La figlia del Caucaso
Francesca Avanzini
Da tempo il regista e scrittore parmigiano Giancarlo Bocchi si occupa dei diritti degli ultimi, portando la sua macchina da presa nelle zone di conflitto, da quelli più caldi ai più dimenticati.
La sua ultima fatica, “La figlia del Caucaso”, è stato premiato quale miglior documentario al Los Angeles International Festival Indie Short 2019.
La figlia del Caucaso è Lidia Yusupova, madre circassa e padre ceceno, deportati da Stalin in Kazaksthan nel 1944 insieme a molti compatrioti, ai tempi delle prime guerre indipendentiste delle regioni caucasiche contro la Russia. Altre due ne seguirono, nel corso del Novecento, lasciando i paesi devastati e impoveriti.
Lidia Yusupova, viso di grande intensità che buca lo schermo non al modo delle massificate bellezze occidentali, è attivista per i diritti umani.
L’obiettivo la segue nei suoi pellegrinaggi a Mosca, in Inguscezia e altrove, per redazioni e associazioni per i diritti civili i cui uffici sono sempre gremiti, visto che nessuna delle repubbliche del Caucaso rispetta i diritti umani.
Ci si può schierare dove si vuole nei conflitti, dalla parte della Russia o dei popoli calpestati, si può pensare, come fa la Russia, che siano infiltrati di terroristi wahabiti. Ma una cosa è certa: nessuno può essere rapito, fatto sparire e ritrovato cadavere senza un giusto processo. Donne e uomini nel fiore degli anni, studenti universitari, intellettuali o semplici lavoratori, che avrebbero potuto contribuire al benessere del loro paese, finiscono torturati e se va bene, se non spariscono per sempre inghiottiti da un buco nero, ritrovati cadavere a bordo di una macchina o a lato di una strada.
La storia è la solita, uguale a troppe di altri paesi: un tiranno, un satrapo, un dittatore, lo si chiami come si vuole, con l’appoggio di una grande potenza, in questo caso la Russia di Putin, fa ciò che gli pare del suo paese, sequestrando le vite, la libertà e le ricchezze dei cittadini, facendo sporchi affari di petrolio o altre materie prime con la potenza che lo spalleggia.
Il documentario di Bocchi porta l’attenzione su questo “groviglio sanguinoso”, questa “democrazia insanguinata” delle repubbliche caucasiche, per usare le parole di Yusupova, e lo fa con grande purezza formale, immagini di trascinante forza espressiva, pulizia, eleganza e sobrietà, sia che ritragga la protagonista nella casa moscovita con i suoi gatti, nei viaggi in metropolitana, nel villaggio natale con le zie dal fazzoletto annodato in testa come le nostre contadine di un tempo, o a colloquio con le funzionarie e i giornalisti che si battono per la sua stessa causa.
Come valore aggiunto, si entra in contatto con posti lontani e sconosciuti dal fascino misterioso, che ci si augurerebbe di poter vedere da turisti, un giorno.
Ma la protagonista indiscussa rimane Yusupova, pedinata passo passo e inquadrata in primi piani luminosi che ne fanno emergere la forza e il coraggio.
La sua vita è a rischio, ma il senso di giustizia prevale su ogni altra considerazione personale.
Francesca Avanzini