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L’arte, la malattia e il cielo delle idee

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Certo è emozionante trovarsi al Rijksmuseum di Amsterdam di fronte alla «Ronde de Nuit» o all’Hermitage di San Pietroburgo dinnanzi al «Figliol prodigo» con luci così particolari e pensare a Rembrandt quasi cieco, affetto da cataratta, oppure trovarsi ad osservare le esplosioni straordinarie di colori delle tele di Van Gogh del periodo di Arles e Saint Remy e non pensare al travaglio e alle sofferenze della sua vita.

Alda Merini è «un poeta» che porta sulla propria pelle le stigmate di una malattia che le ha fatto conoscere i manicomi, le sofferenze e le insopportabili violenze – compreso l’elettroshock – delle istituzioni «d’aiuto» quando sono violente.

Alda Merini, si possono ipotizzare correlazioni fra arte e malattia? Ci sono dei percorsi reciproci che conducono dall’una e all’altra e soprattutto dalla malattia verso l’arte?

Credo che esistano possibilità che la malattia, in particolare quella psichica, possa creare condizioni di peculiare percezione della realtà. In fondo che cos’è la follia? È una costruzione della realtà come avrebbe dovuto essere e non è. Risponde forse anche a desideri di costrutti emozionali di realtà inesistenti ma percepibili soggettivamente. È un tentativo a volte di plasmare la realtà e il mondo come più piace. È riduttivo però nei confronti di chi ha talento riportare la dimensione di profondità artistica alla malattia. Van Gogh sarebbe stato Van Gogh anche se non fosse stato malato: è la malattia come esperienza di vita però che si traduce in vissuti nuovi. Anche se fa un effetto straordinario e anche piacere che la sua arte abbia cambiato la storia della pittura e anche dell’architettura: lui che era visto come l’ultimo degli ultimi alla sua epoca, come il Titano del Naviglio delle mie poesie, che nessuno voleva vedere.

La malattia non è perciò, sempre e comunque, un percorso obbligato attraverso cui arrivare ad esempio alla poesia?

No. Questo no. La malattia è come un periodo di transito, ma anche di blocco, a volte quasi di paralisi. Io ricordo l’esordio della mia depressione: avevo avuto la mia seconda bambina, un parto a domicilio. La bimba era nata all’improvviso, quasi precipitosamente. Ricordo di una violenta cefalea, insopportabile, incoercibile. Pregavo, ma intanto allattavo e contemporaneamente deperivo. Ho avuto un dimagramento importante. Di sicuro uno stato del genere non ti porta alla poesia, se non in una rielaborazione molto successiva. Credo poi che se fossi stata curata meglio da un punto di vista strettamente metabolico non mi sarei così ammalata.

C’è una corrente di pensiero fra alcuni medici che riconosce allo stato di malattia una condizione di capacità esplorativa di nuove modalità creative. Lei cosa ne pensa?

Dico che mi piacciono i medici che la pensano così, che li stimo, li apprezzo. Sono quelli che non ti mollano mai e ti curano e forse ti amano quando chiedi loro aiuto. E io so che cosa vuol dire chiedere aiuto, e se nessuno ti risponde perdi anche la speranza. Però vedere la malattia come strada per l’arte mi sembra una forzatura: chi ha talento ha talento. A me è capitato di fare la matta, ma dalla mia vita comunque sarebbe nata poesia.

La malattia è sofferenza sempre: a volte può perciò ridurre le capacità espressive, demolirle, annullarle. Ma non crede che possa in taluni casi anche potenziarle, amplificarle, e che la malattia possa aprire nuovi orizzonti artistici espressivi?

La malattia può porre in una situazione di «grazia» cosmica, quasi di comunione cosmica, di sintonia con l’universo: però nessuno la va a cercare per fare opere d’arte. Meglio essere felici. Le potrei fare l’esempio di Manganelli, che io ho frequentato come lei sa: era un comunissimo insegnante di inglese, di grandissima cultura, però lui è diventato un grande scrittore quando io l’ho lasciato. È il dolore che questo evento gli ha procurato che ha liberato straordinarie potenzialità che lui già possedeva. Era già un poeta, però lo ha manifestato dopo la sofferenza di avere troncato la nostra relazione. Ci sono senz’altro fatti compensativi nella storia di chi fa arte. Così come la mutilazione da manicomio. E qualche volta la malattia diventa un canto catartico e liberatorio di disperazione. Per fortuna ci sono i meccanismi compensativi: la natura risponde così ad apparenti deficit: c’è una restituzione in altri ambiti.

Allora poeti si nasce?

Io credo avesse ragione Platone quando diceva che si nasce col cielo delle idee. Le opere d’arte nascono in modo spesso insondabile, incomprensibile anche all’esecutore. Ho rivisto di recente la Pietà di Michelangelo e dentro di me ho sentito un’emozione che mi è venuto in mente di chiamare «trauma da bellezza». Si è mai innamorato perdutamente lei? Come ci si può chiedere che cos’è l’amore e come ci si innamora? Io non mi chiederei come nasce un’opera d’arte o una poesia. Cercare di trovare percorsi razionali nell’opera d’arte è come ricercare razionalità negli amori travolgenti: a volte siamo perfino, o più spesso, attratti da ciò che temiamo. Perché? È così che il cielo delle idee è il cielo che si vede al mattino, come i grandi amori che prima o poi ritornano. Io lascerei stare la scienza e ritornerei al miracolo. Le certezze e la ricerca ostinata di certezze, di comprensioni precise, porta alla disperazione; troppo pragmatismo fa male alla vita, la riduce, la svuota, le toglie poesia e alla fine la inaridisce.

A proposito, Salinger dopo «Il giovane Holden» non ha più scritto, ha rinunciato a comunicare. Che cosa gli è successo?

Forse gli è successo come a Greta Garbo: ha voluto smettere di essere la divina, per sua scelta. È un modo per dire: «Sto per conto mio e basta».

La malattia depressiva ha accomunato Sylvia Plath e Anne Sexton: amiche prima e poi unite dal destino tragico del suicidio. Che denominatore comune, se c’è, esiste secondo lei fra la loro amicizia, la loro poesia e il loro destino?

Erano donne disperate: e lo erano tanto più, nella società dell’epoca, perché erano straordinariamente intelligenti, perché desideravano la libertà dei sentimenti forti. Erano in qualche modo pericolose, perché non tradivano i sentimenti, ma erano capaci invece di tradimento verso un mondo assurdamente moralista, perbenista e per loro penalizzante. E si tenevano il pensiero come libero: ed è vero che il pensiero è un salto d’azione col minimo sforzo. E quindi la poesia è già realizzazione sostanziale di un desiderio preciso.

Alda Merini, qual è il significato del titolo della sua raccolta «La poesia luogo del nulla» (edito da Piero Marini, in Pretesti, collana curata da Anna Grazia D’Oria)?

Poesia luogo del nulla perché il nulla è il luogo della verginità intesa come astrazione: quindi la verginità al di fuori del concetto riduttivo del senso comune acquisito, ma come spazio di crescita di vegetazione, di fiori spontanei e di piante fantastiche.

L’arte si può manifestare nonostante la malattia, oppure attraverso la malattia, o anche con la malattia. Forse gioca il vissuto di ciascuno: lo stato patologico è in grado di aprire a nuove possibilità, a nuove percezioni della realtà, a nuove emozioni, a nuove sensibilità, a un rinnovamento di se stessi; ma può anche abbruttire.

Maurizio Vescovi

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