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QUALCHE MODESTA OSSERVAZIONE E PROPOSTA

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Mi chiamo Enzo Vanarelli e sono parmigiano da poco più di tre anni.. Venendo qui ho portato con me dal mio Abruzzo natio i polloni del mio sapere e saper fare culturale e artistico, con l’intento di metterli a dimora nel nuovo ambiente. Ho passato quasi un anno cercando invano di capirne le strane dinamiche prima di avventurarmici. Poi un periodo presso la cattedra di Storia del Teatro dell’Università e l’inizio di un’attività associativa mi ha permesso di capirci qualcosa.

Dal mio esame emergono le riflessioni che sottopongo alla vostra attenzione come contributo al progetto mirabile a noi esposto ieri nelle linee di massima dall’Assessore Sommi, cui va tutta la mia stima per esser dei pochi che s’è conquistato i galloni sul campo. Staccandomi dal costume, non vengo quindi a lodare Cesare, l’Associazione che ho il privilegio di dirigere, ma a seppellire cadaveri ingombranti. Fino ieri non avrei giurato su queste riflessioni; ed ero incerto se porle; ma dopo ieri, dopo l’ingenua esplicita ripetuta ammissione dei maggiori interessati, non ho avuto più dubbi. Ve le sottopongo perciò con l’animo di chi porta sia pure un granello di senape all’ammasso. Io poco conosco le persone. Voi saprete meglio di me dare nome e cognome ai fenomeni che traccerò. Prego chi non ha la coda di paglia di non sentirsi offeso.

1)     Immobilità. La cultura parmigiana è costituita da una sistema di ipostasi concentriche non comunicanti, che amano autodefinirsi “Istituzioni“. Sono o sono state d’eccellenza, cinque anni o cinquanta o cinque secoli fa; hanno edificato sui propri meriti nel tempo nicchie protette, e da molto ormai non amano uscirne e porsi in discussione. Sovvenzionare questa stasi sottrae motivazioni ed energie alla ricerca, al nuovo? ciò non turba l’olimpica serenità di questi maggiori enti, in cui vige una spiccata

2)     Autoreferenzialità. Non mi consta che le Istituzioni gradiscano verifiche. C’è tutta una rete vischiosa di colleganze trasversali tra controllori e controllati. Dov’è una critica militante che impugni come il rasoio di Ockam l’autonomia culturale, l’attrezzatura metodologica e la ferocia etica di cui la Città ha bisogno per testare la ricaduta dei suoi interventi? Ciò è grave carenza per i soggetti stessi che, privi di sostanziosi confronti, sono indotti a un periglioso

3)     Autocompiacimento. Abbiamo stupito tutti ieri per quante energie profuse per spandersi incenso, ognuno alla propria effigie. Ma attenzione all’aberrazione prospettica che fa dire: la montagna sono io, ogni topolino da me partorito è magnifico. Così s’ammannisce alla pari al pubblico genio e ridicolo spalmati sulla stessa fetta d’orgoglio stracittadino. Con l’annessa

4)     Automusealizzazione, che invoca il diritto a ripetere istanze, tematiche e stilemi trapassati, che “alias et alibi” ebbero senso; non oggi. Il che dà

5)     Chiusura e provincialismo. Il pudore del confronto reale prima isola, poi ottunde, infine pretende che sia applicato accanimento terapeutico a realtà decotte. Si arriva a erigere a criterio di giudizio il preteso gradimento d’un pubblico pilotato dalla sottrazione d’ogni confronto! La truce conseguenza per l’Amministrazione è l’impotenza operativa figlia del

6)     Bilancio ingessato, le cui poste maggiori sono ripartite per tradizione che è blasfemo porre in dubbio tra i soggetti prefissati, senza corrispettivi stimati a priori come progettualità né misurati a posteriori come produttività in termini artistici, culturali e di ritorno generale per la comunità. Questa distorsione, oltre a schiacciare il paesaggio culturale in alto sull’assenza di stimoli e competitività tra i garantiti e in basso sull’assenza di risorse e opportunità per gli esclusi, ha il vizio ultimo di disperdere le risorse tutt’altro che infinite in una sterile “spesa per la cultura” e non in un attivo

7)     Investimento in cultura. Ciò è stato pur detto ieri da più d’uno; è vero e ne son testimone; ma con quale codicillo? La stabilizzazione! Qui cade tutto; qui emerge l’insicurezza profonda sulle proprie capacità che sottende il discorso. Un imbianchino chiederà alla sua ditta d’esser stabilizzato: immaginate Parmigianino fare altrettanto? La differenza tra investire in cultura e spendere per la cultura significa abdicare al sostegno delle realtà produttive per sostenere il consumo, che in tal modo però risulterà in gran parte di prodotti d’importazione. Gli effetti negativi sono dirompenti: ed è quasi comico che si finga di non accorgersene. Permettete che chieda all’Assessore:

–         Lei sovvenzionerebbe col bilancio comunale un Ente per la promozione del Prosciutto di San Daniele? E perché il prodotto alimentare no, e il prodotto culturale sì?

–         Farebbe castrare tutti i giovani maschi parmigiani, spossessando così la Città della propria capacità generativa? e perché l’abdicazione biologica e genetica no, e quella dell’identità culturale sì?

–         Esumerebbe le mummie degli antenati per farle interrogare dallo sciamano di turno e aver così responsi sulla gestione del presente? e perché lasciare le mummie ai loro avelli, e tenere a consulto come altrettante Sibille i fossili del pleistocene culturale?

 

Ho denunciato più volte questa specie di follia a vari livelli nella mia terra d’origine. Lascio l’Abruzzo e vengo a Parma. Immaginate la mia faccia nel ritrovarla qui, e con tutti i segni che l’uovo non sia proprio di giornata? che non dispiaccia proprio a tutti? che qualcuno ci abbia eretto una rendita di posizione? E posso testimoniare che tanti si lagnano a denti stretti, rassegnati a tacere a scanso rappresaglie.

 

                        Ma è futile un “cahier de doléance” che non apra al rimedio. Si può intervenire?

Propongo sommessamente alcune linee guida. Sperimentate efficaci.

1)      Il Comune non deve delegare la titolarità degli interventi. L’Ente non deve intervenire né con ukase né con pratiche surrettizie nella gestione delle attività o degli interventi; ma non deve abdicare alle sue funzioni istituzionali di indirizzo e di controllo – non solo finanziario. Contro questa certezza naufraga ogni tentazione a operare da cane sciolto; o a fare del pubblico intervento trampolino d’altri interessi o megafono d’altra propaganda, o lo zoccolo duro finanziario sul quale arroccare una “conventio ad escludendum” esiziale per la stessa comunità da cui invoca il supporto. Vuol farlo? rinunci alla garanzia finanziaria;

2)      Il sostegno finanziario non va mai concesso al soggetto, ma sempre e solo al progetto. Si  sgombri il campo dalla pretesa immotivata di chicchessia d’essere mantenuto in vita anche se non produce, o non produce più, o non ha mai prodotto che poco e male, o anche avendo prodotto bene un tempo oggi produce poco o male. Non c’è Diritto Acquisito o Istituzione che tenga: chi fruisce di pubblico danaro se lo deve guadagnare artisticamente sul campo ogni giorno, e ne deve dare una rendicontazione in termini di costi/benefici. Scorrevo tempo fa un programma del Teatro lirico dell’Assia, che non è tra i maggiori, pensando fosse il programma annuale: era quello del mese in corso. In un Teatro inglese, esattamente a Greenwich, estrema periferia di Londra, ho assistito a una recita la sera di Natale. Un grande soggetto con una grande storia otterrà più credito pei suoi progetti? L’equità lo esporrà un giudizio più rigoroso, proprio in forza delle sue maggiori dotazioni. Io sono cattolico, e dico: applichiamo la Parabola dei Talenti;

3)      Le risorse finanziarie e le risorse umane vanno gestite in parallelo. Ogni euro assegnato a progetti inconcludenti e dato all’incapace è sottratto a chi lo avrebbe ben impiegato; configura sperpero di risorse, danno collettivo, al limite peculato per distrazione;

4)      Non si sostiene chi non mette le carte in tavola. Non si deve ammettere che chi opera sotto l’egida del pubblico supporto si trinceri dietro la sua notorietà: tutti debbono farsi trasparenti; debbono dare l’opportunità al programmatore, cioè al politico, di sapere chi ha a disposizione per cosa; e quanto gli costa; e debbono poter essere controllati. E’ opportuno perciò istituire un pubblico elenco, o albo, o repertorio, o anagrafe, non solo dei “soggetti“, ma di tutte le forze disponibili e operative in campo. Esso verrà articolato non diviso nei capitoli Beni e Attività e tenuto aggiornato a cura degli interessati. Posto in rete ad apposito indirizzo, fungerà tramite opportuni link da repertorio generale dei siti dei singoli soggetti (utile agli operatori, oltre che all’Ente. Cercando – che so – un suonatore di corno saprò dove cercare una persona in certo senso certificata dal Comune). Ogni soggetto ai fini dell’accreditamento presso la pubblica Amministrazione porrà in epigrafe al proprio sito una maschera standard con i dati obbligatori richiesti dall’Ente. Trasparenza e controllo non sono insulti; sono metodo e ricchezza. Non sono i capitolari e i controlli del Consorzio a rendere inimitabile il Parmigiano-Reggiano? Si è parlato in questi giorni di “Brand Parma“. Giustissimo. Ma il marchio d’un prodotto è reso valido dalla qualità dell’organismo che lo certifica. Nel caso del marchio “Parma” è evidente che il proprietario, e quindi il certificatore, è solo il comune omonimo;

5)      Nessuno può pretendere un vitalizio. Nessuno in nessun caso può proporre unaconventio ad escludendum“. Gli “yeomen” inglesi lottarono decenni per opporsi alle “enclosures“, agli steccati dei legittimi proprietari che li escludevano di fatto dai diritti comuni sul territorio; lasceremo edificare steccati analoghi col pubblico danaro? Ma lo scopo del pubblico intervento è esattamente l’opposto;

6)      Il pubblico intervento deve mirare a innescare processi di partecipazione. I soggetti maggiori vanno stimolati a uscire dalle loro torri d’avorio e farsi capifila di iniziative e progetti che coinvolgano in cascata quanti più altri soggetti possibile. Una volta messi in rete soggetti e progetti, occorre procedere alla gestione in cascata di ogni possibile attività. Il prodotto culturale, come ogni prodotto, deve generare indotto. Accettato il principio “investire in cultura“, è evidente che di norma è l’indotto che eleva il valore di quell’investimento misurato sulla scala costi/benefici;

7)      La trasparenza è una grande terapia di prevenzione: massimizziamola. Applaudo convinto all’iniziativa odierna, non solo come prima elementare ricognizione delle forze in campo, ma come primo esempio di chiarità. Che consolazione e che luce hanno portato in questa assise i discorsi di ieri degli esponenti di tante illustri Istituzioni! Ci hanno tolto tanti dubbi! Ci hanno chiarito tanti fatti! Bene; benissimo. Perché non proseguire? Dopo un secondo applauso all’Assessore per l’idea dei tavoli di lavoro, posso avanzare – sottovoce – il suggerimento di istituire infine una Consulta permanente per la Cultura? – una ghiandola puramente funzionale, non strutturale; consultiva, senza alcun potere, senza alcun diritto, senza alcun compenso o rimborso spese ad alcun titolo pei partecipanti, riunendo le parti interessate (gli Stakeholders di cui qui ieri pur si parlava), da cui nel loro stesso interesse l’Assessorato può sperare d’avere contributo d’idee? E convocarla un paio di volte l’anno, per sentire, per sapere, per imparare lo stile della collaborazione, per tentare imprese all’esterno fuor delle gabbie delle individuali specificità, per sottoporre apertamente in quella sede all’Assessore e agli altri interessati progetti, piani, idee, per evitare duplicazioni e sovrapposizioni, sperpero di danaro e d’energie intellettuali e artistiche; e ritrovarci a godere insieme dei risultati insieme raggiunti?

8)      Azioni propedeutiche. Per utilizzare ogni prodotto di questo mondo, vanno seguiti alcuni passaggi obbligati. (mi permetto di chiarire sommessamente che l’unico modo onesto di parlare di cultura è parlarne come d’un prodotto. Troppi sicofanti e contrabbandieri ho visto prosperare all’ombra d’una cultura-feticcio!) I passaggi prevedono la ricognizione dei gusti del pubblico (non per compiacerli, ma per farci i conti!); la ricognizione delle aree d’intervento esperibili; la ricognizione dei sostegni ottenibili; la ricognizione della specificità degli interventi; e almeno l’inizio d’un’opera molto vasta e impegnativa per modificare quei gusti. Intervenire globalmente sulla domanda, o cattiva domanda, o assenza di domanda, e non continuare la querimonia dei contributi che vanno ahinoi scemando, e poveri i nostri cadreghini! è l’unica chiave che apre la porta non d’una risicata e aleatoria sopravvivenza ma della vita. Non c’è infatti nessun senso a fabbricare un prodotto che il mercato non chiede. (un esempio: possibile che non si sia mai attivato un meccanismo per portare a teatro i giovani degli Istituti superiori? Materne, elementari, medie inferiori, sì (comparti chiusi, anche aree assistite – teatro per bambini; teatro per ragazzi); e dai quattordici ai diciannove anni, proprio quando la capacità critica è più avvertita, e si formano gusti e propensioni, più niente?)

 

Concludo sulla crisi. Crisi viene da “crino“, io scelgo. Come la critica. Come il crivello. Così opera. La crisi è democratica. La crisi è malthusiana. La crisi è darwiniana. Ben venga, benedetta la crisi. Senza una periodica crisi tutto muore. Non c’è prodotto artistico all’apice d’una cultura che valga il prodotto della crisi che lo segue. La cultura attica dello scorcio del V secolo, nostra matrice, ci viene dalle guerre del Peloponneso; la massima crisi per Atene.

Seneca e Tibullo e Ovidio e Properzio, e Tacito e Curzio Rufo, Velleio Patercolo e Columella: chi ha mai scritto un latino paragonabile alla lingua della crisi della Repubblica?

Il Michelangelo rinascimentale della Pietà vaticana vale quello manierista della Sistina? Raffaello vale il Rosso fiorentino? o Pontormo, o Andrea del Sarto? Correggio vale Parmigianino? Il primo Verdi vale l’ultimo?

Ci hanno detto: Giuseppe, Giuseppe! Non abbiamo ascoltato. Non era comodo veder le sette vacche magre in agguato dietro il grasso che colava. Perciò siamo tutti i padri della crisi: e chi è arrivato tardi, se n’è fatto adottare. Non è almeno da Nietzsche e Spengler che sappiamo d’una crisi maggiore, la crisi dell’Occidente? La vita stessa non è un processo di continua alternanza di crisi e riequilibrio, secondo quel meccanismo che Cannon battezzò omeostasi? Vorremo davvero darci tutti la patente di malaccorti, e scandalizzarci della crisi?

                        Tre anni senza un euro per nessuno; e poi si ragiona tra sopravvissuti. Sarebbe bello, eh? L’ipotesi è di scuola; certo però bisogna approfittare della crisi. Senza la durezza della crisi come scrollarsi di dosso cattive abitudini e cattivi soggetti? Le salvaguardie? Sono sbagliate; se ci sono mezzi per tutto e tutti, transeat! in un periodo di crisi non possiamo strangolare il nuovo per mummificare il vecchio. Ognuno per suo conto? Se c’è un Dio per tutti… ma nella crisi, impossibile: o si fa sistema o si muore – e nessuno si illuda di abitare plaghe esenti dal contagio, la Morte Rossa non si ferma al portone. L’unità di prodotto come variante autonoma rispetto alla spesa? Se c’è da sperperare; ma se il danaro è contato, o produci a costi ragionevoli, o sgombra il campo a chi sa farlo.

            Salvaguardia e stabilizzazione generano pletora in ogni campo. Attenzione, attenzione: nei tempi di stabilità, sono vincenti la grandezza e la forza, la tendenza è al gigantismo – vedi i dinosauri, vedi i mammut; nei tempi instabili e critici invece la piccolezza e l’adattabilità. Più l’Istituzione è grande più soffre; più è probabile che muoia. La crisi depura. Fa dimagrire i corpi, e di conseguenza migliora la circolazione – del sangue come delle idee. La Crisi – parafraso un celebre Heinlein – è una severa maestra. I figli della crisi sono i vincenti. Sta a noi capirlo e approfittarne. Farne la nostra arma almeno per il secolo futuro.

Vi ringrazio dell’attenzione.

Enzo Vanarelli
ASSOCIAZIONE LINGUAGGI TEATRO ARTE
www.associazionealta.it

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