- Rubriche
- Fabio Torrembini
- Argomenti
- Opinioni Interviste Inchieste
- Dossier
- Parmamusica
- Domini
- parmamusica.eu
- Skenet
- skenet.it
La traviata a confronto 1992-2003: incontro con il regista Henning Brockhaus
intervista a cura di Michela Grassetti
L’incontro con Henning Brockhaus è previsto per le ore 19,00 del 25 agosto 2005, nella sua abitazione a Treia, un piccolo paese in provincia di Macerata, nelle Marche, dove vive da quattro anni.
Chi meglio, se non il regista, che in prima persona ha contribuito alla realizzazione de La Traviata del 1992, le due riprese del ‘95 e del ‘96 e successivamente del 2003, può introdurci il discorso sui motivi di certe scelte sia artistiche che tecniche e sulle soluzioni adottate per l’allestimento scenico?
Sono le 19,00, emozionata e con il fiato in gola suono il campanello; mi risponde una voce profonda, è lui, il quale m’invita a salire al terzo piano.
Con aria un po’ imbarazzata gli stringo la mano, mi presento e da subito mi rendo conto della sua gentilezza e disponibilità.
Ci sediamo nel suo ufficio, spiego come intendo sviluppare la mia tesi e mostro le domande che ho preparato per intervistarlo.
Brockhaus scorre velocemente con lo sguardo il foglio e con estrema naturalezza e familiarità, inizia l’intervista…
La storia di Traviata è ambientata intorno alla metà dell’ottocento. Perché nell’edizione del 1992 sono stati usati costumi del 1870 e nella rappresentazione del 2003 si sono utilizzati costumi persino della Belle ‘Epoque?
La storia è ambientata a fine secolo. Le immagini della pittura erotica del primo atto dopo che il sipario dipinto è stato tirato via ai lati, è un collage di varie pitture, all’incirca fine secolo. con addirittura alcune carte postali, sempre con motivi erotici. Tutto questo materiale da me portato da Parigi, dove vivevo all’epoca, a Praga, è preso da libri di pittura, stampe e carte postali, con il quale poi Svoboda ha realizzato il collage, però il materiale l’ho cercato io, l’ho trovato io, l’ho portato io a Praga.
C’era per esempio in centro una cartolina che ho trovato lungo la Senna, nelle bancarelle che affollano il lungo Senna, sulla quale c’è scritto: "La nouvelle arrivè", scritta per indicare la nuova arrivata nel bordello.
Questa è l’ambientazione del primo atto.
Nel ‘92, quando facevo con Svoboda l’allestimento, il mio desiderio era di fare dei costumi di quell’epoca lì, anzi costumi secondo la pittura di Boldini, costumi molto leggeri, la gente poco vestita o vestita molto leggermente, perché secondo me, al contrario di quello che dicono tanti, lì non si tratta di una cena a casa di una signora che non si sa neanche che lavoro fa, ma ci troviamo nel salotto della più bella prostituta di Parigi. Questa è la storia.
Purtroppo nella lirica c’è sempre la tendenza di coprire queste cose, all’epoca quando Verdi scrisse l’opera, aveva con la Strapponi una convivenza non coniugale, e c’erano a Busseto varie polemiche dei contadini che dicevano:"quella puttana lì", perché non erano sposati. Lui ha sofferto moltissimo di questo anche se tentava di stare sopra rispetto a questo atteggiamento offensivo ed ipocrita. Il fatto della puttana, gli è rimasto nella testa, quando ha visto a Parigi lo spettacolo di Dumas, nella sua unica rappresentazione teatrale, ha deciso di basare su questo testo il libretto della sua successiva opera, la Traviata. "La Dama delle Camelie" era una storia contemporanea; per noi, oggi, attualizzarla secondo il mio punto di vista non funziona, perché in un certo senso si deve rimanere coerenti con le cose che vengono raccontate. Approfondiremo il tema della contemporaneità una volta affrontato il problema dello specchio.
La tua domanda: "come mai i costumi dell’edizione del ‘92 erano ambientati nel 1870?", perché non mi hanno dato i soldi per farlo, e sono stato costretto a prenderli da Santicchi, che aveva fatto una Traviata convenzionale, normalissima, lo dico senza valutazione, non faccio giudizi sugli altri, ma ho dovuto prendere i costumi da un’edizione molto pomposa, anche bella in un certo senso, molto raffinata, del 1870. Poi ogni anno ho dovuto prenderne un’altra, la prima ripresa, la seconda ripresa, ho sempre pregato la direzione dello Sferisterio di fare una vera e propria edizione, coerente con la pittura che vediamo, non ci sono mai riuscito. Nell’ultima edizione che tu dici:"come mai Belle Époque?", in quel caso ho tentato di recuperare il discorso sui costumi vicini a Boldini, anche se non era Boldini, però diciamo più a quel gusto un po’ trasgressivo delle signorine che partecipano alla festa,che si avvicina ad una vera e propria orgia. Questa è purtroppo la storia, malgrado La Traviata sia andata in Giappone, a Roma, a Parma, a Cagliari, e lo scorso Ottobre 2005 a Baltimora, non sono mai riuscito a fare veramente costumi autentici, come li volevo io. Nell’edizione di Parma ho messo le figuranti come volevo, in negligé e mutandoni, ed erano praticamente vestite come alcune figure di quella pittura erotica, quasi nude, o diciamo abbastanza osé. Questo è il discorso dei costumi, purtroppo, ogni tanto, le cose nascono così, mi pento ancora oggi che non ho potuto fare come volevo.
Per l’allestimento di Traviata, l’unico elemento scenografico è un enorme specchio. Che cosa rappresenta lo specchio e che interpretazione consente di dare all’opera?
Prima di tutto non si può dire che lo specchio è l’unico elemento scenografico; è vero che la cosa costruita, quello che si muove è lo specchio, però elemento scenografico sono anche tutti i tappeti dipinti. Il primo tappeto è il sipario teatrale, che viene tirato via dopo l’introduzione, e scopre il secondo, posto sotto, che è il collage della pittura erotica.
Il secondo atto comincia con la casa fuori Parigi, che poi viene risucchiata via, e mostra un campo di margherite, poi, a sua volta, anche questo tappeto viene tirato via verso il fondo, e rivela un collage di immagini di famiglia, album di fotografie di famiglia che ho preso da un libro che si chiama: "La vie dans la Provence" , preso in prestito all’"Institute Français" di Milano.
Dopo un intervallo di 5 minuti, viene il finale del secondo atto, che ha come soggetto i lampadari del casinò di Montecarlo, preso anche questo da un libro fotografico, anch’esso preso in prestito dall’"Institute Français" di Milano. Questo è il discorso pittorico dell’allestimento della Traviata.
L’ultimo atto non ha più immagini, i tappeti sono arrotolati, il pavimento è nudo, crudo, perché intanto lei è stata pignorata e metaforicamente questo vuol dire che il discorso delle illusioni è finito.
Quindi lei deve fare i conti con la vita e sparisce l’immagine pittorica riflessa, quindi il sogno. Lei, moribonda e completamente disillusa, resta sola in questa solitudine.
Torniamo all’inizio, quando lo spettatore viene dentro nell’Arena, non vede niente, vede lo spazio vuoto, era anche svuotato sui lati a destra e a sinistra, questa era un’esigenza proposta ovviamente da Svoboda, di avere questo spazio libero, senza queste quinte che ci sono adesso, non c’era niente.
Lo specchio era appoggiato per terra, poi sull’iniziare dello spettacolo, c’era un buio completo, e nel silenzio totale, prima che cominci l’adagio della musica, lo specchio si alzava lentamente e si bagna di luce, mostrando nel suo percorso di salita, accompagnato dall’adagio dell’introduzione, man mano un sipario teatrale che sembra nascere dal nulla. Il senso simbolico di questo inizio richiama l’idea di un libro che viene aperto, una storia che viene rivista, una memoria che si apre, una tomba che si riapre.
Questa idea dello specchio è tutta di Svoboda. E’ un’idea nata dopo che abbiamo parlato a lungo su questa cosa, io l’ho pregato, anzi io gli ho detto: "non voglio fare la Traviata in chiave illusionistica, non m’interessa tanto la trama, perché la trama il pubblico la conosce a memoria; far finta che nessuno conosce la trama è assurdo, perché la Traviata tutto il mondo la fischia e la sanno a memoria".
Quello che m’interessava della Traviata erano gli atteggiamenti, il perché ci si comporta così e non diversamente. Per fare questo, per concentrarsi sull’atteggiamento e le ragioni sociali ed ideologiche, c’è una tecnica teatrale che si chiama teatro epico, la quale non è un’invenzione di Bertolt Brecht, però è lui che l’ha portata più avanti. L’hanno fatto anche altri ovviamente, però io mi sono avvicinato alla Traviata con questi mezzi diciamo del teatro epico brechtiano; si dimostra davanti al pubblico la storia, quindi questo aprire il libro è come dire: la storia la conosciamo già, la rileggiamo, la rivediamo e vediamo cosa succede.
Inoltre, anche se nel video non si nota, a destra e a sinistra dello specchio, appoggiati a terra, c’erano tutti i mobili dello spettacolo, con qualche mobile in più: due divani, dei grandi cuscini, una ventina di sedie, tre pouf, due tavoli, la scrivania di vimini con due poltroncine per il secondo atto, il letto del terzo atto con tre lampadari e tre tappeti arrotolati, ed il mobiletto per il trucco, con scatole per cappelli e parrucche tutta l’attrezzeria, quindi, necessaria per lo spettacolo, come in un magazzino. Questa mia idea di mettere questi elementi ai lati dello specchio, mi è venuta dopo la lettura del romanzo di Dumas, che ho seguito moltissimo per la messa in scena.
Il romanzo comincia con il racconto del protagonista, che in realtà è Dumas figlio, che ha avuto questa storia con Marie Duplessis, una ragazzina diciassettenne andata a Parigi a fare la vita, tra l’altro bravissima pianista.
In questo romanzo ad un certo punto, lui che era fuggito in Africa (fatto realmente accaduto a Dumas figlio), non potendo più gestire questa storia con una ragazza che faceva la vita, aveva due possibilità: o diventare macrò o scappare.
C’è una lettera famosissima che Dumas figlio ha scritto a questa Mariè Duplessis che dice: "Non sono abbastanza ricco per amarvi come vorrei, né sono abbastanza povero per essere amato come vorreste voi". Quindi non avendo i soldi per mantenerla, ad un certo punto lei è costretta a tornare a battere, a quel punto lui cosa fa, scappa.
Il protagonista fugge così in Africa. In questa seconda parte del romanzo, lei, ignara della sua fuga, continua a scrivergli delle lettere strazianti, alle quali non riceve mai risposta. Dopo aver saputo della morte di lei, il protagonista torna a Parigi. Per prima cosa si reca al cimitero a vistare la tomba di lei e corrompe il guardiano del cimitero, affinché riesumi il suo cadavere per poterla rivedere perché non crede possibile che sia morta. Quando, infine, la vede, sviene. In seguito fa seppellire il suo corpo nel cimitero di Père Lachaîse, il quale si trova al centro di Parigi, sopra Pigalle, e nel quale sono seppelliti tutti i personaggi parigini più famosi.
Tutta questa storia è davvero successa nella realtà
Cosa pazzesca tutta questa storia. Poi va sotto casa sua e vede che c’è mezza Parigi, soprattutto le donne borghesi, che vanno lì a spiare ed a fare i voyeurs in casa sua, che frugano nei cassettoni per vedere le mutandine e tutte le cose che fanno parte del luogo del crimine, e dove tutti i mariti di queste signore hanno loro messo le corna. In quest’asta vengono vendute tutte le cose rimaste di Mariè Duplessis e lui compra da un cliente una lettera rivolta a lui, da uno che l’aveva già comprata, pagandola il doppio.
Questa scena dell’asta, che secondo me è importantissima l’ho messa in scena all’inizio quando lo specchio si alza ed è arrivato a 45/50° gradi, la posizione nella quale la riflessione diventa verticale, entrano da dietro lo specchio molto lentamente, sulla destra e sulla sinistra, i figuranti ed una parte del coro, che vanno verso questi mobili ed oggetti preziosi per spiare, sedersi, alzare cuscini, tirando fuori indumenti intimi e raffinati, arrivando persino una coppia ad abbracciarsi sul letto.
Questa piccola contro scena che accade mentre Alfredo attraversa molto lentamente in diagonale il sipario, leggendo le lettere di Mariè Duplessis rivolte a lui, ha una certa volgarità, la volgarità di frugare nell’intimo di una che è morta e che tutta Parigi ha guardato con gli occhi da voyeurs. Questa tema del voyeurismo è una sensazione che il pubblico deve percepire consciamente od inconsciamente per tutto lo spettacolo, affinché lo spettatore stesso abbia una visione del tutto inusuale: vede la scena orizzontalmente ma vede anche la riflessione verticale nella quale tutto l’accaduto è visto da sopra, zenithalmente, questa visione è del tutto strana, sembra che lo spettatore abbia delle informazioni in più, quasi non lecite. Addirittura alla fine dell’opera, lo specchio si alza ulteriormente, fino a 90° rispetto al palcoscenico, in maniera che tutta la platea ed palchi del teatro vengono riflessi dentro la storia che sta per terminare; questo accade quando comincia la morte definitiva di Violetta, sulla musica funebre nel momento in cui lei gli dona l’amuleto con la sua effigie. Questo intervento mio, che ha una certa brutalità, lo ammetto, ostacola il "bel godimento" della morte di Violetta da parte del pubblico, in un certo senso li frego, non gli faccio godere pienamente questa emozione. Lo faccio perché voglio rendere evidente questo atteggiamento voyeuristico che abbiamo rispetto a queste figure deboli, perse nella vita però per colpa di una morale molto ambivalente, e Violetta è vittima di questa ipocrisia borghese. Ad alcune persone del pubblico questa cosa non è piaciuta, alcuni sono anche venuti a lamentarsi perché non potevano riversare le lacrime come erano abituati. In un certo senso Violetta non muore neanche realmente, quando il riflesso del pubblico è del tutto leggibile nello specchio, e si mescola con il riflesso del palcoscenico (tutte questo accade nel momento in cui Violetta si alza quasi in estasi, con una forza strana, come se si riprendesse del tutto e corre avanti verso il pubblico con le braccia aperte come se volesse gridare aiuto; "Fatela finita con queste storie"), prima di cadere a terra quasi astrattamente.
Questa morte di Violetta non è realistica e se vuoi tutto questo accade in un contesto di un effetto di straniamento, che non vuol dire nient’altro che rendere più grande una cosa, talmente grande che la capisci meglio, arrivando a chiarire anche il contesto morale ed ideologico, in questo caso, come già detto sopra, l’atteggiamento ipocrita e moralistico dello spettatore borghese. Un altro evidente effetto di straniamento è all’inizio dell’opera, il quale abbiamo già in parte descritto precedentemente, tuttavia non abbiamo preso in considerazione che quando Alfredo è passato sul sipario leggendo le lettere di Violetta entra la stessa Violetta accompagnata dal Barone Douphol, in questo momento, nel quale s’incontrano Alfredo e questa coppia, si scontrano anche due situazioni emotive del tutto diverse: Alfredo rinchiuso nella sua memoria del passato quasi melanconico arrivato alla fine della storia, ed invece l’allegra coppia del Barone Duophol e Violetta che ricominciano la storia; in questo modo si sovrappongono tre tempi drammatici diversi:; il tempo di Alfredo e della sua memoria del passato, il passato che entra nei personaggi di Duophol e Violetta che ricominciano la storia, e terzo la controscena dei figuranti e del coro che si trovano all’asta dopo la morte di Violetta. Tutto questo è possibile soltanto in un contesto simbolico che è vicino alla logica dei nostri sogni, in un discorso realistico ed illusionistico non si potrebbe mai raccontare una tale complessità di cose. Poi accade una cosa che di solito non viene mai raccontata che è il fatto che prima che il sipario viene strappato via a destra ed a sinistra il Barone Duophol, nel silenzio della pausa musicale, lancia in aria un malloppo enorme di soldi, altro effetto di straniamento:questa festa è una festa dove i clienti pagano, dove il godimento è pagato, anche se in seguito in forme diverse e più raffinate: collane,bijoux preziosi ed altri regalini, tutta la ricchezza della Violetta sono regali dei clienti. Credo con questo palese gesto, all’inizio della storia, di chiarire questo contesto.
Questo Douphol, era un miliardario londinese di 75 anni, storia vera autentica, che ha visto un giorno Mariè Duplessis, che aveva 18 anni ed in lei ha rivisto sua figlia morta. Folgorato da questa somiglianza quasi questa ne fosse una gemella, le ha chiesto di vivere con lui, dicendole: "Io non voglio niente da te, non devi fare niente, qualsiasi somma di soldi che tu mi chiedi io te la darò". Lei così è andata a Londra a vivere con questo povero padre che si è comprato questa giovane prostituta per vedere ogni giorno sua figlia morta. Siamo nella follia totale. Mariè Duplessis dopo tre mesi, stufa e stanca di questa folle situazione, e dopo aver guadagnato parecchio denaro, è tornata a Parigi per riprendere a far la vita.
Quando si è trovata di nuovo in difficoltà, dopo l’estate passata con Alfredo in campagna, senza più denaro, torna a vivere con lui, nell’opera si chiama Barone Douphol.
Tra l’altro, l’antefatto di questa festa offerta da Duophol per il ritorno di Violetta a Parigi è il seguente: Mariè Duplessis a diciotto è stata colta da uno strano morbo, la tisi, ha dovuto interrompere la sua vita sfrenata parigina, si è recata a Baden-Baden in Germania per curarsi alcuni mesi per ritornare in salute. In questo periodo, tra l’altro ha fatto conoscenza ed amicizia con Franz Liszt. Spende tutti i suoi soldi a Baden-Baden e torna a Parigi sana ma senza più un soldo, riprendendo i contatti con il ricchissimo Barone Duophol.
Lui offre questi soldi nel momento che è finito questo: um ta ta, um ta ta, ti ra ra ri …, praticamente nel silenzio prima dello strappo del sipario e dello strappo musicale dell’allegro brillantissimo e molto vivace.
Questo che segue è un altro effetto di straniamento perché davanti al pubblico si dimostra apertamente come si svolge la storia, questo è tipicamente del teatro brechtiano, almeno per come lo vedo io. In un teatro illusionistico non si fanno queste cose, c’è un sipario che si apre il sipario e dietro il sipario tutti fanno finta che non c’è lo spettatore, il famoso spettatore che spia attraverso la serratura della porta, questo è il teatro illusionistico. Tutti fanno finta di essere testimoni e in palcoscenico fanno finta che il pubblico non c’è. Ho rotto completamente questa convenzione, con questi mezzi, quindi si vede su questo allegro che segue come i figuranti e coristi prendono i mobili e li portano in scena correndo, ognuno prende quello che gli serve per fare il primo atto. Corrono dentro con il divano, corrono dentro con i pouf, corrono dentro con i cuscini. Tutti questi sono mezzi non propriamente della lirica, almeno come intesa in Italia, dove si continua con una mentalità molto tradizionale.
La scenografia "doppia" indubbiamente "amplifica" il significato dell’opera. Quale rapporto è possibile individuare tra scena e drammaturgia musicale? E tra scena e regia?
Questa domanda è giustissima ed intelligente…, come ti ho già spiegato precedentemente abbiamo voluto portare nella storia un doppio punto di vista che fa sì di vedere la storia con occhi più freschi. La riflessione allunga per così dire il punto di vista dello spettatore; è un punto di vista completamente distorto della storia ma voluto. Devo dire che l’idea di Svoboda dello specchio è una risposta geniale, e come ti ho già detto prima, c’erano tanti incontri preliminari. Io ho avuto la fortuna enorme che all’epoca ero assistente di Strehler e Svoboda faceva il Faust con Strehler e c’erano tantissimi tempi vuoti.
Siccome nessuno sapeva il tedesco, seconda lingua di Svoboda, io ero sempre con lui e gli facevo da coach. Abbiamo fatto amicizia ed ero sempre con lui, dalla mattina alla sera. Abbiamo parlato di tanti spettacoli, e prima della Traviata ho fatto con lui "La Missione" di Heiner Müller, cooperazione tra il teatro di Haifa ed il Piccolo Teatro di Milano che purtroppo all’ultimo momento è saltato per ragioni politiche in Israele. Da questo progetto, però, in seguito, è nato l’allestimento per il Macbeth; poi con Svoboda ho fatto al Piccolo Teatro "La Donna del Mare" di Ibsen, prima a Milano poi al Teatro dell’Argentina di Roma ed in seguito per alcune recite a Macerata nel 1991. Successivamente è ventuta la richiesta dello Sferisterio di Macerata di fare "La Traviata" con Svoboda.
Quindi era un privilegio stare sempre con lui. Mi ha spiegato anche, ovviamente, tutta la sua filosofia e le scenografie che ha fatto, erano mesi che eravamo insieme, quindi queste discussioni e riflessioni sulla Traviata le abbiamo fatte con un ampiezza che di solito non ti è concessa, un’occasione così non si pone.. incontri uno scenografo, un giorno, due giorni, si discute, poi lo rivedi un’altra volta, di solito è così.
Invece qua, per settimane, anzi mesi abbiamo sempre parlato della Traviata.
Devo dire che mettere il sipario…lo puoi scrivere nella tesi… è un’idea né mia né di Svoboda, ma è un suggerimento di Giorgio Strehler. Tutto questo accadde quando eravamo a Parigi e viaggiavamo insieme nel taxi per andare all’inaugurazione della mostra di Svoboda al Centre Pompidou e abbiamo raccontato a Strehler il nostro allestimento di Traviata. E poi lui che apprezzava moltissimo l’idea ha detto: "Ma scusate, se avete tutti questi tappeti, perché, all’inizio, non mettete per terra anche un sipario teatrale?"
Idea geniale, e l’abbiamo colta al volo…
Quindi tutta questa Traviata è nata su un humus molto fertile, non è un idea fatta in cinque minuti, cosa che si vede anche, credo.
Quali emozioni e intime suggestioni sono suscitate dallo specchio nello spettatore?
Difficile da rispondere, perché lo spettatore non vede l’opera in forma normale, ma la vede sdoppiata e vede dietro, nel riflesso, delle costellazioni stranissime, per esempio una ragazza si sdraia per terra, però nello specchio si vede che si sdraia sopra un’altra donna nuda dipinta e diventa quasi pittura con lei.
Questa mescolanza tra pittura e realtà o verità, suscita parecchie associazioni, quindi questo doppio punto di vista e la strana dimensione della riflessione dà molte possibilità allo spettatore di creare associazioni e suggestioni.
Svoboda aveva un’espressione che fa parte della sua teoria se vogliamo che è "lo spazio psico-fisico", sembra strana questa espressione in italiano, psico-fisico. Ma psico-fisico vuol dire che lo spazio deve avere la qualità per suggestioni intime e per suscitare emozioni, il Macbeth per esempio è uno degli allestimenti più suggestivi che ho avuto, che ho fatto con lui.
Deve poter entrare nella psiche dei personaggi. Per entrare nella psiche non deve essere realistico.
Poi Svoboda ha la qualità, come non ha nessun altro al mondo, anche se ho fatto dopo bellissimi spettacoli, ma nessuno della qualità con la quale ho fatto con Svoboda. Lui genialmente riusciva a seguire la musica, questo è un altro punto della sua teoria: La scenografia deve seguire la musica. Cosa vuol dire. Lui diceva semplicemente che la musica a volte suona forte o fortissimo, quindi io con la scenografia devo essere molto presente, la musica però conosce anche dei crescendi e decrescendi e la musica svanisce anche, quindi io con la mia scenografia devo svanire nel nulla, anzi devo poter fare una pausa ed è così, magari non nella Traviata così evidente come in altri spettacoli che ho fatto con lui, come nel Macbeth in realtà la scenografia può svanire completamente, fino a non vederla più, però può diventare una presenza angosciante.
E questa è una qualità incredibile, per questo tra musica, scenografia e regia c’e un’enorme coerenza come ho potuto farla rare volte, lo faccio anche oggi ovviamente, ma in maniera diversa.
Poi ho avuto con Svoboda dal primo giorno un feeling speciale, lui mi adorava moltissimo e soprattutto si sentiva stimolato da me. Non mi ha mai presentato un progetto scenografico prima di avermi sentito. Di solito mi chiedeva addirittura di scrivere uno storyboard, prima scena la vedo così, seconda così, terza così e così via…gliela mandavo via fax, lo leggeva, poi si parlava e si metteva a farsi un’idea.
Lui aveva la qualità particolare di metter a punto ogni cosa, non si perdeva in descrizioni scenografiche, lui cercava l’idea filosofica di un’opera e la focalizzava su di un punto, nel nostro caso della Traviata, sullo specchio, lo sdoppiamento di prospettiva ed il discorso pittorico.
In molti altri aspetti della scenografia ho contribuito io, per esempio le margherite è un idea che è venuta molto dopo, quando lavoravo sulla regia e perché volevo risolvere un fatto estremamente debole della trama.
Ad un certo punto Violetta cede alle richieste di Germont padre, il quale le racconta la storia di sua figlia che si vuole sposare, ma la famiglia dello sposo ha saputo che Alfredo, il fratello della sposa, sta con una ragazza che fa la vita a Parigi, e per mettere a tacere questo piccolo scandalo provinciale, Germont deve convincere Violetta a rinunciare ad Alfredo….
Ad un certo punto viene fuori con un argomento completamente cattolico:"Se tu rinunci ad Alfredo, Dio, in cambio, malgrado il fatto che sei una peccatrice, ti aprirà le porte del paradiso". E’ un punto debolissimo perché non è vero che lei ha rinunciato, la vera Mariè Duplessis non ha rinunciato ad Alfredo, Alfredo l’ha lasciata e l’ha lasciata morire da sola, quindi questa è una cosa che ha messo dentro Piave e Verdi e si sente che c’è una cosa storta però la devi raccontare.
Allora mi è venuto in mente che Germont, quasi come Mefistofele, seduce Violetta, riconoscendo in lei questo complesso morale che ha ed approfittando della sua debolezza, la porta, per così dire, su questo trip mistico, lei, quasi moribonda, e già guardando in faccia la morte, si fa tirare via da Germont la realtà sulla quale lei vive con Alfredo (tappeto dipinto della casa in campagna) e mentre svanisce questo tappeto, che striscia verso il fondo, si scopre sotto di lei, questo paradiso della natura, queste margherite, questa purezza della Madonna e questa speranza ideologica della redenzione.
Questo è un elemento che ho portato dentro dopo e ha funzionato benissimo; un elemento simbolico e se vuoi anche psicoanalitico: lei nella sua angoscia, nella sua paura, sfruttando la sua debolezza, le viene offerta questa strada di fuga, al prezzo del tradimento dell’amore. Tutto ciò accade in un contesto tipico dell’ipocrisia dei maschi. Alla fine però Germont si pente di questo suo escamotage.
Tu sai perchè si chiama "Dama delle Camelie"? Si chiama "Dama delle Camelie" perché questa Mariè Duplessis che era una gran furbacchiona e molto intelligente, anche per quello era la più desiderata, oltre alla bellezza era di una strana grande cultura ed era una bravissima pianista. Lei andava sempre nei teatri a Parigi e ovviamente in cerca di clienti ricchissimi e per segnalare al cliente che era disponibile portava una camelia bianca nei cinque giorni che aveva le sue cose portava una camelia rossa., una cosa semplicissima però molto da furbacchiona.
Per quello lei aveva il soprannome la dama delle camelie, non è una cosa romantica come ti fanno credere, sono queste stupidità che si creano con gli anni.
Anche nel primo atto, se tu vedi una Traviata normale, c’è un grande tavolo e c’è una cena e nessuno capisce cosa succede lì veramente. C’è una tisica che si chiama Violetta, ma quello che fa lei nella vita nessuno lo capisce…
C’è un rapporto psicoanalitico anche tra lo specchio e la protagonista dell’opera?
Già il fatto della doppia visione, la rottura della percezione solita ha anche un aspetto psicoanalitico nel senso che la storia viene frantumata e che la felicità che si crea tra Violetta ed Alfredo è una felicità finta, artificiale e che i sentimenti puri non esistono. Psicoanalitico è anche il fatto dell’apertura dello specchio. Lo spettacolo acquisisce una dimensione trasognata. Inoltre ci sono anche situazioni dove lo specchio funziona come uno specchio, poche volte però. Ad esempio, verso la fine del primo atto, quando tutti vanno via , lei rimane da sola, si gira e va verso lo specchio. Si guarda, ha orrore di se stessa, perché questa professione le fa anche schifo, e vede nello specchio il vuoto di questo mondo mondano, poi torna su una delle sedie e comincia a togliersi gli orecchini, la catena, i guanti, credo anche le scarpe…tira via tutto quello che aveva messo per far la prostituta, per dirlo con parole povere.
Poi c’è un altro momento, nel terzo atto: lei guardando nello specchio, sente la voce di Alfredo che canta fuori scena. Questa voce di Alfredo è lontana e quasi come un’eco di un suo desiderio, della sua memoria di questo amore perduto e tradito. Dato che lo specchio è così enorme e i personaggi così piccoli davanti, non l’ho mai utilizzato come un vero specchio, tranne in questi due momenti.
Mettendo a confronto "La Traviata" del 1992 e quella del 2003, quali differenze è possibile individuare tra i due allestimenti?
Sì, ci sono differenze, grandi differenze, è molto più elaborata la presenza dei figuranti, è molto più elaborato il coro, per tanti motivi. Un motivo oggettivo era che il coro all’epoca non era buono come il coro di oggi, c’erano molti anziani che non si muovevano e quindi erano lì fissi, non si potevano sdraiare. Poi il coro è cambiato è diventato un coro eccezionale, molto disponibile, anche scenicamente e ho potuto fare con gli anni sempre di più.
Secondo, io ho fatto anche le mie esperienze sono cresciuto anch’io un pò e alcune cose le ho viste diversamente, anche se devo dire che nel ‘92 quella che faceva la Traviata, la Giusy Devinu era eccezionale.
Un regista nella lirica è abbastanza condizionato da chi si trova davanti; se un cantante lirico ha una certa età o una certa mentalità pur avendo una bellissima voce, difficilmente si riesce a dirigerlo come si vorrebbe oppure può avere il physique du role. Nel caso della Violetta, si pone il problema serio dell’età della protagonista. Violetta è quasi una bambina, una specie di Lolita e quindi nasce il problema della verità del personaggio e si possono falsificare tutti i rapporti. Un soprano di età avanzata e dal fisico sviluppato, non è più nella parte. Tra l’altro questi sono problemi che hanno portato alla falsificazione della Traviata, non a caso è più semplice inserire un soprano maturo in un contesto di una cena tipicamente borghese. Purtroppo la scelta del cantante nella lirica non viene fatta dal regista, tranne in alcune eccezioni.
Ho avuto la fortuna di potermi scegliere i cantanti, come per esempio lo scorso anno a Jesi nella "Serva Padrona", per la quale ho trovato una ragazza di diciotto, che ne dimostrava sedici, con una voce eccezionale e che aveva il physique du role perfetto. In effetti, la serva è una lolita del settecento, se non è così, non funziona la storia. Ho rifiutato addirittura, per questo motivo, a delle regie.
Se dovesse ancora occuparsi della regia di "Traviata", apporterebbe ulteriori cambiamenti?
Non so, è possibile,che cambierò delle cose…principalmente la lascio così com’è, ci sono cose da migliorare in alcune scene… Ci sono sempre cose in progress, ogni volta si vede la storia diversa, non è mai la stessa storia.
Che utilizzo si è fatto delle luci in presenza di effetti visivi del tutto particolari ed innovativi quali quelli prodotti dallo specchio?
La logica delle illuminazioni è un po’ dettata dallo specchio, lo specchio riflette di più dove c’è luce. La luce, doveva per forza battere per terra. Si poteva illuminare tutto di lato, come nel balletto, dove si mettono proiettori molto bassi, dove non tocchi mai il pavimento sopra 10 cm e illumini soltanto il ballerino. Se avessi fatto questo, non avresti visto niente, perché oltre ad illuminare i personaggi, lo specchio non avrebbe riflesso i tappeti.
Anche sulla scelta dei colori ero limitato per il motivo della pittura e dei suoi colori. Colori troppo forti, come rosso, blu, giallo e verde avrebbero falsificato completamente tutti i colori della pittura dei tappeti, quindi le tonalità delle luci sono dal caldo ambra fino al freddo, ma mai blu pieno, colori freddi come i filtri 201, 202, come li chiamano gli elettricisti.
Com’è stata la sua esperienza di regista di "Traviata" ed il suo approccio alla rappresentazione del 1992 lavorando in collaborazione con Josef Svoboda?
Ci sarebbe da raccontare una lunga storia, non so se te la devo raccontare, quello che riguarda la presenza di Svoboda…
Quando è venuto nel ‘92 a Macerata, hanno puntato totalmente ed unicamente sul suo nome, non si parlava che di Josef Svoboda..
Non voglio togliere niente a Josef Svoboda, al contrario, ma la mia presenza non si riportava neanche sugli articoli della stampa.
Se tu prendi gli articoli del Corriere Adriatico e del Resto del Carlino, tu non vedi mai scritto Henning Brockhaus, io lì non esistevo…Siccome era il mio debutto in Italia, la prima regia lirica, io non facevo cartellone e si vantavano con il nome mondialmente conosciuto di Josef Svoboda. Poi con gli anni hanno capito e i grandi giornali, Corriere della Sera e Repubblica l’hanno anche scritto, che c’era anche un regista, come ha scritto Angelo Foletto nel sua recensione su Repubblica nel 2003.
E questa cosa mi ha fatto impazzire, ma è così, erano di mentalità provinciale…
Questo non riguarda Svoboda, questo riguarda l’atteggiamento della direzione all’epoca del festival…
Con Svoboda ho sempre avuto un rapporto molto amichevole, praticamente vivevo a casa sua come suo figlio.
Con Gustav Kuhn, c’è da raccontare una storia strana.
Lui aveva annunciato questa Traviata come la prima edizione critica della Traviata in Italia. Annunciato da lui stesso alla conferenza stampa nel ‘92 a Roma.
Ed io, con i cantanti, ho fatto tutte le riprese integralmente. Nella prova ante-generale, quando arrivò Renato Bruson, con il quale poi ho avuto un diverbio, Kuhn interrompendo la prova, e girandosi verso la platea dov’era seduto Renato Bruson, che commentava brontolando quello che vedeva dicendo:" questo non è Verdi!", gli chiese:"Renato, tu la fai la ripresa dell’aria?", e Bruson rispose: "No, una volta soltanto". Ed in seguito, tutte le ripetizioni delle arie, ed anche i tagli tradizionali, rientrarono in maniera che da un giorno all’altro, dovevo trovare soluzioni registiche per ovviare all’accorciamento dei tempi musicali. Questa è stata la famosa edizione critica della Traviata di Gustav Kuhn, identica uguale a tutte le versioni di tradizione in tutti i teatri italiani.
Quali risultati ed innovazioni sono scaturiti dalla vostra "fusione" artistica, fra Lei e Svoboda?
Tante,…abbiamo fatto molte cose, sedici spettacoli… Opere come il "Macbeth", "Ballo in maschera", "I sette peccati capitali", sicuramente sono state delle innovazioni…
Strehler una volta mi ha fatto un complimento, mi ha detto: "io non capisco come lo fai, ma tu sei l’unico che tira fuori da quello lì le cose più belle che ha mai fatto…", adesso non mi voglio elogiare, però se tu prendi il suo catalogo pubblicato per la sua mostra al Centre Pompidou di Parigi, le cose più belle le ha fatte con me e non è un caso. Abbiamo fatto un sacco di cose…purtroppo se n’è andato.
Per la regia di "Traviata"del 2003, l’esperienza artistica del ‘92 è stata un’eredità di cui servirsi liberamente e serenamente o piuttosto un modello condizionante e difficilmente riproducibile?
L’esperienza artistica del ‘92 è per me una grande eredità, come tutta l’esperienza con Svoboda, ed in questi anni di lavoro con lui. Ho imparato moltissimo, come avvicinarsi ad una cosa, come chiarire un’idea su un’opera. Ho imparato da Svoboda ma anche da Strehler, i miei maestri. Ho avuto la fortuna di essere stato allievo di questi due mostri sacri, il regista più bravo dell’epoca e lo scenografo più bravo al mondo.
Nell’esperienza del 2003 è stato possibile rivivere la stessa "intesa" artistica del 1992 pur collaborando con nuove figure?
Non c’è stata la stessa intesa. Nel ‘92 c’è stato il mio debutto, la mia prima opera lirica in Italia, e ovviamente c’era l’emozione della prima volta, poi ho avuto un cast di giovani cantanti favolosi e molto disponibili, eravamo un gruppo.
Giusy Devinu, Marcello Giordani, Roberto Servile, Bernadette Lucarini erano un cast eccezionale, tutti i piccoli ruoli era gente favolosa, era un gruppo eccezionale tutti erano convinti di questo progetto e questo si sentiva, è sempre così, quando c’è un gruppo che sostiene veramente una produzione arrivano delle onde in più.
Poi era una scommessa, perché a Macerata si "ricominciava", Claudio Orazi, che devo anche ringraziare, che ha avuto il coraggio di rischiare con me, e per lui era un rischio, in Italia nessuno mi conosceva, lui aveva visto delle cose mie in prosa poi sapeva che lavoravo con Svoboda e quindi si ricominciava dopo un periodo abbastanza infelice, fino a quel momento lo Sferisterio era un luogo dove si riciclavano allestimenti vecchi di altri spettacoli.
Che ricordo conserva di Svoboda come artista e come uomo?
Come artista e uomo era un grande amico,…aveva una qualità eccezionale di non invecchiare, malgrado i 72 o 73 anni l’ultima volta che ho lavorato con lui, aveva la mentalità di un ragazzino e affrontava ogni volta con freschezza incredibile una cosa nuova, non era uno che frugava in quello che aveva già fatto, ogni volta cercava una soluzione nuova e si comportava come un ragazzo, rideva come un ragazzo, aveva questo humour da schweyck, questo umorismo misto a furbizia tipico dei ceki.
Lui era così, faceva tutto con piacere, e quando vedeva che una cosa era riuscita, rideva e si divertiva, come un ragazzino. E poi era una persona totalmente pulita, come ho visto rare volte in vita mia, pulita in ogni senso.
Svoboda oltre ad essere scenografo è stato mai costumista o autore?
Svoboda non faceva costumi, non so se li ha fatti in alcuni casi, di solito ha avuto sempre costumisti suoi di Praga. Per quanto riguarda la Traviata, non c’è stata la collaborazione tra costumista e scenografo, poiché abbiamo preso i costumi a noleggio. Lui non ha mai fatto una regia, ha fatto le regie per i suoi spettacoli della "Lanterna Magika", però prendeva sempre un coreografo. Non faceva proprio il regista, lui aveva un concetto registico su come fare la cosa e poi si prendeva un coreografo ed era tutta opera di balletto non opera lirica. Ovviamente faceva la regia di tutto ciò che era visivo: luci, proiezioni, filmati ed animazioni.
Secondo lei attualmente esiste un erede artistico di Josef Svoboda?
Non te lo posso dire. Eredi di queste persone non ci sono…Neanche Strehler come Svoboda ha un erede, c’è altra gente, ugualmente brava forse, ma è difficile parlare di eredità.
http://www.henningbrockhaus.it/opere/2008/06/18/la-traviata/