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L’amara verità su Garibaldi

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E invece, osserva Michele Eugenio Di Carlo, la verità su Garibaldi, sull’impresa dei Mille e, soprattutto, suo ruolo degli inglesi nella conquista del Sud ad opera dei piemontesi va raccontata. E pazienza se questo andrà a rivoltare il cumulo di bugie raccontate dalla storia ufficiale. Barbero prenda atto di quanto dice lo storico Eugenio Di Rienzo: e cioè che il lavoro di ricerca degli studiosi revisionisti non accademici del Risorgimento è prezioso! 

di Michele Eugenio Di Carlo*

Professor Alessandro Barbero, essendo lei uno degli storici medievisti più accreditati, perché non lascia la storia del nostro processo unitario a specialisti già in evidente difficoltà?

In un suo famoso intervento divulgato dal canale YouTube dal titolo “La verità su Garibaldi”, lei tentando di riproporre la figura dell’ “Eroe dei due mondi” dice molte verità. Ma da quelle stesse verità che lei racconta, omettendone altre che le dirò, il personaggio Garibaldi al vaglio attento dello studioso e dello storico, al di là delle “leggende truffaldine”, non esce affatto fortificato come repubblicano, come patriota, come politico.

Lasci allora che un modesto studioso non accademico, non “educato” a frequentare studi televisivi importanti e spesso definito impropriamente “neoborbonico”, spieghi cosa Lei non ha vagliato, forse intenzionalmente, della figura di Garibaldi.

Il Giuseppe Garibaldi, ricordato in tutta Italia con statue, intitolazioni di vie e di piazze, godeva di uno stretto legame che lo vincolava alla Gran Bretagna, potenza coloniale che aveva forti interessi politici e commerciali da difendere nel Mediterraneo e che non si era mai fidata di Ferdinando II scatenandogli contro una spietata campagna denigratoria, i cui effetti persistono ancora oggi nei testi di storici assurdamente ancorati ad una storiografia ufficiale liberale sabauda.

L’idea di preparare una invasione militare in Sicilia non era stata di Garibaldi. In una lettera del 5 maggio ad Agostino Bertani, pubblicata l’8 maggio 1860 sul “Pungolo”, è lo stesso Garibaldi a renderlo noto1. Anche
per Camillo Benso Conte di Cavour, non era il momento propizio per sostenere i moti siciliani e impegnarsi nell’organizzazione di una spedizione militare in Sicilia, per le ragioni che lei stesso ha esposto.

Infatti, il suo collega Pietro Pastorelli, professore emerito di Storia delle relazioni internazionali all’Università di Roma “La Sapienza” e presidente della Commissione del Ministero degli Esteri per la pubblicazione dei Documenti Diplomatici Italiani, dopo aver consultato l’ultima edizione completa dei Carteggi di Cavour e i documenti editi dagli archivi inglesi, francesi e prussiani, non ha lasciato alcun dubbio sul fatto che sia stato il Regno Unito ad incoraggiare e sostenere l’azione militare in Sicilia.

Gentile professor Barbero, il ruolo della Gran Bretagna non è un elemento irrilevante nella ricostruzione storica della figura di Garibaldi.

Le critiche della Gran Bretagna al trattato franco-sardo del 24 marzo erano note, l’annessione della Savoia e di Nizza alla Francia aveva raggelato i rapporti tra Londra e Parigi e indotto il Governo inglese ad emettere un giudizio di totale inaffidabilità sul Conte di Cavour. Il pericolo che si potessero riaprire le porte d’Oriente alla Russia a cui il Regno delle Due Sicilie era particolarmente legato e che la Francia potesse allargare la sua influenza anche in Italia meridionale, mettevano in discussione l’egemonia economica e commerciale della Gran Bretagna nel Mediterraneo.

Già il 5 aprile Cavour, sospettando l’azione inglese nell’insurrezione di Palermo, contattava telegraficamente d’Azeglio, ambasciatore a Londra, affinché indagasse su un’ eventualità del genere.

Qualche giorno dopo d’Azeglio, sempre in contatto con il Primo Ministro inglese Palmerston, riferiva al Conte che l’atteggiamento di sfiducia nei suoi riguardi non era affatto mutato e che ulteriori altre annessioni italiane favorite dalla Francia non sarebbero state accettate dall’Inghilterra2.

Pastorelli deduce dai comportamenti la linea seguita dagli inglesi; una linea che si risolse nel sostenere con un accordo segreto l’operazione militare di Garibaldi nel sud Italia senza nemmeno contattare il Primo Ministro sabaudo di cui Palmerston non si fidava. Naturalmente, il sostegno a Garibaldi doveva essere negato anche di fronte all’evidenza per evitare reazioni di Francia, Austria, Russia e Prussia3.

Il 30 aprile, il ministro degli Esteri inglese Russel trasmetteva all’ambasciatore Hudson le istruzioni sulla linea politica che il Governo torinese avrebbe dovuto seguire per andare incontro agli interessi inglesi.

Londra desiderava il non intervento di Torino nelle questioni riguardanti il Regno delle Due Sicilie, perché convinta che un intervento diretto del Piemonte avrebbe comportato l’intervento armato dell’Austria e per
reazione quello della Francia a difesa di Torino. Un’eventualità del genere avrebbe comportato l’ulteriore cessione di territori italiani alla Francia (Liguria o Sardegna) e uno squilibrio nella prevalenza inglese del
Mediterraneo.

Questa la ragione precisa per cui l’Inghilterra si apprestava a sostenere l’impresa azzardata e “piratesca” di Garibaldi4.

Ed era questo anche il motivo per cui Garibaldi cambiava diplomaticamente atteggiamento nei riguardi di Cavour, dopo la frattura dei loro rapporti seguita alla cessione di Nizza. Finanche lo storico Giuseppe Galasso ha apprezzato il comportamento opportunistico di Garibaldi in quel frangente, scrivendo che aveva «lucidamente inteso le condizioni» che potevano agevolare la sua impresa, mantenendo a ogni costo «il rapporto con Torino, per averne l’appoggio diplomatico e militare».

A questo punto professor Barbero, il Garibaldi socialista, repubblicano di cui lei parla già appare come una figura sfumata e dai contorni ambigui.
Non solo perché tradisce i suoi ideali, ma perché come scrive il suo compianto collega Galasso è costretto a dimostrare «di non procedere nel Mezzogiorno ad alcuna sovversione dell’ordine sociale, garantendo
insieme l’opinione pubblica europea e la borghesia meridionale»5.

Garibaldi, temendo impedimenti e ostacoli, vince la forte inimicizia e scrive a Cavour un messaggio per coinvolgerlo nell’impresa. Convocato il 2 maggio a Bologna, incontra Vittorio Emanuele II e Cavour, illustra i piani dell’impresa, conferma l’appoggio inglese, riceve l’approvazione sotto copertura del Re e del Primo Ministro6.

Professor Barbero, l’altro suo collega Eugenio Di Rienzo, accademico esperto, direttore della “Nuova Rivista Storica”, noto docente di Storia Moderna presso l’Università “La Sapienza” di Roma, riprendendo
una lettera di Massimo d’Azeglio all’ammiraglio Carlo Pellion7, conte di Persano, riporta alla luce che il vero piano affidato da Cavour all’ammiraglio era quello di condurre «una guerra non dichiarata, sotto neutralità apparente, contro Francesco II».

Da quanto riportato si evince chiaramente che il Conte sosteneva un’azione
illegale, contro il diritto internazionale, temendone le ripercussioni a livello europeo. Quindi, il compito di Persano non era quello dichiarato di avversare il progetto, ma di fornire assistenza a Garibaldi e a tutte le
spedizioni successive di uomini e di mezzi, ponendo tutti gli impedimenti possibili alla reazione della flotta borbonica, anche al costo di continuare a corrompere gli ufficiali napoletani favorendone il trasferimento
sotto le insegne della Marina dei Savoia8.

Professor Barbero, come Lei riferisce, i Mille non erano Mille, ma è bene chiarire che Garibaldi è uno strumento in mano alla Gran Bretagna, affiancata da un Regno di Sardegna che agisce in maniera indegna.

Professor Barbero, il tanto vituperato legittimista Giacinto de’ Sivo si sbaglia forse quando, parlando del Conte di Cavour, afferma che era un «ipocrita istigatore di guerra civile cui fingeva di deplorare, accennava a italianità, quasi non fossero italiani i combattenti pel diritto. Per esso erano italiani e compatrioti i ribelli, i traditori e i codardi che gli vendevano la patria… 9»?

Prof. Barbero, Garibaldi nelle sue “Memorie” così descrive l’approdo a Marsala dell’11 maggio 1860:

«… la presenza di due legni da guerra Inglesi influì alquanto sulla determinazione dei comandanti de’ legni nemici, naturalmente impazienti di fulminarci; e ciò diede tempo ad ultimare lo sbarco nostro. La nobile bandiera d’Albione contribuì, anche questa volta, a risparmiare lo spargimento di sangue umano; ed io, beniamino di codesti Signori degli Oceani, fui per la centesima volta il loro protetto»10.

Professor Barbero, non la colpisce profondamente constatare che «l’eroe dei due mondi», il rivoluzionario Garibaldi, si riteneva «beniamino» di coloro i quali avevano issato in mezzo mondo la bandiera di quella Gran Bretagna che era ritenuta la più grande potenza coloniale e imperialistica al mondo, che solo da qualche anno aveva abolito lo schiavismo e il traffico di carne umana, che non esitava a passare per le armi i suoi nemici interni e esterni, che manteneva in condizioni di estrema povertà le classi proletarie, che permetteva che milioni di suoi sudditi emigrassero per la fame, che aveva un sistema carcerario tra i peggiori al mondo?

Professor Barbero, non desta in Lei nessuna impressione il fatto che chi progettava di unificare l’Italia dal gioco straniero si affidava pienamente alla Gran Bretagna nel tentativo di sopraffare una legittima monarchia
perfettamente italiana?

Un Garibaldi non poteva andare oltre le semplici dichiarazioni di affezione, amicizia, simpatia e rivelare chiaramente quale fosse stato il ruolo degli inglesi nella spedizione anche se, come spiega ancora il suo collega Di Rienzo, la presenza della flotta inglese non solo nel mare di Sicilia era vista come una minaccia concreta sia dagli ufficiali della Marina napoletana sia da Francesco II e quasi sicuramente la decisione di approdare a Marsala era stata concordata da Garibaldi con i referenti del Governo inglese11.

E a proposito dei soldi necessari all’impresa bisogna anche qui chiarire meglio il ruolo della Gran Bretagna e della Massoneria. Infatti il 4 marzo 1861, quando l’Italia stava per essere unificata, il deputato John Pope Hennessy riaccendeva la discussione e contestava al Governo inglese di aver interferito nella vittoriosa impresa garibaldina, sostenendola militarmente, finanziariamente e diplomaticamente, mentre ufficialmente caldeggiava ipocritamente la linea del non intervento negli affari italiani.

Secondo Pope le due navi della flotta inglese erano presenti nella rada del porto di Marsala col preciso compito di fornire il supporto necessario ad assicurare lo sbarco a Marsala degli uomini in camicia rossa12.

Pochi erano i dubbi sul coinvolgimento inglese nella conquista militare del Regno delle Due Sicilie; dubbi che si affievolirono del tutto quando lo stesso Pope rese nota la lettera con cui Vittorio Emanuele II aveva ringraziato il Governo inglese13.

Professor Barbero, come Lei afferma, Garibaldi “socialista” non piaceva a Karl Marx. Marx ed Engels seguirono con attenzione l’azione di Garibaldi, ma solo inizialmente, anche perché sono noti i loro giudizi negativi sull’evoluzione politica italiana. E d’altronde, come poteva piacere a Marx il Garibaldi che, supportato da ambienti finanziari e politici inglesi, finiva per consegnare il Regno delle Due Sicilie a Vittorio Emanuele II e alla casta politico-militare dei Savoia, che trattarono il sud Italia come fosse una colonia, instaurandovi un feroce regime repressivo?

Professor Barbero, anche sul fatto che la figura di Garibaldi è stata proposta più volte nella storia dalla sinistra come icona positiva – da ultimi i comunisti svizzeri – ha totalmente ragione, ma non c’è da esserne
soddisfatti. Pensi quanto sia stata potente la macchina della propaganda agiografica messa in piedi dai governi liberali dopo il processo unitario, se anche la sinistra non è riuscita a distinguere il Garibaldi “socialista” da quello che consegna la conquista militare a Vittorio Emanuele II.

Professor Barbero, non si può, d’altro canto, non registrare l’utilizzo strumentale che ne fece anche il fascismo. Fulvio Orsitto, docente accademico esperto di cinema, senza mezzi termini, considera la seconda
fase della cinematografia, quella definita «fascista», un periodo storico in cui «la ricostruzione della storia patria si svolge in modo funzionale agli interessi di un regime che intende essere considerato la logica conclusione del processo risorgimentale».

Un Risorgimento manipolato strumentalmente al fine di nazionalizzare le masse, dato che non poteva sfuggire all’intellettualità fascista come il cinema fosse un potente mezzo di comunicazione, piegabile ad uso propagandistico, e che il potere poteva efficacemente utilizzare per indottrinare e ideologizzare le masse.

Emblematica di questa maniera romantica e fantastica di rappresentare il Risorgimento è il film “1860”, diretto da Alessandro Blasetti nel 1934. Daniele Fioretti, peraltro, docente alla Miami University, non nutre alcun dubbio sulla circostanza che Blasetti non si era affatto proposto di fornire un quadro storico verosimile del Risorgimento, ma una banale celebrazione
agiografica dell’epopea garibaldina con un intento smaccatamente propagandistico.

Il pericolo concreto fu allora persino avvertito dal filosofo tedesco Walter Benjamin: la storia e le tradizioni erano diventate lo strumento della classe dominante, mentre compito dello storico era proprio quello di sottrarre la storia a questo tipo di manipolazione.

Egregio professor Barbero, non Le sembra un ammonimento più che mai attuale?

Per finire professor Barbero – mi riferisco ai suoi giudizi sulle “leggende truffaldine” della sua ultima visita a Napoli – si convinca anche Lei relativamente a quanto ha affermato il suo collega specialista della
materia Eugenio Di Rienzo: il lavoro di ricerca degli studiosi revisionisti non accademici del Risorgimento è prezioso.

Infatti, tornando a Garibaldi, su una delle questioni centrali della “avventura” in Sicilia, Di Rienzo ha affermato che la longa manus del ministero whig ha «potentemente contribuito (soprattutto ma non
soltanto con un supporto economico) al successo della ‘liberazione del Mezzogiorno’», aggiungendo lucidamente «che la storiografia ufficiale ha sempre accantonato, spesso con immotivata sufficienza» un’ipotesi «che ha trovato credito soltanto in una letteratura non accademica accusata ingiustamente, a volte, di dilettantismo e di preconcetta faziosità filoborbonica14».

*Socio della Società di Storia Patria per la Puglia

1 La lettera di Garibaldi è stata ripubblicata in Cronache dell’unità d’Italia, a cura di Andrea Aveto, cit., pp. 148-149.
2 P. PASTORELLI, 17 marzo 1861. L’Inghilterra e l’unità d’Italia, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2011, pp. 70-72.
3 Ivi, p. 72.
4 Ivi, pp. 73-74.
5 G. GALASSO, Il Regno di Napoli. Il Mezzogiorno borbonico e risorgimentale (1815-1860), Torino, UTET, 2007, p.
765.
6 P. PASTORELLI, 17 marzo 1861. L’Inghilterra e l’unità d’Italia, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2011, pp. 69 -70.
7 Diario privato politico-militare dell’ammiraglio C. di Persano nella campagna navale degli anni 1860-1861, Firenze –
Torino, Civelli – Arnaldi, 1869-1871. 4 voll., I, pp. 15-19.
8 E. DI RIENZO, Il Regno delle Due Sicilie e le Potenze europee 1830-1861, cit., pp.142-143.
9 G. DE’ SIVO, Storia delle Due Sicilie, vol. II, Napoli, Grimaldi § C. Editori,2016, p. 47.
10 Le memorie di Garibaldi, Bologna, Cappelli, 1932, vol. II dell’Edizione Nazionale degli scritti di Giuseppe Garibaldi,
pp. 422-423; si veda P. PASTORELLI, 17 marzo 1861. L’Inghilterra e l’unità d’Italia, cit., pp. 63-64.
11 E. DI RIENZO, Il Regno delle Due Sicilie e le Potenze europee 1830-1861, cit., p.154.
12 Ivi, pp. 156-157.
13 Ibidem.
14 Ibidem.

Fonte Link: inuovivespri.it 


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Ignazio Coppola


Il primo della storia. Dell’enorme tesoro in lingotti d’oro che allora il Banco di Sicilia conteneva e che fu saccheggiato da Garibaldi ne è testimonianza il fatto che poco meno di un anno prima (nel 1859) era stato eseguito il rafforzamento della pavimentazione del Banco stesso resa pericolante dall’enorme peso della traboccante cassaforte in cui appunto erano contenute ingenti somme di denaro e enormi quantità di lingotti d’oro…

Il 27 maggio del 1860 data l’inizio della scientifica spoliazione e della rapina delle ricchezze e dei beni delle genti del Sud e dei siciliani. Con l’entrata di Garibaldi a Palermo ha, infatti, inizio il saccheggio che avverrà quattro giorni dopo, il 31 Maggio, della tesoreria del Regio Banco di Sicilia.

Dell’enorme tesoro in lingotti d’oro che allora il Banco di Sicilia conteneva e che fu saccheggiato da Garibaldi ne è testimonianza il fatto che poco meno di un anno prima (nel 1859) i dirigenti del banco siciliano avevano commissionato ad alcune imprese edili il rafforzamento della pavimentazione del Banco stesso resa pericolante dall’enorme peso della traboccante cassaforte in cui appunto erano contenute ingenti somme di denaro e enormi quantità di lingotti d’oro. Ad alleggerirla in quel maggio del 1860 e a risolvere i problemi e i pericoli del sovrappeso della cassaforte ci pensò, alla sua maniera, Garibaldi rapinando il contenuto della cassaforte e depredando i palermitani e i siciliani dei loro risparmi.
Il tutto avvenne in occasione dell’incredibile e inspiegabile ingresso di Garibaldi in una Palermo presidiata da 24000 borboni e dopo la farsa della battaglia di Calatafimi, dove grazie al tradimento e alla corruzione (il prezzo del tradimento ammontò allora a 14000 ducati) del generale Landi ,3000 borboni batterono in ritirata di fronte a circa 1000 garibaldini male in arnese e nella quasi totalità inesperti all’uso delle armi. In quell’occasione, proprio quando i borboni in numero nettamente superiore e attestati in una posizione più che favorevole, si accingevano a sconfiggere facilmente i garibaldini, il generale Landi , che già aveva intascato una fede di credito di 14000 ducati, un somma enorme per quei tempi equivalenti a 430 milioni di vecchie lire e 224mila euro dei nostri giorni, diede ordine al proprio trombettiere, di suonare il segnale della ritirata, lasciando sbigottiti ed esterrefatti gli stessi garibaldini che, a quel punto, non credevano ai propri occhi.

Come non credevano ai propri occhi gli stessi soldati borbonici che con rabbia e sdegno, loro malgrado, furono costretti a ubbidire. Scriverà poi Cesare Abba nelle suo libro Da Quarto al Volturno: “E quando pensavamo di avere perso improvvisamente ci accorgemmo di avere vinto e meravigliati dal campo stemmo a guardare la lunga colonna ritirarsi a Calatafimi”.

E ancora, uno dei Mille, Francesco Grandi nel suo diario così riportava: “Ci meravigliammo non credendo ai nostri occhi e alle nostre orecchie, da come si erano messe le cose, quando ci accorgemmo che il segnale di abbandonare la contesa non era lanciato dalla nostra tromba ma da quella borbonica”.  Più chiaro di così ….

Tanto potè a Calatafimi il tradimento e la corruzione del generale Landi come possiamo rilevare da quanto riportato nei loro diari degli stessi garibaldini increduli testimoni dell’”inglorioso” evento. Ma “l’intelligenza con il nemico” di Landi nella battaglia di Calatafimi non fu certo pari a quella del generale Lanza a Palermo. Questi lo superò di gran lunga,nel modo come all’alba del 27 maggio agevolò l’entrata di Garibaldi a Palermo da porta Termini, lasciandola deliberatamente sguarnita e non prendendo alcun provvedimento malgrado alcuni suoi ufficiali lo sollecitassero a fare uscire le truppe (che contavano ben 24000 uomini) acquartierate al palazzo reale per contrastare i circa 3000 garibaldini ( ai Mille si erano nel frattempo aggiunte alcune bande di picciotti molte delle quali condotte da noti mafiosi dell’epoca) che si accingevano a entrare in città.

Lanza lasciò deliberatamente il grosso delle truppe inoperose e poca resistenza poterono fare le 260 reclute che erano rimaste a presidio di porta Termini da cui, travolta questa scarsa resistenza, i garibaldini dilagarono in città rimanendone nei giorni successivi assoluti padroni poiché Lanza si ostinava a tenere inspiegabilmente(era evidente il tradimento e la connivenza con il nemico) le sue truppe acquartierate e inoperose nei pressi del Palazzo Reale. Nei giorni seguenti, fedele a un copione già stabilito e concordato, chiede per il giorno 29 maggio all’ammiraglio inglese Mundy, che si trovava con la sua nave ammiraglia Hannibal nella rada di Palermo la mediazione per la firma di un armistizio che verrà accordato e che si protrarrà sino al 3 giugno . Nelle more dell’armistizio, per accordare ulteriori 3 giorni di proroga Garibaldi, il 31 maggio, pretenderà la consegna di tutto il denaro del Regio Banco delle Due Sicilie. E come è facilmente arguibile, da copione già scritto, il Lanza acconsentirà facendo per questo nascere il legittimo sospetto, alla luce degli avvenimenti di quei giorni caratterizzati da tradimenti e corruzioni, che, nella divisione della torta del saccheggio del Banco, una fetta non indifferente andasse alla fine nelle capienti tasche del generale borbonico. Del resto, di qualche giorno a Calatafimi sulla falsariga della corruzione e del tradimento, lo aveva preceduto per cifre più modeste il generale Landi.

La cronaca di quei giorni e della consegna di quanto contenuto e saccheggiato dal Banco delle Due Sicile è dettagliatamente riportata nel libro di Lucio Zinna Il caso Nievo  che come si sa fu il viceintendente di finanza della spedizione dei Mille. Zinna fa una puntuale e interessante ricostruzione del caso Nievo e della sua misteriosa morte avvenuta nel marzo del 1861, nell’affondamento del Piroscafo Ercule a punta Campanella nei pressi di Napoli mentre stava portando a Torino la rendicontazione della gestione amministrativa e finanziaria dell’impresa dei Mille comprendente anche, si presume, la vicenda riguardante la “consegna” del denaro del Banco delle Due Sicile preteso da Garibaldi all’atto dell’armistizio. Ma sfortunatamente tutto andò a fondo nel naufragio dell’Ercole e ogni notizia al riguardo si perse con la misteriosa morte di Nievo. Lucio Zinna nel suo interessante libro, così puntigliosamente e minuziosamente, ricostruisce la cronaca del ” prelievo” fatto da Garibaldi a danno dei palermitani e dei siciliani al Banco delle Due Sicilie: “Il primo giugno Francesco Crispi e Domenico Peranni (ultimo tesoriere di nomina borbonica,ben presto e per breve tempo Ministro delle Finanze della dittatura garibaldina) ricevettero nel palazzo delle finanze, dallo stesso generale Lanza e in presenza di funzionari, la somme che vi erano custodite. Complessivamente 5 milioni 444ducati e 30 grani. E poiché nella monetazione siciliana- spiega Zinna nella sua puntuale ricostruzione – un ducato,equivalente a dieci tarì, corrispondeva al cambio in lire italiane di 4,20, la somma complessiva ammontava a 22 milioni864mila 801 ducati e 26 centesimi pari a 166 miliardi 962 milioni738 mila 984 lire che tradotti in euro fa 86 milioni 229 058 e 44 centesimi. Un importo complessivo costituito dai depositi dei privati tranne 112 mila 286 ducati di pertinenza erariale. Una somma enorme equivalente a quasi metà delle spese sostenute nella guerra franco piemontese del 1859 contro l’Austria.

E fu così che privati cittadini palermitani e siciliani si videro così spogliare di tutti i loro risparmi ai quali Garibaldi rilasciò una improbabile ricevuta con su scritto “ Per spese di guerra” con l’impegno che il nuovo stato avrebbe restituito il prestito. Il foglietto contenente la ricevuta restò negli archivi a futura memoria. Il dovuto non fu mai restituito ma distribuito ai garibaldini , alla copertura delle spese delle guerre sabaude e al ripianamento del debito pubblico dello stato più indebitato d’Europa che era allora il Piemonte per le enormi spese di guerra sostenute. I siciliani e i palermitani aspettano ancora di essere risarciti di queste rapine anche per questo la magica parola Risorgimento vorrà ancora oggi ,per loro significare, con i dovuti interessi, Risarcimento. Di questo prelievo indebito e forzato è difficile, trattandosi di un vero e proprio atto di saccheggio e di pirateria dei depositi bancari dei siciliani, trovarne traccia nelle cronache e nei libri del tempo. Ne fa cenno nel suo libro-diario “La Flotta inglese e i mille” l’ammiraglio sir Rodney Mundy, inviato, con la sua flotta, dal governo del suo paese, a scortare e proteggere Garibaldi, che così debitamente riporta l’avvenimento : 1° giugno – Riferendosi alle clausole della convenzione firmata dal generale Lanza e dal sig. Crispi, segretario di stato del governo provvisorio, la Finanza e la Zecca reale passava agli insorti. Nelle casse furono trovate un milione e duecentomila sterline in denaro contante” ( Corrispondente, in sterline, all’ingente somma così bene e minuziosamente descritta da Lucio Zinna)
Per non fare torto ai siciliani e ai palermitani, appena giunto a Napoli, Garibaldi non si fece parimenti scrupolo di depredare e usare lo stesso trattamento e gli stessi metodi di rapina alla capitale del Regno delle Due Sicilie. Il palazzo reale fu spogliato e depredato di tutto e così come avvenne a Palermo fu saccheggiato l’oro della Tesoreria dello Stato e tutti i depositi del Banco di Napoli requisiti e dichiarati beni nazionali . Con un decreto del 23 ottobre, ben 6 milioni di ducati equivalenti a 118 miliardi delle vecchie lire e a 90 milioni degli attuali euro provenienti da questi saccheggi furono poi divisi tra gli occupanti e i loro sodali. Furono pure requisiti il patrimonio e i beni personali di Francesco II di cui indebitamente si impossessò Vittorio Emanuele II . Più avanti il re di Sardegna si offrirà di restituirli al legittimo proprietario se questi avesse acconsentito a rinunciare al suo diritto al trono delle Due Sicilie. “La dignità non si compra” fu la lapidaria risposta del deposto ultimo re della dinastia borbonica in Italia ,definita “la negazione di Dio”, al re “galantuomo”che lo aveva depredato di tutto. E dire che di recente il ballerino cantante principe Emanuele Filiberto di Savoia e suo padre Vittorio Emanuele, degni discendenti del re “galantuomo”, con la regale faccia tosta che li contraddistingue, rientrati dall’esilio pretendevano un cospicuo risarcimento per svariati milioni di euro per i danni subiti, a loro dire, dallo stato italiano. Avrebbero fatto bene i due ridicoli e patetici rampolli discendenti di casa Savoia a rileggere la Storia di quei tempi e rivisitare i massacri le rapine, le spoliazioni e i saccheggi perpetrati indebitamente dai loro avi a danno delle popolazioni meridionali e per questo, esse e non i Savoia, legittimamente destinatarie di risarcimenti mai bastevoli a compensare gli incommensurabili e inestimabili danni subiti.
Ma torniamo al generale Ferdinando Lanza. Dopo avere consentito a Garibaldi di depredare,nelle more dell’armistizio del 30 maggio, il Banco di Sicilia in cui si presume abbia avuto la sua parte di “bottino”,giusto il tempo di consentire saccheggio, firmerà appena sette giorni dopo (il 6 giugno) una disonorevole e umiliante capitolazione . Ben 30 mila borboni bene armati e in pieno assetto di combattimento( ai 24000 uomini accampati, che Lanza teneva inoperosi nel piano di palazzo reale, se ne erano nel frattempo aggiunti 6000 agli ordini di Bosco e Won Mekel rientrati a Palermo dopo il vano inseguimento alla colonna del garibaldino Orsini) si arrenderanno a poco più di 3000 tra picciotti e garibaldini male in arnese e scarsamente armati. Una incredibile e assurda capitolazione che non trova alcuna elementare spiegazione in nessun manuale di strategia militare, se non giustificata dalla corruzione e dal tradimento dei generali Landi a Calatafimi e Lanza a Palermo. Scrive, a proposito di questa inconcepibile resa, ancora Cesare Abba: “Gli abbiamo visti partire. Sfilarono dinanzi a noi alla marina per imbarcarsi, una colonna che non finiva mai,fanti,cavalli, carri. A noi pare un sogno, ma non a loro”.  Era un sogno. I garibaldini ancora una volta, come a Calatafimimi, non credevano ai propri occhi: avevano guadagnato una battaglia che, considerata l’enorme disparità in campo a loro sfavorevole mai pensavano di poter vincere. Un sogno per i garibaldini, un incubo per i soldati duosiciliani cui li aveva precipitati il tradimento e la corruzione dei propri generali.
Rientrato a Napoli, Ferdinando Lanza finirà davanti alla Corte Marziale per alto tradimento Non ci sarà il tempo di condannarlo per il precipitare degli eventi dovuti alla fuga da Napoli di Francesco II . Il generale Lanza potrà così godersi il frutto delle proprie malefatte. Della sua “intelligenza con il nemico” negli avvenimenti di Palermo del giugno del 60 ne è riprova quanto avvenne poco meno di tre mesi dopo a Napoli. Il 7 settembre Lanza si recherà a palazzo d’Angri a rendere omaggio a Garibaldi e a complimentarsi per le sue “ vittorie” e ricordargli che a queste vittorie lui aveva dato il suo determinante e peculiare contributo.
Altrettanto bene non finirà invece al generale Landi. Vi ricordate delle fede di credito di 14mila ducati quale prezzo della sua arrendevolezza a Calatafimi? Ebbene nel marzo del 1861 quando si presenterà presso la sede del banco di Napoli per esigere il prezzo del”malaffare”, dai funzionari del banco si sentirà dire che quella fede di credito era taroccata . Il suo valore non era di 14mila ducati ma bensì di 14 ducati a cui erano stati aggiunti truffaldinamente tre zeri. Ai dirigenti, che gli aprivano sconsolatamente le braccia, confesserà con rabbia di averla avuta personalmente da Garibaldi. Corrotto e truffato dunque , Landi, precedentemente degradato e posto in pensione, morirà per il dispiacere poco tempo dopo.
Saccheggi, spoliazioni,tradimenti corruzioni,truffe da Garibaldi ai Savoia questi gli ingredienti che caratterizzarono la conquista del Sud e portarono a una mal metabolizzata “Unità d’Italia”.

Oggi, a distanza di più di150 anni da quegli avvenimenti, nulla è cambiato. Con queste premesse del resto cos’altro potevano pretendere gli italiani e le popolazioni meridionali che di questa mala Unità ne pagarono e ne continuano a pagare le drammatiche e costose conseguenze.

ndr quello di cui ci ha parlato Ignazio Coppolo è stato il primo saccheggio. L’ultimo, quello definitivo, si consuma sul finire degli anni 90. Ve lo abbiamo raccontato qui. 

Fonte Link: inuovivespri.it

 

 

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