effettivamente l’obbligo di residenza e lo svolgimento dell’incarico. Al termine del concilio diverse questioni che non erano state trattate vennero demandate al papa e alla curia romana, che negli anni successivi emise altri importanti documenti sulla riforma della chiesa. Fra questi le revisioni del Breviario e del messale, con la conseguente uniformità liturgica della chiesa occidentale con l’adozione universale del rito romano, con l’unica eccezione del rito ambrosiano per la diocesi di Milano, e la scomparsa di tutti gli altri riti occidentali. Furono inoltre pubblicati in seguito il Catechismo Tridentino e l’Indice dei libri proibiti (Index librorum prohibitorum).
Fonte: Wikipedia

[7] Leoni L., 1910 – Il Beato Cornelio Fabbro della Compagnia di Gesù e il suo apostolato in Parma nel 1539-’40. Tomasi. Parma.

Soncini, V. 1925 – Il padre Paolo Segneri 1624-1694 nella storia dei Farnese di Parma, con lettere e documenti inediti. SEI, Torino

[8] In questa rassegna, non omnicomprensiva, non si è ritenuto di riflettere né sulla presenza di protestanti, né sull’attività degli ebrei, né sull’Inquisizione a Parma.

[9] Demina, C. 1794 Considérations d’un italien sur l’Italie Spenser, Berlino

[10] Stuart J. W., Dal primo settecento all’unità. La storia politica e sociale in Storia d’Italia dal primo settecento all’unità, Vol. III Einaudi, Torino,. 1973 pp. 98-99

[11] Il primo numero del foglio, di cui si ha copia, risale al 19 aprile 1735. Dal 1° gennaio 1760 uscì senza interruzioni ogni settimana, il martedì. Nel 1761 la pubblicazione fu distribuita il venerdì.

[12] “Appena fui nelle strade di Parma, mi sembrò di non essere più in Italia, perché tutto aveva aria oltremontana”, così si dice che commentasse il Casanova reduce da una visita nel Ducato.

[13] Fondazione Cassa di Risparmio 1987 – L’ossessione della memoria, Parma settecentesca nei disegni del Conte Alessandro Sanseverino. Parma, PPS Edit.

La rivoluzione urbanistica del Du Tillot ha interessato sostanzialmente soltanto la Parma borghese (Parma Nuova), dunque, lasciando intatta la dissestata e precaria situazione dei borghi della stessa Parma Nuova, e soprattutto dell’Oltretorrente. Giandebiaggi P. 2003 – Il disegno di un’utopia. Mattioli. Fidenza

[14] Un dettagliato esame, anche pastorale, del clima ecclesiale parmense del XVIII secolo si ha nella monumentale monografia di padre Stanislao da Campagnola sul Turchi, in cui si documentano i conflitti interni alla società civile cristiana e, in particolare, la politica anti gesuitica del Du Tillot. (Stanislao da Campagnola 1961 – Adeodato Turchi Uomo – Vescovo – Oratore (1724-1803). Bibliotheca Seraphico-Capucina, Sectio Historica – Tom. XIX Istituto storico Ord. Fr. Min. Cappuccini. Roma, 1961,. p.495)

[15] Un tema di ricerca: consultare l’Archivio della Facoltà Teologica dell’Università di Parma e del Collegio dei Teologi di Parma e scorrere l’elenco delle tesi di Baccalaureato e di dottorato conferite nei secoli XVII-XVIII.

[16] Una relazione fatta da un funzionario del Governo francese, il Boccia, offre spunti di un buon rilievo scientifico e socio-culturale su tutta la provincia di Parma, fino ai più piccoli paesi. Il riferimento bibliografico è Boccia A. 1804 Viaggio ai monti di Parma Quaderni parmigiani n. 2 Silva Editore

[17] Casa E. La privata a Parma nella prima metà dell’Ottocento. PPS Editrice Parma 2005

[18] Al vescovo Neuschel è attribuita la distruzione dell’archivio dei dati dei processi dell’Inquisizione celebrati a Parma (L. Scarabelli).

[19] A Enrico Salati, Grazia e Giustizia; al marchese Giuseppe Pallavicino gli Esteri e gli Interni, Antonio Lombardini le Finanze.

[20] Pelosi C. 1967, Mons. F. Cantimorri e il suo tempo, in A. S. PP. s. IV, 19, pp. 371-384

[21] Manfredi A. 1999 Vescovi, Clero e Cura Pastorale. Studi sulla Diocesi di Parma alla fine dell’800. Ed. Pontificia Università Gregoriana. Roma

[22] U. Cocconi ha indagato gli episcopati del cardinale Francesco Caselli (1804-1828), di mons. Vitale Loschi (1831-1842) dopo il breve governo di mons. Remigio Crescini (1828-1830), di mons. Giovanni T. Neuschel (1843-1852) e di mons. Felice Cantimorri (1834-1870). (Cocconi U., 1998, Chiesa e società civile a Parma nel XIX secolo, LDC, Torino)

[23] E’ interessante capire come la gente percepiva gli avvenimenti giornalieri negli ultimi tempi del ducato. Per una descrizione da una persona del tempo, Angelo Pescatore Il declino di un Ducato (1831-1859) in Quaderni parmigiani n. 5 Parma, Silva

[24] Va detto, che durante l’episcopato di Cantinori è stata istituita la prima Società di Azione Cattolica.

Trionfini P. 1998- Una storia lunga un secolo. L’Azione Cattolica a Parma (1870-1952) pp.19-29-30.

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